sabato 26 febbraio 2011

RAMBLIN’ JEFFREY LEE: “Ramblin' Jeffrey Lee & Cypress Grove with Willie Love” (1992, Triple X Rec.) + 'Jeffrey's Blues' 1987 Documentary

Jeffrey Lee Pierce è passato a miglior vita nel 1996, a 38 anni, ma i suoi dischi, la sua voce inquieta e sofferta, sono rimasti compagni fedeli delle nostre giornate : la sua ultima incarnazione é stata Ramblin' Jeffrey Lee, che nel 1992 ci fece dono di “Ramblin' Jeffrey Lee & Cypress Grove with Willie Love”, un album realizzato in compagnia del prodigioso chitarrista Cypress Grove, il batterista Willie Love, il bassista Carl La Fong e l'armonicista Kimberley S.. Il disco, inciso per la Triple X Records fu pubblicato e distribuito in Europa dalla francese New Rose, benemerita etichetta che già allora aveva al suo attivo un catalogo folto di artisti per la maggior parte esuli dall'America, rockers maledetti e perdenti come Willie Loco Alexander ed Alex Chilton, menestrelli squisiti mai prostituitisi alle lusinghe del mercato e dei facili trend come Elliott Murphy, reduci dei gloriosi anni del punk come l'australiano ex-Saints Chris Bailey: fatale direi che un 'loser' per antonomasia come Pierce approdasse tra le braccia caritatevoli e sensibili al rock 'perduto' e ‘perdente' di monsieur Patrick Mathe, boss della New Rose. In passato però Jeffrey qualche abboccamento l'aveva già avuto con questi francesi dal cuore tenero e dallo squisito palato rock! Stiamo parlando di un disco votato per tre quarti buoni al culto del blues, vecchia ed insana passione di Jeffrey sin dalle atmosfere voodoo-blues dell'immortale debutto con i suoi Gun Club, “Fire Of Love”. Qui si va al cuore della faccenda: é alle radici rurali di questo immortale genere che Jeffrey si ricollega ostentatamente, spingendosi in atmosfere prettamente acustiche e vocalismi crudi ed antichi: Pony Blues di Son House (o Charlie Patton?), Future Blues (Willie Brown?), Long Long Gone di Frankie Lee Sims.Tutti padri storici anche se in qualche caso poco conosciuti del blues americano.
Di Pony Blues ricordo una vecchia e bella versione dei Canned Heat sull'importante doppio album “Livin' The Blues” del 1968. Jeffrey Lee stesso ricorda con grande nostalgia e rispetto i Canned Heat (che ebbero negli anni '60 un ruolo fondamentale nel far conoscere il patrimonio blues dei padri al popolo hippie della California), nel documentario del 1987 'Jeffrey's Blues' che vi offriamo integralmente alla fine dell'articolo.
Goin' Down di Don Nix, Bad Luck & Trouble e Moanin' In The Moonlight di Chester Burnett presentano invece una sontuosa veste elettrica (Goin' Down/Pony Blues/Bad Luck & Trouble): si tratta di blues urbano ad un passo dagli insegnamenti di Muddy Waters. Ci si spinge però oltre soprattutto in Moanin' In The Moonlight che é nevrotica e maledettamente noise-blues. Con la finale Hardtime Killin' Floor Blues si torna a toni sommessi di intimo dolore: Jeffrey se ne fa portatore impareggiabile, sembra che Skip James abbia scritto questo brano proprio per lui; o probabilmente é il suo mood fatale a permeare questi brani antichi di una nuova 'maledetta' espressività!
Ho lasciato per ultimi i due brani di J.L.Pierce, Stranger In My Heart e Go Tell The Mountain (titolo anche della sua autobiografia ), splendidi richiami ai fasti dei Gun Club, ricchi di lunghe sortite chitarristiche (davvero bravo Cypress Grove!), smaglianti revival rock-blues perduti in profondi abissi di maledetta solitudine. Un grande disco controcorrente, intransigente, così come é sempre stato il personaggio ed artista Jeffrey Lee Pierce, auto-ribattezzatosi per l'occasione 'Ramblin (vagabondo!), impenetrabile nel suo look (impermeabile di pelle/cappello neri), sguardo torvo ed inespressivo! Un disco così privo di orpelli da sembrare irritante.
Per una più completa blues-connection di Jeffrey Lee Pierce eccovi infine qui linkati i 18 minuti del documentario del 1987 "Jeffrey's Blues" (Part 1 - Part 2)
Wally Boffoli

Ramblin' Jeffrey Lee & Cypress Grove - Handsome Molly
Alabama Blues (Robert Wilkins)

JeffreyLeePierce&CypressGrove

BEADY EYE, la nuova creatura di Liam Gallagher : "Different Gear, Still Speeding" (Febr.28 2011, Big Brother/Beady Eye Rec.)

‘Altra storia, con la stessa velocità’, più o meno così recita (con chiaro riferimento agli Oasis) il titolo del primo album dei Beady Eye, la nuova band che Liam Gallagher ha messo su nel 2009 nel momento stesso in cui gli Oasis ufficialmente si scioglievano con l’allontanamento del perennemente amato/odiato ‘brother’ Noel.
In realtà i Beady Eye schierano a mò di new-Oasis tre ex di quella band, Gem Archer alla chitarra, Andy Bell al basso e Chris Sharrock alla batteria: con essi Liam ha pubblicato un primo singolo nel novembre 2010, Bring The Light ed un secondo, The Roller è uscito prima online e poi nei negozi tra gennaio e febbraio 2011.
L’album “Different Gear, Still Speeding” sta per uscire proprio mentre scrivo, ed il primo tour europeo (che dovrebbe toccare anche l’Italia) e giapponese della nuova band di Liam è previsto tra marzo e luglio 2011. Questi i fatti. Passando all’album la prima cosa che colpisce è il produttore: Steve Lillywhite, l’uomo che sta dietro a tanti capolavori della gloriosa e fondamentale new-wave anglosassone, “Drums and Wires” e Black Sea” degli XTC, il debutto e “Talk Talk Talk” degli Psychedelic Furs , “Ha!- Ha!- Ha!” degli Ultravox, U2, Pogues, Siouxsie & the Banshees, Eddie & the Hot Rods. Lillywhite anche questa volta non si smentisce conferendo ai brani di “Different Gear, Still Speeding” un suono denso, compatto, nitido (qualcuno si ricorda del primo Psychedelic Furs?), che si sprigiona prepotente dalle casse dell’impianto o del vostro p.c., a cominciare dall’iniziale potente Four Letter Word, che forte del massiccio apporto dei fiati fà da efficacissima apripista al lavoro. Lo stesso “wall of sound” d’ascendenza Spector-iana che si ritrova in Standing On The Edge Of The Noise e nei legni dell’epica cover degli World Of Twist Sons Of The Stage (b-side di Bring The Light su vinile).
Rispetto agli album degli Oasis qui troverete un sound notevolmente più fresco e una maggiore varietà di stili, come lo sfacciato look rock & roll del singolo Bring The Light, le sfumature blues della sintomatica Beatles And Stones ed il mood ‘jazzy’ della deliziosa World Outside My Room, che non compare nella tracklist ufficiale dell’album): a trionfare comunque in questi solchi è ancora una volta quel concetto di pop profondamente anglosassone , troppo ‘derivativo’ a detta dei detrattori, portato al successo planetario dagli Oasis. Radici ben piantate in un songwriting assolutamente John Lennon : ascoltate il singolo The Roller e Three Ring Circus, con Liam Gallagher in pieno Lennon-transfert vocale e ditemi se non vi sembra di essere al cospetto di due novelle Instant Karma. Il disco contiene più di un potenziale hit (a prescindere dai due singoli) come l’orecchiabilissima e leggiadra (troppo leggerina probabilmente per i detrattori) For Anyone, un gioiellino di artigianato pop, l’esotica Millionaire, la fascinosa ballata Kill For A Dream, sino a piccoli capolavori di scrittura, con un ispiratissimo Liam Gallagher sugli scudi a farci vibrare come non sospettavamo potesse ancora accaderci: la finale, lunga, evanescente The Morning Son, dalla coda dannatamente psyche (lo so, il paragone con A Day In The Life è irriverente!) sembra davvero voler perpetuare la stagione d’oro del pop anglosassone immortalata dai quattro di Liverpool in album come "Sgt.Pepper", "Revolver" e "Rubber Soul"; Wigwam e The Beat Goes On attingono alla lezione del pop-psyche inglese made in ‘60 più aristocratico. La vedo davvero dura per i detrattori più volte evocati in questa recensione gettare anche stavolta fango sullo sfrontato ed antipatico Liam e sui Beady Eye, la sua nuova splendida creatura.
Wally Boffoli

BeadyEye

venerdì 25 febbraio 2011

MUSICAL BOOK REVIEWS - "La grande rapina ai Led Zeppelin" di Jason Buhrmester (2010, Fanucci)

«Gli album scorrevano sotto le mie dita. Paranoid, Volume 4, Master of Reality e naturalmente Black Sabbath, l'album che rappresentò l'inizio di tutto per la più grande band del mondo: i Black Sabbath. Ne presi una copia di ognuno, me li ficcai sotto il braccio e mi guardai attorno. Il negozio si chiamava Record Barn e ci venivo da quando ero ragazzino. Al liceo ero solito sgattaiolare in cucina nel bel mezzo della notte per prepararmi uno spuntino così da tenermi i soldi del pranzo del giorno dopo. Alla fine della settimana avevo risparmiato abbastanza per un paio di 45 giri».

Si presenta così nelle prime righe del libro, Patrick Sullivan, il protagonista del romanzo "La grande rapina ai Led Zeppelin" di Jason Buhrmester, giornalista e collaboratore di Rolling Stone Italia. E' appena tornato a Baltimora da New York dove ha vissuto per alcuni mesi dopo aver partecipato a una rapina finita male che è costata invece otto mesi di prigione per violazione di domicilio al suo amico Alex. Patrick gira con un gruppetto di amici, ventenni come lui, che sopravvive di espedienti più o meno leciti e vive di musica, di musica rock, ciascuno seguendo le sue passioni. Per Patrick i Black Sabbath e poco altro.

«Si udiva una musica di sottofondo. Qualcosa di tosto e rumoroso. Roba che mi piaceva. Chi sono?” domandai.
“Gli Stooges. Sono di Detroit.”
“Niente male.”
“Scherzi? Ti piace sul serio qualcos'altro a parte i Black Sabbath?”
“Giusto per ammazzare il tempo fino al loro prossimo album.”

Il romanzo è ambientato negli anni '70 e i ragazzi distribuiscono le loro passioni musicali tra Black Sabbath, Rolling Stones, Stooges, Doors, Who, Animals e naturalmente Led Zeppelin. A Patrick i Led Zeppelin non piacciono, li odia ancora di più quando viene a sapere da Frenchy dei vari “furti” di brani: You Need Loving degli Small Faces che è diventata Whole Lotta Love , Dazed and Confused ripresa dagli Yardbirds, primo gruppo di Jimmy Page, l'attacco di Stairway to Heaven copiato dagli Spirit. E proprio a lui viene l'idea di rapinare la band inglese mentre è in tour a Baltimora.

«E quale sarebbe l'idea di cui parlavi?” chiese Frenchy.
“Derubare i Led Zeppelin.”

Nessuno disse niente. Alla fine, Keith si mise a ridere.

“Figli di puttana. Prima mi fate credere che Jim Morrison è andato a Soul Train e adesso ve ne uscite con questa stronzata. Bel tentativo, ragazzi.”
“Sto dicendo sul serio”»

Lavorando per il catering dei Led Zeppelin, Patrick ha scoperto che il manager si fa pagare sempre in contanti, la sera stessa, dopo il concerto. Il problema è come riuscire ad avvicinare i Led Zeppelin nell'albergo in cui stanno e per scoprirlo Patrick riaggancia la sua ex fidanzata la cui sorella fa parte dei Misty Mountain Hoppers, un fan club degli Zeppelin. Scopre quindi che Jimmy Page durante i tour compra chitarre e i ragazzi decidono di andare a proporgli una Fender Telecaster del 1960.

«Le persone presenti nel backstage si erano già ammassate al lato del palco per guardare gli Zeppelin, e io e Frenchy procedevamo a grandi passi lungo l'ampio corridoio. Gli Zeppelin avevano attaccato con Rock and Roll per poi passare a Celebration Day. La batteria rimbombò contro le pareti di cemento del corridoio deserto mentre noi avanzavamo verso il palco (…)

Jimmy Page si ergeva al cospetto delle casse, le spalle alla folla. Il suo viso era incorniciato da una corona di boccoli sudaticci e scuri. Indossava pantaloni a zampa d'elefante ricoperti di ricami e un piccolo giubbotto in tono senza camicia sotto. Simboli bianchi erano allineati sulla gamba dei pantaloni e sui polsini del giubbotto. La chitarra gli pendeva bassa, all'altezza delle ginocchia, lui era incurvato con la testa in avanti, intento a estrarre dallo strumento gli accordi di Celebration Day. (…)

Gli Zeppelin ci diedero sotto con Black Dog e Over the Hills and Far Away, dopodiché si lanciarono in Misty Mountain Hop. Robert Plant danzava sul bordo del palco, portava jeans attillati e un minuscolo gilè. Fece roteare il microfono con la corda e pompò con i fianchi in direzione della folla. La gente andò in delirio. Le luci sul pubblico si abbassarono e gli Zeppelin rallentarono al ritmo di Since I've Been Loving You.
Il pigro giro di basso di John Paul Jones rombava sul palco. Battei il tempo col piede e diedi una controllata all'orologio. Per quanto avrebbero suonato?»
.

Alla fine del concerto Patrick e Frenchy avvicinano il gruppo e Richard Cole, il tour manager della band, e Frenchy, più esperto di chitarre, gli propone la Fender. Ma Jimmy Page non è interessato così Frenchy, preso dal panico per il gancio che stava per perdere, dice al manager che ha anche una Les Paul del '58, una delle chitarre più rare al mondo. Questa volta Page è ovviamente interessato e il manager lo invita a portargliela in albergo a New York. Il piano può dunque partire ma c'è un piccolo problema: Frenchy non ha una Les Paul del '58! L'unica chitarra del genere in zona è al banco dei pegni. I ragazzi devono quindi prima di tutto rapinare il banco dei pegni per impossessarsi della chitarra e quando lo fanno vanno inconsapevolmente a pestare i piedi ai Blackwoods, una banda di motociclisti, e al loro leader Billy, e da quel momento cominciano una serie di avventure che proseguono per il resto del romanzo - e che ovviamente lasciamo scoprire al lettore - nello scorrere dei capitoli che, per inciso, hanno spesso il titolo di brani noti, come Let's Spend the Night Together, No Fun, Electric Funeral, Nobody's Fault but Mine e così via. "La grande rapina ai Led Zeppelin" è un romanzo leggero e scorrevole che, come ben dice una frase sulla copertina del libro, piacerà ai fanatici del rock.

Rossana Morriello


Led Zeppelin vs Black Sabbath
Whole Lotta Sabbath (mashup)

FRANK ZAPPA - "THE EARLY SOLO YEARS" First Part: "Hot Rats" (1969, Bizarre/Reprise)

E' con estremo piacere che mi presento a voi di Distorsioni con FRANK ZAPPA: "The Early Solo Years", progetto riguardante l'affabulazione sui primi tre dischi solisti di Frank Zappa pubblicati a suo nome, senza le Mothers Of Invention: "Hot Rats" (1969, Bizarre/Reprise/Rykodisc), "Chunga's Revenge" (1970, Bizarre/Reprise/Rykodisc) e "Waka-Jawaka" (1972, Bizarre/Reprise/Rykodisc); nel 1968 era stato pubblicato il side-project sperimentale di Frank Zappa "Lumpy Gravy" (Verve/Bizarre). In questa prima parte di "FRANK ZAPPA: "THE EARLY SOLO YEARS" mi occuperò del fondamentale, storico "Hot Rats". Un chitarrista, compositore, scrittore, film-maker, una mente brillante e libera la cui opera vastissima e preziosa costituisce ancora oggi e più che mai fonte di delizia e d'ispirazione per tantissimi appassionati di musica ed artisti in tutto il mondo! (Vincenzo Erriquenz)


Alcune note biografiche
Volendo evitare noiose documentazioni biografiche, peraltro facilmente reperibili in rete, mi limiterò a segnalare alcuni elementi salienti, distintivi della personalità di Frank Zappa e del suo lavoro discografico. Nato a Baltimora nel 1940 da Rose Marie e Francis Vincent Zappa, Frank visse i primi anni girando varie basi delle Difesa americana, essendo il padre un chimico/matematico al servizio dell'Esercito. Questo ebbe influenza anche sulla sua salute, poiché abitando nelle vicinanze dei depositi di iprite nella base presso la quale il padre lavorava, egli fu esposto a questi gas venefici, cosa che gli procurò gravi problemi, tra cui emicranie, otiti e riniti (si dice sciaguratamente curati da medici dell'epoca con l'inserzione nelle narici di barrette di radio!). Il continuo peggiorare della sua salute fece decidere i genitori a stabilirsi definitivamente a San Diego. Qui Frank, complice il regalo di un giradischi, cominciò ad appassionarsi di musica, principalmente R'n'B, di cui divenne un collezionista, soprattutto di singoli: in seguito, leggendo una rivista, si appassionò alla musica classica contemporanea di Edgar Varese, di cui rimase estimatore ed amico fino alla morte. Crescendo, cominciò a suonare la batteria in gruppi soul e R'n'B, si approcciò alla chitarra e si interessò di composizione, sempre in modo assolutamente autodidatta. Con la stessa curiosità intellettuale lavorò come grafico pubblicitario e tecnico di studi di registrazione, approfondendo le varie tecniche di ripresa e produzione del suono e componendo delle colonne sonore per dei B-movies. Subì un ingiusto arresto per produzione di materiale pornografico nei suoi studi di registrazione, chiamati Z Studios, accusa presto decaduta ma che non gli impedì di andare per breve tempo in prigione e sviluppare un ancor più aspro spirito libertario ed anti-autoritario. In seguito fu ingaggiato come chitarrista dei Soul Giants, nucleo originario della band che poi diventò Mothers, poi denominati Mothers of Invention sotto pressione della Verve Records che li aveva messi sotto contratto, temendo riferimenti alla parolaccia “Motherfu##ers”, autori di una miscela esplosiva di rock'n'roll, blues, musica d'avanguardia e jazz, condita da testi irriverenti e bizzarri ad opera di Frank, producendo album seminali come “Freak out!”(1966), ”Absolutely free”(1967), ”Lumpy Gravy”(1967), ”We're only in it for the money”(1968) e “Cruising with Ruben and the jets”(1968).


Hot Rats (1969, Bizarre/Reprise/Rykodisc)
Siamo alla fine del 1969, i Mothers of Invention, (Frank Zappa: chitarra e voce, Ray Collins: voce solista, Roy Estrada: basso e voce, Jimmy Carl Black: batteria e voce, Don Preston: tastiere, Ian Underwood: sassofono, clarinetto e piano, Bunk Gardner: sassofono, flauto, clarinetto e fagotto, Billy Mundi: batteria) nonostante siano acclamati dalla critica e forti di un certo riscontro commerciale in Europa, in America faticano ad avere delle rendite dignitose, tanto da dover costringere Frank Zappa a pagare di tasca propria le royalities per i membri della band. I malumori crescono, Zappa lamenta il fatto che gli altri elementi non siano abbastanza concentrati sulla musica, mentre gli altri lo accusano di scrivere pezzi sempre più intricati, basati su complesse partiture che richiedono perfezione formale ed esecutiva a discapito del feeling, nel mezzo l'audience americana fatica a digerire questa direzione musicale, abituata al formato più rock'n'roll/canzone dei Mothers. Così Zappa scioglie la band, adducendo motivazioni meramente economiche, e si concentra nella lavorazione di dischi a suo nome, producendo “Uncle Meat” (con le Mothers, April 1969, Bizarre/Reprise) e subito dopo ”Hot rats”(October 1969). “Hot Rats”, dedicato al figlio Dweezil appena nato e definito dallo stesso Zappa un “film per le vostre orecchie!”, è un disco fondamentale perchè esprime tutte le sue curiosità artistiche sulla “musica da camera elettrica”, spaziando da lunghe e mantriche improvvisazioni chitarristiche a complesse partiture arrangiate con fiati e suoni sovraincisi. Molto curato anche esteticamente, il long playing si presenta con foto ad infrarossi ed una colorata copertina interna con un collage di foto che esprime la creatività e la bizzarrìa dell'era psichedelica, sebbene Zappa ne sia un caustico critico. Esso inoltre beneficia di una tecnologia produttiva mai vista prima, essendo stato inciso con un registratore multitraccia a 16 tracce indipendenti, il cui prototipo studiato da Frank fu ultimato dalla Ampex (se pensate che i Beatles e Sir George Martin nello stesso periodo sperimentavano tecnologicamente con l'ausilio di un 8 tracce!), allargando a dismisura le potenzialità espressive ed orchestrali del suono con un organico relativamente ridotto.

Side A
Prova ne è già il primo brano Peaches en Regalia (6:01) brano che mescola pop e jazz in modo geniale, coadiuvato da suoni di basso e batteria registrati a velocità normale e sovrincisi a velocità doppia per conferire quel retrogusto bizzarro e caricaturale tanto caro a Zappa, si passa poi a Willie the Pimp (9:18) un brano di acido blues con alla voce quel genio e compagno di affinità elettive di Zappa, Captain Beefhart, intriso di fendenti di chitarra elettrica ed assoli di violino. Il terzo brano è Son of Mr. Green Genes (8:58), un riarrangiamento del brano già presente su “Uncle Meat”, che vede unire le ricche ed articolate partiture dei fiati con estesi assoli di chitarra elettrica di Zappa e suoni sovraincisi, per una cavalcata sonora assolutamente godibile!

Side B
Il quarto brano dell'album che apre il lato b del disco è Little Umbrellas (3:04), che a differenza degli altri è più breve, seppure arrangiato con estrema cura: presenti elementi tra jazz e rock punteggiati da tastiere, pianoforte e piano elettrico, con un intervento sognante di flauto. si prosegue con il celeberrimo The Gumbo Variations (16.55), torrenziale jam di circa tredici minuti (che nella versione cd posteriore beneficia di ulteriori 16 minuti di musica!), con annessi assoli di sax, violino e chitarra che surriscaldano l'atmosfera da improvvisazione! Chiude questo meraviglioso, seminale album, It must be a Camel (5:15), il cui titolo presumibilmente deriva da alcune gobbe formatesi sui fogli delle partiture di Frank(!), che tra bizzarri ostinati, suoni di rullante e piatti enfatizzati dalle moderne tecniche di registrazione, interventi di pianoforte di matrice jazz ed assoli della chitarra di Frank, qui più pulita e dalle sonorità mediorientali completa questo affresco sonoro assolutamente suggestivo, un album non a caso passato alla storia! Per onore di cronaca bisogna dire che dalle sessions di questo album uscirono anche i brani Bognor Regis, che avrebbe dovuto far parte di un singolo apripista all'album ma che alla fine non vide la luce, e Twenty Small Cigars, poi incluso nell'album “Chunga's Revenge”(1970).

Un doveroso cenno ai musicisti coinvolti:

Max Bennett – basso su tutti i brani eccetto Peaches en Regalia;
Captain Beefheart – voce in Willie the Pimp;
John Guerin – batteria in Willie the Pimp, Little Umbrellas e It Must Be a Camel;
Don "Sugarcane" Harris – violino in Willie the Pimp e The Gumbo Variations;
Paul Humphrey – batteria in Son of Mr. Green Genes e The Gumbo Variations;
Shuggie Otis – basso in Peaches en Regalia;
Jean-Luc Ponty – violino in It Must Be a Camel;
Ron Selico – batteria in Peaches en Regalia;
Lowell George – chitarra.

Vincenzo Erriquenz

Frank Zappa Hot Rats

giovedì 24 febbraio 2011

LIVE REPORT: Wire - Roma, 21 febbraio, Circolo degli Artisti, 2

Degli Wire si è detto molto, a volte male. La verità è che la triade sfornata a raffica nel triennio ‘77-’79 (“Pink Flag”, “Chairs Missing” e “154”) ha spiazzato tutti. Ha rappresentato il monolite di provenienza aliena al quale per anni si è girato intorno per tentare un’identificazione, una classificazione, una definizione appropriata. La verità è che il gruppo di Colin Newman è talmente etereo e mutevole che sfugge ad ogni banale tentativo di catalogazione. Ristretto andare a cercare le solite trite definizioni di band post-punk o new wave caratterizzata da un approccio intellettuale e sperimentale, stiamo parlando di artisti dada, di fenomeni mutanti. Del resto l’arte è una libera espressione di creatività e talento e certamente Newman, così come Bruce Gilbert e Robert Gotobed, erano tre studenti di belle arti i cui intenti primari erano quelli di trovare linee comunicative alternative. Ne sentirono l’urgenza sul finire degli anni ’70, quando tutto veniva buttato nel calderone della protesta, dei fervori punk di giovani alienati e frustrati, di rumorismo fine a se stesso; ne sentono l’esigenza ora, dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti e c’è da supporre che faranno lo stesso per gli anni a venire, anzi c’è da scommetterci.
Con "Send", nel 2003 hanno imposto la loro totale autorità di veterani capaci ancora una volta di precorrere i tempi, di delineare suoni minimali e corposi all’insegna di un cyber punk marziale e introspettivo, frenetico ma d’atmosfera, a riassumere anni di sperimentazione libera e sfrenata, progetti paralleli ed EP all’insegna di una agognata autoproduzione. Con l’ultimo lavoro "Red Barked Tree" (2011) il quartetto ormai privo di Gilbert, non si concede nessuno sconto e con un piglio coraggioso e coerente si rimette in gioco con la stessa enfasi di una band ai suoi esordi, ricercando, sperimentando, solcando ancora una volta traiettorie estremamente eterogenee, frutto di una curiosità e di una freschezza senza fine, di una qualità estetica, di una rabbia raffinata che non ha eguali. Incontrare questa storica band dal vivo è stata un’emozione che ancora una volta si caratterizza per essere semplicemente sorprendente. Sorprendente il loro modo di presentarsi sul palco, sorprendente il repertorio eseguito, sorprendente la loro calma apparente di signori ingrigiti e dall’aspetto pacato e la forza devastante, il muro sonoro incontenibile, capace di fuoriuscire dai loro strumenti. Energia fluttuante allo stato puro.
Diciotto i brani presentati e due ore di concerto nella loro seconda tappa del tour italiano, Roma, 21 febbraio 2011, Circolo degli Artisti.
Esordiscono con Smash uno dei brani di maggior tensione strumentale dell’ultimo lavoro, Newman fa un cenno rapido di saluto al pubblico e dedica il pezzo al cavaliere Berlusconi e al colonnello Gheddafi. Comet e Spent sono un effetto sberla che culmina in riff di chitarre quasi incontenibili per poi finire con uno stacco secco assolutamente imprevedibile. Two people in a room e 106 beats that ci riportano alla rabbia primordiale di "Pink Flag" e "154", lame taglienti difficili da schivare; vengono però mitigate dai tocchi più melodici di Kidney bingos, Boiling Boy, e la bellissima quanto inaspettata Underwater experiences completamente stravolta rispetto alla versione originale, arricchita da un suono martellante e ossessivo di base e velocizzata nei passaggi di basso di Graham Lewis. Quest’ultimo col suo impeccabile glamour tenuto alto dalla sua espressione severa e quasi un po’ arcigna è l’unico che si è concesso la stravaganza di un cravattino nero a pois, da esperto stilista quale è, e di un cappellino dal sapore scozzese con l’immancabile pon pon rosso, peccato solo che durante le sue sferzate di basso lo abbia ripetutamente perso finendo inevitabilmente per accantonarlo.
Please Take e Red barked tree sono piacevoli e coinvolgenti e danno modo di sfoderare virtuosismi stilistici, giuste dosi di elettronica e loop digitali. E mentre non si può fare a meno di domandarsi se a prevalere sia la loro parte easy listening o quella più arrembante e ossessiva, dopo l’ascolto spiazzante di Adapt chiude il concerto una versione di Pink Flag che lascia letteralmente atterriti, la prima parte ancor più feroce e velocizzata rispetto alla versione dell’album, la seconda enfatizzata da un groviglio di distorsioni che suggeriscono un suono quasi spaziale, che giunge da distanze siderali per poi andare ad attutirsi lentamente: la batteria tace, le luci quasi spente e tutti i musicisti sono piegati a terra sulle ginocchia puntando direttamente sulle corde questi AMPLIFICATORI DIGITALI PORTATILI (Sustainer) che fanno arrivare il suono della vibrazione per un tempo quasi senza fine. Non posso fare a meno di figurarmi quella bandiera rosa sventolante da 34 anni su quella landa desolata e indefinita, penso ad un passaggio, a delle conquiste e ad un posto che rimane vuoto, poiché loro sono già avanti anni luce, proiettati nell’irraggiungibile.
See you next time” ci dice Colin Newman, prende la sua chitarra, il suo enorme asciugamano bianco e si ritira velocemente. Precisione tutta inglese sono le 0:00 esatte!
Romina Baldoni
(fotografie di Romina Baldoni)

scaletta:
1. Smash (Red Barked Tree, 2011)
2. Advantage in height (The Ideal Copy, 1987)
3. Comet (Send, 2003 e Red & Burn 1 EP, 2002)
4. Please Take (Red Barked Tree)
5. Red barked tree (Red Barked Tree)
6- Kidney bingos (A bell is a cup … until it is struck, 1988)
7. Clay (Red Barked Tree)
8. Bad worn Thing (Red Barked Tree)
9. Moreover (Red Barked Tree)
10. Two people in a room (154, 1979)
11. 106 beats that (Pink Flag, 1976)
12. Boiling boy (A bell is a cup … until it is struck)
13. Spent (Send  e Red & Burn 2 EP)
14. Down to this (Red Barked Tree)
15. Drill (The Ideal Copy, 1987)
16. Underwater experiences (Behind the Curtain,1995: '77, '78 Unreleased Songs)
17. Adapt (Red Barked Tree)
18. Pink Flag (Pink Flag)

formazione:
Colin Newman, Wire's front-man, rhythm guitarist
Edvard Graham Lewis, bassist
Robert Grey (Gotobed), drummer
Matt Simms, guitarist

SHORT REVIEWS - Animation, “Asiento” ( 2011, RareNoise Records)

Proprio mentre sto redigendo una retrospettiva sul jazz-rock, ecco che mi capita di intercettare questo disco, rivisitazione del classicissimo di Miles Davis “Bitches Brew”. Diciamo subito che non è, giustamente, credo, una semplice interpretazione: possiamo semmai definirlo un “nuovo originale”, che rilegge l'opera geniale di Davis con gli occhi di oggi. “Asiento”, in effetti, ci mostra musicisti che, in piena libertà, con rispetto ma anche con radicalità, riprocessano un capolavoro di 40 anni fa, adeguandone i suoni ai parametri del 21° secolo, fotografati dalla sempre meritoria BBC durante un concerto tenutosi nel dicembre 2006 alla Merkin Hall di New York. Il gruppo è formato da Tim Hagans (tromba), Bob Belden (sax), l'ispiratore dell'operazione, Scott Kinsey (tastiere), DJ Logic (giradischi e rumori vari), Matt Garrison (basso), uno dei protagonisti dell'album, degno figlio del grande Jimmy, bassista di John Coltrane e Guy Licata (batteria). Il suono che i sei producono ha i piedi saldamente piantati nella modernità, ma riecheggia piacevolmente i mai tanto rimpianti “seventies”. Un disco che chi ha amato il jazz-rock non potrà non apprezzare.
Luca Sanna

SHORT REVIEWS - Giovanni Marton, “Non sogno l'estate” (2011, Discipline/Believe)

Interessante, per chi come me aveva vent'anni in epoca new wave, sentire l'EP di debutto Non sogno l'estate del 21enne Giovanni Marton, che riprende un pop elettronico alla Garbo, ma ancora di più vicino a Bluvertigo e Soerba, che era di moda quando lui non era ancora nato. E non è certo l'unico, come ho riscontrato ai festival. Il disco contiene sei canzoni molto orecchiabili, dominate dalle tastiere dello stesso Marton, che suona anche basso e melodica e canta, a volte anche con la voce filtrata come spesso avveniva nel pop elettronico. I testi, che si rifanno a un dandismo stile Baustelle/Amor Fou, alternano la critica sociale, come in Limiti privati accantonati  ai dolori personali, come nella title-track o in La malattia (a volte in maniera un po' troppo ostentata). Si tratta di un disco certamente acerbo, tuttavia buone doti di scrittura e il buon gusto negli arrangiamenti emergono all'ascolto. Con un po' di lavoro di lima sui testi e management attento Giovanni Marton può fare strada.
Alfredo Sgarlato

mercoledì 23 febbraio 2011

MADE IN ITALY - The Mexican Whi-Sky, "Into The Sun" (2009, Mexo Records)


Disco di esordio del trio veneziano The Mexican Whi-Sky (che si può anche pronunciare we sky, a indicare le famose otto miglia in alto della psichedelia) che sfornano un album fatto di suoni roventi e rock’n’roll, uno stoner potentissimo che va su di giri che è una bellezza. A differenza di molte altre stoner band, infatti, i Mexican puntano invece che sulle botte di volume (che non mancano) su giri ben precisi e melodici, che risultano vincenti nell’ascolto complessivo del disco. Ho ascoltato per settimane questo album, rimanendo davvero estasiato dalle varie canzoni che sembravano portarti davvero 'dentro nel sole'. Ed è proprio questo il concetto della band: le valvole roventi dei loro amplificatori si scaldano a tal punto da generare un calore simile al nostro astro, in modo da sommergere chi ascolta in un mare di watt ordinati. Ascoltate per credere Drinking all alone, dove i giri rock’n’roll della chitarra si impennano fino a raggiungere l’infinito. La classica formula a trio della band fornisce un impatto duro e potente nel sound, e i 3 sembrano davvero evocare gli spiriti più potenti del genere, dai Blue Cheer fino ai Queens of the stone age, ma con un tiro davvero spaventoso e con un sapore assolutamente vintage che mi ha conquistato.

Copertina disegnata ed ideata dal chitarrista Enrico, bravissimo grafico con il pallino dei manifesti anni ’60-’70, che ben rispecchiano il caldo sound che permea il loro lavoro. Lasciatevi dunque trasportare dalla loro musica infilando il cd nel lettore dell’autoradio e sfrecciando a più non posso nelle highway americane inseguiti dalla polizia che non vede l’ora di farvi la pelle in un inseguimento mozzafiato.
Gianluca Merlin
Mexican Whi-sky
Myspace


Produzione: Tiziano Boscolo & The Mexican Whi-sky
 Studio di registrazione: Gabbiano dinner hall studio (VE)
Formazione: 
Enrico Zanella (Chitarra Elettrica, voce)
Luca Nagliati (Basso)
Demis Nordio (Batteria)
Diego Camorani (Basso, suona solo nel disco)

 Tracklist:
1. Mr T. bomb - 2. Drinking all along - 3. Muse of my music - 4. Leaving the bedroom - 5. The Queen of the beach - 6. Electric city - 7. Into the sun - 8. Mammoth - 9. Down again 

SHORT REVIEWS - The Black Angels "Phosphene Dream" (2010, Blue Horizon/Rykodisc)

I texani Black Angels, nel loro terzo lavoro, "Phosphene Dream" approntano un giuoco vorticoso psichedelico, ricco di ritmiche tribali, di chitarre sature di riverbero e feedback. I ricordi, le citazioni da “Nuggets” ai “Pebbles”, dai Doors (Yellow Elevator #2 e Telephone) ai 13# Floor Elevators (Sunday Afternoon ed Entrance Song) vengono risucchiati, rigenerati in un suono elettrico potente, perfetto nel suo volere essere figlio dei sixties lisergici e aperto a nuovi sentieri; la dinamica del suono, lo script dei pezzi, sono attuali ed hanno il ritmo del XXI sec. Ten songs per il viaggio (versione vinile). L‘apertura, Bad Vibrations, è una cavalcata sventagliata di elettricità ipnotica, un vortice continuo ed aperto a riverberi, echi, sibili, organi, voci, riff garage e r’n’r. Yellow Elevator#2 e Telephone mescolano nell’acido Doors e Pink Floyd. Entrance Song, con la voce passata al vocoder, è sciamanica alla Elevators, le chitarre ipnotiche, lisergiche, ruvide. La trama sonora della magnifica True Believers, nenia acid folk dal cantato che occhieggia agli Opal, riporta alla mente ‘Kaleidoscopici‘ viaggi. Fantasmi di bikers urlano in River of Blood“Phosphene Dream”, perfetto incubo psichedelico rubato da "Pebbles 3#". Garantito dalla tipa libidinosa qui a fianco che mostra 'generosamente' le sue grazie!
Nazzareno Martellucci

Tracklist:
1. Bad Vibrations
2. Haunting at 1300 McKinley
3. Yellow Elevator #2
4. Sunday Afternoon
5. River of Blood
6. Entrance Song
7. Phosphene Dream
8. True Believers
9. Telephone
10. The Sniper
Melanie's Melody - Phosphene Dream (Bonus Track)

TheBlackAngels

martedì 22 febbraio 2011

Talking with DOM MARIANI (THE STEMS): Distorsioni interview

Dopo l'ottima monografia di Ricardo Martillos sugli Stems di Dom Mariani, il solerte Ricardo stesso a completamento del 'pacchetto' Stems ha realizzato per Distorsioni e il suo pubblico affezionato, con il prezioso aiuto di Myriam Bardino per l'English translation, una lunga e appassionante intervista con Mariani, il leader storico dei magnifici Stems, che si rivela in alcuni punti anche un intrigante spaccato della fertilissima scena rock Aussie negli anni '80. Poco dopo il 2010 Farewell Tour degli Stems di cui si parla nell'intervista, é uscito il secondo album solista di Dom Mariani, "Rewind and Play" (dopo "Homespun, Blues & Greens" del 2004) che fa supporre che per nostra fortuna l'artista sia intenzionato a continuare a produrre musica. Buona lettura e ... stay cool! (Wally)

Dom Mariani interview

Ricardo/Distorsioni: "Sul web non si trovano molte notizie su The Stems: quindi ne approfitto per farti conoscere meglio ai tanti appassionati italiani, in numero crescente anche dopo il vostro minitour del 2010. Questa storia delle lezioni di chitarra a Richard Lane nel 1983 è vera? Cioè in seguito a queste jam chitarristiche hai maturato l'idea di formare il gruppo?"
Dom Mariani:
"Si è vera, è piu’ o meno quando il gruppo iniziò. Conobbi Richard via Gary Constantine, un amico in comune. Vennero a vedermi suonare con un’altra band al Wizbah (una sala nel centro di Perth). La mia band gli piacque e mi chiese delle lezioni di chitarra. In quel periodo insegnavo un po’ ma non al punto di considerarmi come un proprio e vero insegnante di chitarra. Solo dopo poche lezioni mi accorsi che Richard sapeva suonare bene e scoprii che suonava anche le tastiere, l’armonica e si divertiva anche a cantare. Parlammo molto di musica, gli piacevano i Sunnyboys, The Saints e lo introdussi alla musica sixties con la quale non aveva familiarità. Di lì mi venne l’idea di chiedergli di far parte di una nuova band che avevo in progetto. Questa band divenne The Stems."

Quanto è stato importante per te l'ascolto ripetuto del garage-punk Usa dei 60', Electric Prunes, Standells, The Chocolate Watch Band oltre ai connazionali The Masters Apprentices e The Missing Links, in merito alla decisione di formare la band?
Gli Eletric Prunes sono stati una grande influenza. Li scoprii per la prima volta su Nuggets e subito dopo trovai una copia di “Underground” in un negozio di dischi in saldo. Fu come trovare l’oro. E’ ancora uno dei miei dischi preferiti in assoluto. The Standells, Chocolate Watch band, Music Machine, tutti ebbero la loro influenza sugli Stems come anche dei gruppi australiani: The Masters e The Easybeats. The Masters sono incredibili, ho scoperto i Missing Links un po’ piu’ tardi.


Dopo i primi due splendidi 7" degli Stems, tipicamente sixties, a cosa è dovuta la decisione di ammorbidire il vostro sound a favore di linee più melodiche, già chiaro nel vostro primo ep "Love will grow"? Fu un tentativo di allargare il vostro seguito o solo una naturale evoluzione sonora?
La composizione ebbe una progressione naturale ma anche il fatto di andare con Rob Younger in uno studio piu’ grosso e sofisticato (Trafalgar) e la produzione del team di Alan Thorne, hanno avuto la loro influenza sul suono del disco.


Come mai la grande Citadel Records di John Needahm si è fatta sfuggire la pubblicazione del vostro splendido primo album? Sinceramente pensi che con Rob Younger alla consolle sarebbe suonato differente, magari più grintoso? A proposito della Citadel è curioso il fatto che i vostri due album in studio non siano usciti per questa label, mentre la stessa ha pubblicato ben tre vostre antologie. Come si spiega?
Fu piuttosto un caso di opportunità. A quei tempi, John non poteva permettersi di pagare per la registrazione di quei dischi, cosi dovemmo andare con chi potevamo. John era anche manager dei Died Pretty, che in quegli anni, furono il suo focus principale. Ho sempre mantenuto delle buone relazioni con John e quando fu possibile gli detti la possibilita’ di pubblicare la nostra musica.

Ti pesa il fatto che The Stems viene sempre considerata "la band di Dom Mariani"? Osservavo che nei vostri dischi Richard Lane firma spesso anche brani suoi, Tears Me In Two, Under Your Mushroom, Rosebud , e molti altri; qual'è in realtà il suo contributo in termine compositivo?
Dipende da come vedi la band. Anche se sono considerato il principale compositore negli Stems, Richard contribuì con delle canzoni nei primi anni, ma le canzoni cantate da Richard sono per lo più  scritte da Julian Matthews (basso) che solitamente non ha nessun credito.

Cosa significa per un musicista ‘aussie’ il nome Radio Birdman che insieme a The Saints sono stati i due gruppi dei '70 più influenti di sempre? Com'è il vostro rapporto con le altre grandi band di Perth, The Triffids e The Scientists?
Non c’è dubbio che i Radio Birdman e i Saints sono stati fondamentali nella costruzione della scena degli anni '80. Per quel che mi riguarda, i Saints mi hanno maggiormente influenzato rispetto ai Radio Birdman. Soltanto nel 1985, quando ci trasferimmo a Sidney iniziai ad apprezzare un po’ di piu’ i Birdman e  anche ad accorgermi dell’importanza che avevano avuto sulla scena di quella città. Non sono mai stato un fan dei Triffids, ma gli Scientists erano un grande gruppo. Li vidi più volte in concerto e penso che siano il gruppo piu’ importante originario di Perth. Alcuni di questi concerti agli inizi degli anni '80 sono stati fantastici e mi spinsero a varare la storia degli Stems.


La tua decisione di sciogliere The Stems nell'ottobre del 1987 in realtà a cosa è dovuta? Ci ha trovato tutti un po' spiazzati visto che il gruppo era all'apice artistico e di popolarità: i vostri dischi erano sempre in vetta alle ‘Australian alternative charts’.
Successe proprio in quel modo. Hanno giocato il loro ruolo i tour incessanti, un cattivo management e delle tensioni all’interno del gruppo. Registrare l’album “At First Sight, Violets Are Blue” non fu un processo liscio e le cose iniziarono a deteriorarsi. Il gruppo era diventato alquanto famoso e l’impegno con una major significò molti più tour e anche il dover essere disponibile per tutte quelle cose che vanno di pari passo con la promozione di un gruppo in ascesa. Il gruppo scelse un management professionale che alla fine non aveva a cuore gli interessi del gruppo. Inizai a dubitare di tutto questo e alla fine decisi di andare via.

La reunion del 2003 con conseguente tour europeo era un’idea che avevi in mente da tempo o è conseguente alle pressioni dei fan, soddisfatti immagino di The Someloves e DM3 ma evidentemente nostalgici delle canzoni di The Stems? E in Europa come è stata l'accoglienza del pubblico?
La nostra prima reunion fu nel 1997 (10 anni  dopo il nostro scioglimento) e un anno più tardi (’98) suonammo al Mudslinger festival, ma quei concerti erano soltanto a Perth. Non fu prima del 2003 che l’idea di una reunion fu una seria proposta. L’idea venne da un promoter che ci suggerì un tour dell’Australia e le cose si susseguirono. Questo ci portò a stare insieme per altri sette anni: in questo lasso di tempo ci fu anche la registrazione di un altro album e un tour in Europa, Giappone e America e fu un periodo molto divertente.

Che mi dici del tour 2007 con Hoodoo Gurus and Radio Birdman? In particolare puoi raccontarci qualche aneddoto su Rob Younger e Deniz Tek, due  personaggi fondamentali della scena rock Aussie, suoneresti mai in una band con loro o sono troppo egocentrici?
E’ stato un tour molto cool, al momento giusto per noi. “Heads Up” era uscito soltanto da un paio di settimane. Avevamo qualcosa da promuovere, il nostro primo album in vent’anni. Sia Rob che Deniz sono veramente delle persone in gamba. Conosco Rob un po’ meglio avendo lavorato con lui sulle prime registrazioni degli Stems e recentemente sul mini album “The DomNicks” (Dom Mariani e Nick Sheppard dei Cortinas, Off The Hip Rec., 2010). Lavorerei con entrambi senza problemi. Sono delle persone appassionate della propria arte, la musica.

Quale dei due album che avete inciso identifica meglio The Stems sound? Io sono molto affezionato alle sonorità sixties dei primi 2 singoli, ma mi colpisce molto nei seguenti lavori la vostra facilità di abbinare belle melodie a testi incentrati sull'amore come Love Will Grow e At First Sight, due dei vostri brani più noti.
Penso che l’ultimo album “Heads Up” sia più vicino al suono della band in quel periodo. La parte piu’ caratteristica del suono degli Stems è soprattutto la melodia,  senza per altro che questo intacchi il lato rock del suono. Preferisco il suono di “Love Will Grow” a quello dell’album “At Fist Sight”. Ci sono delle buone canzoni in “At First Sight”, ma non penso granchè della produzione.


Nel 2010 l'etichetta italiana Misty Lane ha dato alle stampe un altra ottima antologia "From The Vault", che mi dici del pubblico italiano ed europeo in generale rispetto a quello australiano?

Non ne sono molto sicuro ma penso che i fan siano un pò più appassionati.

Da collezionista di vinile notavo con piacere che i vostri dischi sono sempre usciti su vinile, una precisa scelta tua o solo una casualità?
Casualmente la Misty Lane ci avvicinò per farlo. E’ davvero grandioso averlo realizzato di nuovo su vinile. Mi piacerebbe avere anche “Heads Up” disponibile su vinile.

Questo Farewell Tour del 2010 va inteso come scelta e decisione definitiva di chiudere l'avventura The Stems o sei pronto un’altra volta a stupirci e ripensarci nuovamente? Leggevo in una tua intervista del 2009 queste righe: "This is our first farewell. We did break up once but we weren't in good enough shape to say goodbye. This time we'll end it off on a good note. The band's going really well but you just know when it's time to go" Puoi spiegarci come dobbiamo intendere questo commento?
Sono stati gli ultimi concerti. Spesso prendiamo in giro gli addii e le reunion perchè l’abbiamo fatto due volte e la seconda volta fu piu’ lunga della prima. A questo punto dubito che lo faremo di nuovo con la formazione originale. La porta non è chiusa, ma se gli Stems dovessero suonare di nuovo sarebbe con una formazione diversa.

Per concludere una domanda che ho in testa da tanto tempo, il tuo cognome Mariani suona molto latino: per caso nel tuo albero genealogico ci sono antenati o parenti Italiani?
Le mie origini sono italiane. I miei parenti vengono dall’Abruzzo. Immigrarono in Australia negli anni ’50. Ho ancora degli zii, zie e cugini a Vasto. Li ho visitati piu’ volte e una volta ci suonai con i DM3 nel 2001 dietro invito di Gene Gnocchi, quando conduceva lo show televisivo “Perepepe’”.

Grazie Dom per il tempo che hai dedicato a noi di DISTORSIONI: ti faccio gli auguri miei e di tutti i fans italiani per un felice proseguimento della tua splendida carriera, sperando vivamente di rivederti on stage da queste parti e con The Stems.
Grazie Ricardo

ciao, Dom

intervista a cura di Ricardo Martillos 
grazie a Myriam Bardino per le traduzioni

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