E così anche lo stagionato Ry Cooder, classe 47', da Santa Monica, dopo una vita passata ad esplorare tutti i generi musicali possibili ed immaginabili, ritorna a noi con l'ennesimo lavoro di studio, "Pull up some dust & sit down", dopo la precedente trilogia del decennio zero dedicata alla sua terra d'origine, con vertice in "Chavez Ravine" (2005),nel quale si esibiva in un ottimo spagnolo.
Ry dopo l'interminabile parentesi di colonne sonore che sembrava non finire mai, ha deciso che francamente era troppo, e dopo ben 6 anni di assenza seguiti al clamoroso successo del progetto Buena Vista Social Club nel 1997, con lo svoltare del nuovo secolo ha ricominciato a farci risentire pure la sua splendida voce. Il disco, lo diciamo subito, riporta Cooder ai livelli che gli competono, ritorna il grande compositore che in gioventù ci aveva deliziato con albums eccellenti quali "Into the Purple Valley" (1972), "Paradise & Lunch" (1974) e "Chicken Skin Music" (1976). Il disco come dice il titolo solleva un vero polverone, è infatti un vero e proprio attacco all'America capitalista, un pugno in piena faccia equivalente a quelli che regolarmente ci regala il grande Michael Moore nel cinema. Bella l'intro di No banker left behind, quasi bandistica, con frecciate ed accuse allo schifoso mondo di Wall Street che da sempre condiziona la vita degli yankees, mentre nel El corrido de Jesse James(in contrapposizione voluta ai banchieri della precedente) ma anche in Christmas time this year e Dreamer, sembra di essere ad una di quelle fiere chicane del Messico più sanguigno, in puro Los Lobos style degli esordi quando preferivano cantare nella madrelingua spagnola. Tutte le tracce nascondono sorprese, niente in questi solchi sia meno che eccellente, I Want my crown ad esempio, con fantasmi di Howlin Wolf/Beefheart/Tom Waits nell'ordine che preferite. Sono le slow ballads a prevalare in "Pull up some dust & sit down", antico retaggio di anni di soundtracks, nelle quali la magica slide di Cooder la fa da padrone, stupende Dirty Chateau, John Lee Hooker for president (nemmeno Obama viene risparmiato da Ry) e la conclusiva No hard Feelings, sognante e romantica, con citazioni per il leggendario Woody Guthrie, "this land should have been our land". Le più ferocemente polemiche di tutto l'album sono tuttavia Baby joined the army, ovvero gli americani e le loro stupide guerre imperialiste spacciate per missioni di pace e Quicksand (splendidi sia il video che la canzone), dove Ry spezza una lancia a favore dei milioni di immigrati latinoamericani, criminalizzati da sempre dai bigotti, corrotti e reazionari stati uniti, problema che il nostro sente molto da vicino essendo Los Angeles da sempre terra di sbarco per questi emarginati. Ry Cooder oltre a far centro una volta di più rappresenta l'eccezione che conferma la regola, ovvero si può continuare a fare eccellente musica anche a distanza di molti anni, senza scendere ad alcun compromesso, rimanendo sè stessi, fregandosene del music business e di tutte le sue stupide e deprecabili leggi.
Ricardo Martillos
RY COODER AT NONESUCH RECORDS
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