sabato 16 aprile 2011

MADE IN ITALY - SAINT IN A ROW: "Saint In A Row" (2011, Foolica Records)

Psichedelia con effetto Beatles, dolci melodie folk-pop, le umidità underground della City 60,s che si scaldano le ossa sul tiepido altare delle roots. Non si poteva chiedere e sperare di meglio dalla “contromusica vigente” per abbracciare questo “grappolo sonoro” made in Brescia, nominato "Saint In A Row", qui al debutto omonimo per la Foolica Records, progetto che lega insieme Giovanni Ferrario collante d’infiniti assemblamenti sonori alternativi, Fabio Dondelli (Annie Hall), Pierluigi Ballarin (The Record’s), Stefano Moretti (Pink Holy Days) e Michele Marelli (Ovlov), e che sta a significare anche che per fare un disco con gli attributi non occorre studiare nessun testo sacro, basta avere idee buone da mettere insieme e farle copulare gioiosamente, poi la paternità o viceversa la maternità delle intenzioni premieranno lo shock della perdita della verginità e l’acquisto di una felice consapevolezza come qui testimoniato tra le fronde complici della tracklist.
La musica di questo climax a otto tracce – riascoltandolo bene – non è restringibile in una, due o più categorie, ma gongola, si rattrista e sogna in tante altitudini di pentagramma, ci si può innamorare dello slow vellutato sotto un cielo di fiati, trombe ruffiane Courses, lasciarsi trasportare via dalle ance e dai movimenti sculettanti di una virtuale Abbey Road Sunday morning, farsi agitare nello shake di basso e cori beat (Purple) o prelevare Lou Reed dalla sua Factory e andare a fare shopping tra e viuzze di Wires. Chitarre, fiati, organetti, cori, quell’andatura sciolta, parventemente disimpegnata e frivola a go-go, una mirabolante formattazione beat senza ombra di equivoco che è poi l’atmosfera, la piacevole costante di questo super-progetto che non ha bisogno d’ascolti ripetuti per essere “preso”, è lui stesso che ti adesca e ti fa suo in un tot di minuti. I SIAR riprendono ed elaborano temi ed umori dei loro rispettivi luoghi sonici di provenienza, li mescolano per osare nuovi percorsi, e sembra una ricerca mai appagata nei fatti, un desiderio incompiuto che si chiude a cerchio inaspettatamente come una pianta carnivora arsa dal desiderio di buone sonorità e che finalmente può masticarne a iosa tutte le fragranze e le polpose, stuzzicanti prosopopee fulminanti. Un avviso a tante band del circondario e più in là: ci sono “nuovi santi in fila” per farvi rizzare il pelo sulla schiena, potrebbero nuocervi okkio, anzi già lo hanno fatto, sono santi fuori dal coro in un testardo tentativo di shakerare l’evoluzione. E ci riescono!
Max Sannella
Promo "Saint in a Row"
SAINT IN A ROW - Purple - live @ TUP
Foolica Records

LIVE REPORT: "Paolo Fresu e Ralph Towner" (Teatro Loanese, Loano - Savona - 10 Aprile 2011)

Domenica 10 Aprile sera al teatro Loanese di Loano (SV) ho assistito ad un concerto davvero indimenticabile. Il duo composto dal trombettista Paolo Fresu e dal polistrumentista Ralph Towner (ieri sera solo alla chitarra acustica, ma suona anche piano, tastiere, percussioni e tromba) ha chiuso a Loano una tournèe internazionale che li ha portati in molte città inglesi, tedesche, sino ad Istanbul oltre che in tutta Italia. Il repertorio del duo è tratto dal Cd “Chiaroscuro” ed è composto in gran parte da composizioni di Towner oltre a qualche standard. Inevitabile l'omaggio a Miles Davis con Blue in green e quello a Chet Baker con I fall in love too easily. Lo stile di Fresu, che alterna tromba e flicorno e ha usato la sordina in un solo brano, è certamente influenzato da quello di Davis, ma nei fraseggi più sospesi, dove ricerca note più alte, mi ha ricordato anche Ian Carr, trombettista leader dei Nucleus. A parte qualche raro eco in questa serata Fresu non ha mai usato effetti elettronici, di cui altre volte fa grande uso. Towner alterna la classica 6 corde con la chitarra baritono, ha uno stile fatto di suoni secchi, percussivi, molto staccati. Non ricorre mai a virtuosismi, tipo il tapping o le scale iperveloci, come fanno i suoi molti allievi: Towner con gli Oregon, il gruppo da lui fondato nel 1970 con Paul Mc Candless, Glenn Moore e Colin Walcott ha inventato praticamente un nuovo genere di musica, quel mix di folk, jazz e classico che è facile sentire da molti appannati imitatori.
Suonando senza sezione ritmica la musica è molto d'atmosfera, i due prediligono tempi lenti. Ma non sono mai cerebrali o inutilmente virtuosistici e anche molti non appassionati di jazz che ho visto tra il pubblico sono conquistati. La gran parte dei brani, vedi la splendida Sacred place , segue una stessa costruzione: introduzione di Towner, tema e assolo di Fresu, assolo del chitarrista, finale, tranne lo standard Beautiful Love che inizia col solo di Fresu al flicorno. Tra le composizioni di Ralph spiccano Summer ends, una bossa, e Chiaroscuro, spagnoleggiante. Nel brano conclusivo, basato su un ostinato di chitarra, Fresu ricorre nel finale alla respirazione circolare, tecnica che consente di continuare a suonare senza interruzioni, oggi molto usata dai jazzisti ma scoperta dai suonatori sardi di “Launeddas” (cornamusa locale) secoli fa. Entrambi suonano seduti, Towner immobile, a parte qualche strana gag, Fresu si contorce sulla sedia. Parlano poco, ma non pensate siano poco comunicativi: suonando a questo livello le parole non servono. Grandi applausi prima del bis e standing ovation finale per due musicisti tra i più importanti in circolazione. Uscendo dalla sala mi rendo conto che hanno suonato quasi due ore, e mi era sembrato un concerto breve. La rassegna aperta da questo magnifico duo si chiama Note in Libertà, è ideata da La Compagnia dei Curiosi e si conclude sabato 30 Aprile con la leva cantautorale degli anni zero (Simona Gretchen, Giua, Maler e Giuseppe Righini), un progetto ideato da Enrico de Regibus in collaborazione col MEI.
Alfredo Sgarlato
Paolo Fresu e Ralph Towner Teatro Donizetti
Ralph Towner & Paolo Fresu Seattle 2010
Doubled Up

LIVE REPORT: “Belle & Sebastian” (Alcatraz Milano, 14 Aprile 2011)

Arriviamo all’Alcatraz di Milano intorno alle 20.00 per il ritorno dei miei amati Belle & Sebastian di Stuart Murdoch in Italia per presentare i brani del nuovo album “Write about love” dopo la loro calata estiva dello scorso anno ad Arezzo. A supporto, un duo di New York , gli Schwervon! che con un set di mezz’ora mi ricordano molto i Vaselines ed i White Stripes e non solo per il fatto di essere un duo uomo/donna. Ma ovviamente, l’attesa è tutta per loro ed alle 21.30 si spengono le luci e lo spettacolo inizia con l’opening di I didn’t see it coming seguita subito da uno dei classici della band, I’m a cuckoo.
Stuart conferma la sua rinnovata vena iper-energetica con un inizio quasi a mò di sfilata con giacca blu, maglietta a righe e foulard in pieno stile dandy. La band di Glasgow è ormai una collaudata orchestra di 12 elementi e con la sezione archi “noleggiata” con tre ragazzi milanesi ben integrati nel suono della band della serata. Con mia sorpresa, i brani dal nuovo disco non sono tantissimi (alla fine saranno solo tre) mentre si pesca molto dal passato ed in particolare da “Dear catastrophe waitress” con ben sei brani.
Stuart è oggi molto più showman degli inizi ed è molto attento a coinvolgere il pubblico come quando chiama alcune ragazze a fargli il trucco oppure quando fa salire quattro ragazzi a ballare sul palco con lui durante The boy with the arab strap (siparietto che ultimamente utilizza spesso). Sembra proprio essere questo lo spirito che pervade oggi la band sia nell’attitudine live che su disco, la voglia di divertirsi e far divertire ma sempre in maniera intelligente, portando un pò in secondo piano la parte intimista che aveva caratterizzato gli inizi del combo scozzese. I bravissimi membri della band tra cui vi segnalo anche la presenza di Nigel Baillie in prestito dall’altra grande indie band di Glasgow, i Camera Obscura nonché i sempre fidati Stevie Jackson alla chitarra e la bravissima polistrumentista e voce Sarah Martin sono praticamente perfetti nell’esecuzione di ogni brano.
Il concerto scorre così per un’ora e tre quarti passando da brani come Piazza, New York catcher a Lord Anthony alla bellissima Fox in the snow arrivando agli ultimi due encore di The blues are still blue e Me and the Mayor. Sono circondato da ragazzini in estasi e mi sembra di esserlo tornato anch'io e: forse il nuovo spirito dei Belle & Sebastian è proprio questo, al di là del raccontare storie di amori timidi e sofferti o di camerette dal mood triste, farlo senza nostalgia ma con uno spirito allegro e scanzonato.
Magari, chi come me li segue dagli inizi potrebbe anche essere deluso da questa apparente ricerca della giovinezza a stravolgere un poco il suono originale. Lo stesso Stuart dice al pubblico delle prime file mentre introduce My Wandering Days Are Over (dal disco d’esordio del 1996 “Tigermilk”) "eravate troppo piccoli per ricordarvela" : forse i giovani di oggi non apprezzano a pieno ma, devo dire che questi nuovi Belle And Sebastian mi piacciono parecchio. Stuart, che durante lo spettacolo ci ha anche rivelato di avere una moglie Italiana (un piccolo spazio di gossip), saluta dicendo che ci rivedremo presto: lo spero davvero perché questa è stata veramente una serata magica.
Testo, foto e video di Ubaldo Tarantino

venerdì 15 aprile 2011

SONGWRITERS - KURT VILE: “Smoke ring for my halo“ (Mar 8 2011, Matador)

Da sotto una cascata di capelli vissuti scapigliatamente, il musicista di Philadelphia Kurt Vile torna a descrivere nel nuovo “Smoke ring for my halo” gli spazi con la grazia di un poeta di cui la gente pare non essersi mai accorta: eppure stavolta le sue canzoni sono ripulite dalla patina della scontrosità, intelleggibili nella loro luce meno appannata, meno ostico nelle malinconie e più “innalzato” verso le alte vertigini dell’American folk, ma di sicuro questo disco – il quarto della carriera – come i precedenti sarà ascoltato da pochi, e meno male che questo folksinger della contemporaneità possiede il distacco e l’ironia sufficienti per sopportare una così palese ingiustizia. Lo spirito tenace della tempra americana fa sopportare tutto, è difficile incidere la scorza dei saguari, ed è una lezione che l’artista ha imparato a memoria e la mostra in un’attenzione maggiore nella grafia compositiva e in quell’atmosfera lo-fi riverberata, noise accennato e dal gran respiro che in tutto l’arco della tracklist non concede un benché minimo spiraglio a stati d’asma o stalli a rendere. L’artista rappresenta un caso a parte nel pur frastagliato arcipelago looner: nato da un’idea rozza e alquanto solitaria di writing, ereditata soprattutto dall’irsuto Neil Young e dal field Pettyano Runner ups; nello stilare le pagine di questo nuovo disco conosce di traverso le onde dell’East side Americano e impara a zig zagare tra le pozzanghere e le lascivie ambigue Reediane rispetto all’Iguana ribelle e tagliuzzato in Puppet to the man, prende a camminare guardando il cielo scontroso in On tour o regala open chord ariosi sulle strade per Tulsa (Smoke ring for my halo). La tentazione di uscire dalle malie di “Childish Prodigy” e da tutti quei tocchi lo-fi rivolti al “west di mezzo” del suo recente passato è forte, ma anche pericolosa nell’incappare nei tornanti del pop sottocosto come poi – infatti – si verificano in Society is my friend e più in là nella circonferenza di Jesus fever.
Kurt Vile pare fare un passo indietro rispetto la sua discografia, sempre sopra una certa media, ma quello che ne sortisce è un magma sghembo, stranamente sghembo; probabilmente è anche lo scotto che un folksinger deve pagare, specialmente se sprovvisto di un proprio radicalismo politico o sociale al servizio di qualche roots qua e là, ma questa è un’altra storia, per il momento rimane un disco a mezz’aria in aspettativa di un vero vento.
Max Sannella
KurtVileMySpace

discography
2008: Constant Hitmaker (Gulcher Records)
2009: God Is Saying This to You (Mexican Summer)
2009: Childish Prodigy (Matador)
2011: Smoke Ring for My Halo (Matador)

MEAT PUPPETS, "Lollipop" (2011, Megaforce/Goodfellas)

Chi ha almeno una quarantina di primavere sulle spalle e sempre avuto a cuore le sorti del punk rock si ricorderà certamente delle primissime sulfuree incisioni delle ‘bambole di carne’ per la seminale etichetta SST Records, all’albeggiare degli anni ’80: sin dallo storico e.p . in vinile d’esordio “In A Car” (1981, SST Records) contenente cinque brani i Meat Puppets dei fratelli Curt e Cris Kirkwood (Curt lead vocal , chitarrista e compositore , Cris bassista), provenienti da Paradise Valley, Arizona proponevano un mix stravolto e personalissimo di punk hardcore ed ‘American Roots’ come folk, country e psichedelica. Nella reissue 1999 (Rykodisc) del primo omonimo album del 1982 ad esempio erano già comprese covers serialmente stravolte di Neil Young (I Am a Child), Grateful Dead (Franklin’s Tower) e Stooges (I Got a right) che la dicono lunga su quello che era il loro dna artistico sin da quegli anni. In pregevolissimi album seguenti (13 in tutto in 29 anni, tra il 1982 ed il 2011 più due live) come “Up On The Sun”, “Huevos”, “Mirage” i fratelli Kirkwood distillavano gradualmente e senza interruzioni una dissacrante vena compositiva, algida ed a volte ostica risultante ‘alchemica’ di tutti gli elementi sopracitati.
Il momento in cui conoscono una maggior fama ‘fuggevole’ coincide paradossalmente con la loro partecipazione al “MTV Unplugged In The New York” dei Nirvana dell’amico Kurt Cobain, nel 1993, nel corso del quale eseguono tre loro brani . Inevitabile che i furori hardcore punk del debutto si stemperassero negli anni o che trovassero dei dosaggi sempre diversi e questo mentre i Meat Puppets continuavano a realizzare albums geniali, densi di soluzioni ritmiche e crossover musicali inediti, come “Forbidden Places “ (1991) e “Too High Too Die” del 1994. Si sciolgono nel 2000 per tornare sulla scena nel 2007 e realizzare altri due albums sino a questo recentissimo “Lollipop” uscito l’11 Aprile 2011.
Lollipop vede ancora una volta Curt Kirkwood sfornare generosamente delle songs ormai completamente addomesticate, classiche e moderatamente eclettiche (12 per la precisione) ormai pregne sino al midollo di quell’ Americana (country e folk in primis) già citata all’inizio: Lantern, Amazing, Baby Don’t, The Spider And The Spaceship (sarcastica favola country & western finale con gran spolvero di chitarre acustiche) ne rimangono esempi eloquenti. Questi brani , ormai arresisi ad una chiara ‘restaurazione melodica’ e molto lontani dalle oblique eccellenze degli albums degli anni ‘80 e ’90 rinnovano comunque il piccolo miracolo di ricordare pochissimo le vene compositive di altre bands o songwriters: uniche eccezioni Damn Thing, che a qualcuno (come a me) riporterà forse alla mente i REM di "Reckoning" e South Central Rain e l’iniziale Incomplete che pare curiosamente uscita dal cappello a cilindro dell’Elvis Costello più pop, anche nell’approccio vocale di Curt. Se si vanno poi ad ascoltare episodi come la spagnoleggiante Way That It Are o l’orientaleggiante Hour Of The Idiot si possono apprezzare sino in fondo l’ondivago mantra vocale di Curt Kirkwood e le sue acide (e sempre molto intriganti) epifanie chitarristiche, ora più che mai al servizio di strutture compositive ben precise. Certo qualche caduta clamorosa c’è come l’ eccessivamente mainstream Shave It o la semi-insipida Vile salvata in zona cesarini solo dalle spiritate movenze wah-wah della chitarra di Kirkwood. Se dovessi ricorrere ai tanto odiati voti di fine (o inizio) recensione un 6 e mezzo a "Lollipop" non glielo toglierebbe nessuno, sperando i fratelli Kirkwood ritrovino la voglia di osare.
Wally Boffoli
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LABELS: BOSS HOSS RECORDS - THE MONOLITHICS – THE KAAMS: “Choose Your Coffin’” LTD ED (2010, Boss Hoss Records/Area Pirata)

"Choose Your Coffin!": ovvero ancora un ottimo sette pollici in rigoroso vinile (edizione limitata: 300 copie numerate) per la label garagista pesarese Boss Hoss Records, dopo il pregevole “Wildest Things In The World” del 2009, che vedeva all’opera quattro bands disseminate per il pianeta (Italia, Inghilterra, Argentina, Messico) e l’altrettanto validissimo cd “God Save The Fuzz” degli italiani Barbacans, due incisioni dedite appunto incondizionatamente al culto fuzz!


The Kaams
Mentre nuove uscite di questa cosmopolita etichetta nostrana sono già alle porte continuiamo a goderci "Choose Your Coffin!" questo pezzo di vinile uscito nella seconda metà 2010 contenente quattro brani divisi equamente tra due bands italiane: i brianzoli The Kaams ed i milanesi The Monolithics. Stiamo parlando naturalmente di garage e di quello più killer, soprattutto per quanto riguarda The Kaams, un trio esplosivo che non si perde in salamelecchi: sferra con So Bad (titolo significativo) un autentico pugno nello stomaco dell’ascoltatore sfregiandolo con sadica sporcizia. Carmi, il lead
vocal potrebbe essere assolutamente scambiato peril front-man di una qualsiasi noise-garage band americana targata Estrus o In The Red, e questo la dice lunga su quanto sia cresciuto qualitativamente questo genere in Italia negli ultimi anni pur restando fondamentalmente di nicchia.
Carmi oltre ad essere il cattivissimo chitarrista dei Kaams suona anche l’armonica: ci fa sentire cosa diavolo riesce a fare con i due strumenti nel secondo brano Why Don’t You Love Me Anymore?, una sfrontata zompettante track Chicago blues-garage che sembra una cover ‘inacidita’ uscita da “Gloria”, il primo album degli Shadows Of Knight.

The Monolithics
Il primo brano dei Monolithics Head Or Tail demanda invece all’organo criptico di Johnny Mago l’assumere un ruolo fondamentale nel climax morboso che si respira in questi solchi. E’ il coté più sotterraneo dell’etica garage ad essere scomodato qui, quello che affonda le radici negli oscuri Music Machine di Sean Bonivell di nero vestiti. Daelectro, chitarrista e lead vocal della band sa blandire in Head Or Trail con ambigua ed insidiosa dolcezza, sino a servirci un inciso fascinoso ed avvolgente che si insinua nelle sinapsi. Più aggressivi The Monolithics appaiono invece nel secondo brano Take The Time You Need, una più ortodossa garage song che ci serve l’altro volto della band milanese. Siamo a questo punto morbosamente curiosi di ascoltare un saggio più articolato delle capacità di queste due bands italiane; un plauso ancora una volta va alla Boss Hoss Records augurandoci continui questa lodevole esplorazione degli anfratti più nascosti della scena garage nostrana.
Wally Boffoli



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giovedì 14 aprile 2011

AFFINITY: "Affinity" (1970 Vertigo) - LINDA HOYLE: "Pieces Of Me" (1971, Vertigo)

Affinity & Linda Hoyle: "A progressive dream"

C'era un epoca il cui la musica rock era qualcosa di più che un file o un video bensì la forma espressiva di una generazione, delle sue speranze e delle sue angosce, della sua rabbia e della voglia urgente di cambiare lo stato delle cose. Così è stato dagli anni '50 agli '80, dal blues a Chuck Berry ed Elvis sino ai Clash e Patty Smith, con un appendice negli anni '90 con gente tipo Pearl Jam e Nirvana, ma poi? Questo il mio parere, forse non tutti saranno d’accordo, ma trovo affascinante la possibilità di descrivere le meraviglie sonore che quell’epoca piena di speranze e rivoluzionaria ci ha regalato, perle dimenticate ed uniche, spesso lontane da qualsiasi forma di successo commerciale e ammirate per il fascino che ancora oggi emanano come preziose reliquie Maya o Azteche. Una band che quando ascoltai per la prima volta seppe emozionarmi, furono gli Affinity, inglesi originari di Brighton, dove alla Sussex University formarono il primo nucleo del gruppo nel 1965. Tre studenti di scienze con l’amore per il jazz: Lynton Naiff (tastiere), Grant Serpell (batteria) e Nick Nicholas (basso), che ottenuta la laurea lasciò il progetto e fu rimpiazzato da Mo Foster. Dopo l’università il combo jazz da loro costituito si sfaldò e all’inizio ognuno andò per la sua strada. Ma poi Serpell, Naiff e Foster continuarono a suonare in un momento topico per il rock come gli anni 1966 e 1967, quando psichedelia e flower power dominavano la scena musicale e non solo, e l' 'underground' oltre alla musica voleva dire anche cinema, pittura, teatro e altre mille forme di espressione culturale. I nostri si ritrovarono e, cooptato il chitarrista Mike Jopp ex componente della mod band The Trident, fecero alcune audizioni alla ricerca di una voce solista, la scelta cadde su una certa Linda Hoyle, opzione quanto mai azzeccata perché la sua eccellente calda voce bluesy sarà l’asso nella manica della band, quel qualcosa in più che gli permise di farsi largo in una scena musicale ipertrofica dove farsi notare non era certo facile e richiedeva qualità esplicite e assoluta originalità creativa.
Ottennero un aiuto economico dal padre di Jopp e questo permise loro di acquistare la strumentazione necessaria tra cui un Hammond M 102 ed un furgone Ford Transit, con cui cominciarono a scorazzare per il sud della Gran Bretagna. Scelsero il nome Affinity ispirandosi al titolo di un lp del pianista jazz Oscar Peterson: questo dato testimonia di quale cultura musicale fossero in possesso questi giovanissimi musicisti. Nel 68 approdarono a Londra dove effettuarono il loro primo gig al Revolution Club di Bruton Place. Ottennero l’attenzione di Ronnie Scott, celebre dj e una scrittura per una serie di date nel suo omonimo e prestigioso jazz club. Dopo di ciò le cose diventarono più facili e gli Affinity si fecero un nome come live band, soprattutto nel circuito dei college e delle università, allora estremamente vivo in GB. La loro musica consisteva in un un jazz/prog originale con coloriture soul, blues e folk, basato sulla loro grande sapienza strumentale e come già detto sulla voce da favola della Hoyle.

Affinity : "Affinity" (1970, Vertigo)

Il loro primo (e unico) lp ufficiale fu dato alle stampe per la Vertigo nel 1970, "Affinity". Un disco divenuto con gli anni una rarità e che mantiene ancora oggi il suo grande fascino come una bottiglia di pregiato cognac ben invecchiato. Colpisce immediatamente la cover sleeve dell’lp, parto del fotografo/creativo Marcus Keef: ispira un senso di calma e tranquillità, quasi un prodromo alla musica contenuta nel disco. Soul e jazz, con una venatura psichedelica dai sapori westcoastiani, sapientemente miscelati e con un tracking list che vede l'alternanza di originali composizioni della band come Night Flight e Three Sisters e creativi arrangiamenti di brani come: I Wonder If I Care As Much degli Everly Brothers e Coconut Grove dei Lovin' Spoonful sino alla trascinante rilettura della dylaniana All Along The Watchtower, lungo brano dove le notevoli capacità strumentali dei componenti gli Affinity si evidenziano chiaramente; il tutto in una rilassata atmosfera “freak oriented” tipica dell’epoca e con la splendida voce di Linda Hoyle a dare ulteriore lustro a tutto l’insieme.
Un grande disco ristampato per la prima volta in digitale dalla Repertoire nel 1994 con l’aggiunta di due inediti: Eli’s Comin/United States Of Mind. In seguito andarono in tour per l’Europa, particolarmente in Scandinavia, suonando in molti rock festival, parteciparono anche ad alcuni programmi tv, tra cui Disco 2, precursore dell’Old Grey Whistle Test, rock broadcast di punta di BBC 2 dal 1971 al 1988; inoltre Naiff e Jopp furono gli autori dello spot commerciale della Shredded Wheat, una nota casa produttrice di cereali. Affinity sembrarono lanciati sulla strada del successo di critica e commerciale, ma proprio quando iniziarono a lavorare su nuove composizioni per un secondo lp, Linda Hoyle lasciò improvvisamente, dichiarandosi disgustata dallo show business: questo causò lo split della band, l’ultima loro performance live fu quella al Bournemouth's Winter Gardens Theatre il 10 febbraio del 71. Nayff in seguito suonò con gli hard rockers Toe Fat e con gli irlandesi Killing Floor; nel giugno dello stesso anno i sopravvissuti Jopp, Serpell e Foster annunciarono la reunion della band con una nuova cantante, Vivienne McAuliffe, ma il progetto abortì e degli Affinity rimase solo il raro vinile con l’etichetta a spirale a testimoniare la loro bravura e la loro originalità compositiva.

Linda Hoyle: Pieces Of Me (1971, Vertigo)

Curiosamente Linda Hoyle, causa della fine dell’esperienza Affinity, ebbe un'altra occasione, con la registrazione dell’lp "Pieces Of Me" (1971, Vertigo), uno dei dischi più rari del catalogo Vertigo, oggi valutato intorno alle 200 sterline per ogni copia originale. Ancora una volta la Hoyle colpisce nel segno, coadiuvata da John Marshall e Carl Jenkins dei Soft Machine e da Chris Spedding allora con i Nucleus; dà alle stampe un disco bellissimo, variegato e originale, dove blues, soul ed eteree jazz ballads pianistiche si susseguono in un costante crescendo emozionale. L’apertura del disco è da brividi, con Backlash Blues, la song di Nina Simone, dove Linda dà il meglio di sé, con una performance vocale carica di sensualità, contrappuntata dal solismo nervoso e aggressivo del chitarrista Chris Spedding; poi il potente funky blues Black Crow e una splendida cover di Lonely Woman di Laura Nyro. A conclusione del disco Barrellhouse Music che sembra un race record inciso da Mamie Smith negli anni 20. Grandiosa la vocalità della Hoyle in tutti i brani, con toni caldamente blues/soul ed una estensione vocale incredibile. Chi non l’ha mai ascoltato cerchi di recuperarlo, la prima ristampa cd è della Repertoire e risale al 1995. In anni recenti l’etichetta Angel Air ha stampato molto materiale anche inedito degli Affinity: nel 2002 l’italiana Akarma produce il cd "If You Live", spacciato come un lost album, in realtà si tratta di una raccolta di demo tapes e radio broadcast, non tutti di grande qualità; nel cd ci sono molte covers come: I’m The Walrus dei Beatles, If You Live di Carole King e You Met Your Match di Stevie Wonder, interessante ma non indispensabile. Affinity e Linda Hoyle, pura espressione della golden era del rock progressivo inglese: decisamente da recuperare.

Guido Sfondrini

Linda Hoyle: Paper Tulips
The Ballad of Marty Mole

AffinityProg Archives

Affinity discography
• Affinity — (1970, Vertigo), (1994, Repertoire) (2002, Angel Air)
• Live Instrumentals 1969 — (2003, Angel Air)
. If You Live (2002, Box Set/Compilation, Akarma)
• 1971-1972 — (2003, Angel Air)
• Origins 1965-67 — (2004, Angel Air)
• Origins: The Baskervilles 1965 (2007, Angel Air)
• Box di 5 cd edito dalla giapponese AMR archives Record nel 2006
. Linda Hoyle: "Pieces Of Me (1971, Vertigo)(ristampa 1995, Repertoire)

JOE BONAMASSA, “Dust Bowl” (2011, Provogue)

Per chi come me ha letto "Furore" di John Steinbeck il termine Dust Bowl non dovrebbe essere del tutto sconosciuto. In italiano è traducibile come conca di polvere e sta ad indicare una serie di tempeste di sabbia abbattutesi sugli Stati Uniti centrali e il Canada negli anni '30, causate da arature profonde del terreno che finirono col distruggere l'erba che ne assicurava l'idratazione. Durante il periodo di siccità, il suolo seccatosi diventò polvere. Il vento soffiò il terreno verso est e gran parte della terra rimossa si perse completamente. Un vero disastro che obbligò molti ad abbandonare le proprie terre e spingersi verso una nuova "terra promessa". Tra nuvole di sabbia e vento riparte l'avventura di uno dei più grandi chitarristi degli ultimi anni, Joe Bonamassa. Registrato fra Santorini, Nashville, Malibu e Los Angeles "Dust Bowl" si avvale della produzione di Caveman Shirley (già produttore di Aerosmith, Black Crowes e del supergruppo Black Country Community capitanato dallo stesso Bonamassa), e della partecipazione di leggende come John Hiatt per Tennessee Plates, Vince Gill per Sweet Rowena e Glenn Hughes nel brano Heartbreaker, cover di un cassico dei Free di Paul Rodgers.
“E’ il più bell’album che io abbia mai fatto. Ispirato, profondo, organico e ruvido.” Difficile poter contraddire ciò che dice lo stesso Bonamassa. "Dust Bowl" è uno dei lavori migliori del bluesman americano. Se del blues oggi non ci rimane altro che il sound, Bonamassa dimostra come questo sound possa sopravvivere al tempo. Con la forza prorompente di una locomotiva il nuovo album parte dai binari di Slow Train: il brano dà inizio ad un viaggio tra la polvere e il vento, tra il blues e il rock. Un percorso lungo dodici brani che vive i suoi momenti migliori in Dust Bowl, The Whale That Swallowed Jonah, You Better Watch Yourself, Prisoner, cover di un brano di Barbara Streisand , Tennessee Plates, ma soprattutto The Last Matador Of Bayonne uno dei brani più belli dell'album e dell'intera discografia di Joe Bonamassa. Il tour mondiale per la promozione del disco è già partito. Vedrà Joe suonare negli Stati Uniti, in Europa, Asia e Australia. In Italia non sembrano esserci date confermate. Sarebbe un vero peccato.
Michele Passavanti

YOUNG WIDOWS: ""In and Out of Youth and Lightness" (12 Aprile 2011, Temporary Residence/Goodfellas)

Sarà difficile trovare in questo disco il calore del sole di aprile e i profumi dei fiori di primavera. "In and Out of Youth and Lightness" ci catapulta in pieno inverno dove il sole sembra essere troppo lontano per riscaldare qualche cuore. Con la musica degli Young Widows ci si ritrova di colpo a percorrere un sentiero buio tra sabbia e sterpaglie, fangoso come il blues del Mississipi. La band proveniente dal Kentucky si è ormai affermata come una delle formazioni più oscure dell’ indie rock degli ultimi anni. Formatasi nel 2006 dalle ceneri dei Breather Resist pubblicano nello stesso anno il loro disco di esordio dal titolo "Settle Down City" su Jade Tree Records, cui seguirà nel 2008 “Old Wounds” su Temporary Residence Limited. A tre anni di distanza viene pubblicato oggi questo terzo lavoro della band americana.
Prodotto in collaborazione con Kevin Ratterman, già produttore dei My Morning Jacket, il nuovo album non si discosta molto dalle sonorità tetre dei precedenti lavori. "In and Out of Youth and Lightness" suona robusto e cavernoso. Ognuna di queste nove tracce è percorsa da un'energia viscerale: Young Rivers è il migliore inizio possibile, con la sua ritmica ammaliante introduce una sorta di antico rito tribale. Future Heart e In and Out of Youth and Lightness che dà il titolo all'album trasudano grande potenza. Lean On The Ghost dal passo lento e impetuoso suona ipnotica e snervante, The Mutad Man potrebbe tranquillamente appartenere al mondo oscuro di Nick Cave. Miss Tambourine Wrist è un vortice sonoro dove batteria, basso e chitarra si scatenano in tutta la loro rabbia. Uno dei momenti migliori del disco è White Golden Rings: qui il sound della band è davvero ben amalgamato. In And Out Of Youth: il brano che chiude l'album, sembra essere la colonna sonora di un imminente Armageddon. A mio parere questo si prospetta come uno degli album più interessanti di questo 2011.

Michele Passavanti

mercoledì 13 aprile 2011

THE UNCLAIMED – "Primordial OOZE Flavored" (1983, Hysteria)

Sheldon “Shelley” Ganz è il teoreta della scena neo-garage dei primi anni Ottanta. Un monaco buddista che si chiude in casa a guardare vecchie pellicole, ascoltare i dischi dei Music Machine, rimettere a posto la sua collezione di vecchi ampli Vox e scrivere lettere datate 1966. Ganz non è uno che gioca con gli anni Sessanta. Ganz è uno che vive dentro una macchina del tempo che però diventerà presto la sua gabbia.
Non ha motivo di credere in un ritorno della musica garage e beat, perché lui non ha mai messo fuori il naso dai dischi degli Standells o dei Count Five. Per lui non esistono altre musiche possibili. Perché dovrebbero tornare, se in realtà non sono mai andate via? Gli Unclaimed, l’ unica concessione che si regala quando esce fuori da quella cella arredata come il Cavern, non hanno vita facile. Quando esce questo loro primo mini album si sono già sciolti e riformati con una line-up totalmente rinnovata tranne che per Shelley e il batterista Matthew Roberts che lo segue ancora per un po’. Ma non per molto. Per l’ album vero e proprio occorrerà attendere altri dieci anni. E a quel punto gli Unclaimed non saranno più gli Unclaimed ma Attila and The Huns.
E, a voler essere pignoli, quando esce "Under the bodhi tree" anch’ essi si sono sciolti da cinque anni. Shelley Ganz è, ovviamente, Attila. Gli unni sono Lee Joseph, Dan Valente, Sylvia Juncosa e Scott Forer. Strana storia quella degli Unclaimed, sempre al posto giusto ma nel momento sbagliato. Sempre in anticipo o in ritardo sui tempi. L’ esplosione neo-garage li toccherà solo di striscio. Perché quando escono fuori la scena non esiste ancora. E quando tornano a pubblicare l’ esplosione è già bella che evaporata. E loro pure. Ma nonostante tutto, gli Unclaimed rappresentano l’ incarnazione stessa di un’ etica, di una filosofia, di una concezione della musica. Le sei tracce di "Primordial OOZE Flavored" sono caramelle imbevute negli zuccheri dell’ era Nuggets, orgogliose di cedersi alle lusinghe del nostro palato tra un tartufo nero dei Music Machine e una delizia alla fragola degli Standells, piccole arnie dove vanno a riposarsi le api orerose del beat perduto degli anni Sessanta, lasciando colare il loro miele dopo aver succhiato il nettare dai fiori della Sunset Strip e del Silver Strand di San Diego. Sei canzoni figlie della demenza dei Monks, del folk gotico di Sean Bonniwell e delle goffe canzoncine da film degli anni Sessanta (in questo caso ad essere razziata è la Baby Elephant Walk scritta da Mancini per Hatari!, NdLYS). Roba che allora da molti fu diagnosticata come un’ anomalia cromosomica da trisomia 21 e che invece avrebbe dato il via alla più grande guerra di restaurazione del dopo-punk. Fate voi.
Franco “Lys” Dimauro
Shelley's Ganz Unclaimed Unofficial Website

L’intero disco ascoltabile
(many thanks to Ricardo Martillos)

track list:
Lost Trails (3:16)
No Apology (2:04)
Walk On The Water (2:16)
Things In The Past (Yeah O'Yeah) (2:32)
Ugh (3:31)
Phunt Walk (2:41)


discography:
The Unclaimed
(1980, Moxie) EP (US)
The Unclaimed (1983, Hysteria) mini-LP (US)
(Rock and hard Rolls) Live in Europe 1987!! (1988, Dionysus) split-LP (US)
Under The Bodhi Tree (1991 , Music Maniac) LP (Ger)

compilation appearances:
1981:  track Run From Home
on Battle Of The Garages (LP) Voxx (US)
1983:  track No Apology on The Rebel Kind (LP) Sounds Interesting (US)
1985:  track Walk On The Water on Garage Sale (Tape) Roir (US)
1987:  tracks My Kind
and Hidden Truth on a split-single given away with Lost Trails fanzine #7 (It) later reissued on Best Of Electric Eye Records (LP) Destination X (It)
1997:  track Village Of The Giants
on Mondo Drive-In (LP) Blood Red Vinyl (US)
2000:  track Run From Home on Be A Caveman (
CD) Voxx (US)

THE ROUTES: "Alligator" (Dirty Water, April 2011)

L’imminente uscita di quest’album dei Routes preannunciata dal singolo Do What’s right by you ha già da circa un mesetto cominciato a girare sul Tube, e da quel momento mi ero fatto una postilla tanto questo brano pur nella sua semplicità e immediatezza risultasse a modo suo perfetto."Alligator", questo il titolo della non solo da me attesa novità su Dirty Water, riconferma le qualità della band: essenziali e con stile. The Routes, gruppo per due terzi nipponico con Shinichi Nakayama e Kazikoe, impegnati alla sezione ritmica, ma principalmente incentrato sulla figura dell’eclettico Chris Jack, chitarrista, voce e quando occorre tastierista, proveniente da Londra. Con loro si respira aria di Swinging London, stompin’ rhythm’n’blues con la chitarra ritmica perennemente in levare, vivacizzati da entusiasmi beat, riconoscenti ai primissimi Stones e agli Yardbirds, mentre una tastiera Vox piuttosto che un’armonica dona un piglio garage à la back from the grave.
Il repertorio di 11 brani si mantiene elegantemente in bilico tra questi elementi di sapore sixties, caratterizzato da un’ attenta ricerca di suoni e arrangiamenti sempre efficaci e messi al posto giusto. Alligator inizia con il brano del singolo che lo ha preceduto anche se qui in una versione meno grezza, per proseguire con Be my Jane frenetico jungle stompin’ degno dei Zakary Thaks mentre più cupa e strisciante è I never learn. A love like mine esordisce con un riff fuzzosissimo per trasformarsi in un classico in stile fratelli Davies, I’m spent oscuro garage da cripta, seguito dallo strumentale surfin’ blues di Sinchans Number. Con la title track ci facciamo volentieri trasportare in un classico dai rimandi a Bo Diddley come non si sentivano più dai tempi degli Animals e Manfred Mann. Anche nei restanti brani la tensione non cala, la loro musica vitalizzante fa di Alligator il vinile ideale da far girare appena alzati, per accendere la giornata. Fresco di uscita anche il loro 7” per la portoghese Groovie Records che contiene da un lato il rifacimento del classico dei Jesters of Newport, Stormy, e l’omonimo di Willie the wild one dall’altro.

Federico Porta

Groovie Records
Dirty Water
The Routes