The Return of Songwriting
Che siano accorati e camp come Antony, arcadici e fricchettoni come Devendra Banhart e la sua corte, depressi cronici come Smog o Jason Molina (alias Songs Ohia), eclettici e antipatici come Conor Oberst alias Bright Eyes, legati alle radici come Howe Gelb e i suoi allievi, o un po’ tutte queste cose come Chan Marshall alias Cat Power, la voce (e il volto) più bella del mondo alternative, sono i cantautori i nomi più presenti nelle playlist di fine anno. Già doveva farlo presagire la svolta compiuta a fine decennio/ millennio scorso da tre campioni del post-rock come Jim O’Rourke, David Grubbs e Sam Prekop con i loro splendidi debutti solisti (rispettivamente “Eureka”(1999, Drag city) “The thicket” (1998, Drag City) e "Sam Prekop" (1999, Thrill Jockey) ). Ma se Grubbs e Prekop sono intimisti e notturni,
"Eureka” è un disco complesso e solare, dove accanto ad armonie canterburiane appaiono profumi di Beach Boys e Bacharach. Che sia questa la via del nuovo millennio, il ritorno di un pop ultraspeziato e super arrangiato? Anche in questo caso i segnali li avevamo già, con la svolta di Flaming Lips e Mercury Rev dalla psichedelia rumorista dei primi dischi agli arrangiamenti magniloquenti (a volte anche troppo) di “Soft Bulletin” (1999, W.B.) e “Deserter Songs” (1998, V2 Records) a cura di Dave Fridman, membro comune ai 2 gruppi.
Non a caso Fridman è anche produttore di un gioiellino misconosciuto come “Hate” dei Delgados (2002, Mantra Records), dove gli archi e un coro femminile contribuiscono a creare un clima da tregenda. Un coro femminile e una sezione di fiati, denominata “società per la conservazione dell’orchestra” dominano “The Getty address” (2005, Western Vinyl Records) dei Dirty Projectors, il disco più strambo ascoltato negli ultimi anni. Presentato come un opera sulla vita di Don Henley, ex Eagles (?!), è un disco che definire pop è azzardato, le melodie sono arcane, gli arrangiamenti complessi, siamo più vicini alle stravaganze di Van Dike Parks (arrangiatore dei Beach Boys e molto altro) o addirittura di Harry Partch, il compositore che utilizzava strumenti costruiti con residuati bellici trovati nel deserto. La voce dei Dirty Projectors poi ricorda Robert Wyatt, l’autentico filo rosso che mette d’accordo tutte le generazioni. Un disco non facile ma quantomeno spiazzante. Ambizione e stravaganza non mancano nemmeno a Sufjan Stevens, intenzionato a pubblicare 50 dischi, dedicati ad ognuno degli Stati Uniti (ma per i più piccoli basterà un EP), di cui il 2°, “Come on Feel the Illinois” (2005, Spunk Records) è stato disco dell’anno nel 2005 per la stampa cartacea specializzata italiana, inframmezzati anche da dischi a tema libero, uno, “Seven Swans” (2004, Sounds Familyre) tratta tematiche religiose, un altro, “Enjoy your rabbitt” (2001, Asthmatic Kitty) è strumentale, elettronico e ispirato dallo zodiaco cinese! Alcuni suoi brani, come la title-track, ricorderebbero il pop-rock degli ultimi Cure, se non fosse che evolvono in lunghe digressioni strumentali che rimandano al minimalismo di Philip Glass, in altri, la splendida Chicago su tutti, aleggia lo spirito di sua maestà Bacharach, in altri ancora arpeggi bucolici rimandano agli anni ’70, il tutto inframmezzato da brevissimi intermezzi orchestrali. I testi ovviamente sono presi da giornali locali o ispirati a scrittori nati nei luoghi cantati. Come Devendra Banhart non è originalissimo, ma ha una facilità compositiva che sbalordisce. Il cerchio si chiude con “Ys” (2006, Drag City) di Joanna Newsom, cantante e arpista, graziosa fidanzata del migliore amico di Devendra, sei lunghe composizioni con complessi arrangiamenti orchestrali di Van Dyke Parks, registrato da Steve Albini e prodotto da Jim o’ Rourke. Disco accolto con entusiasmo da parte della critica e tiepidamente dall’altra, che secondo me non riesce a conquistare totalmente per colpa delle limitate doti vocali di Joanna.
Strumentazioni ricche, brani articolati, cambi di ritmo e persino di stile caratterizzano anche gli Architecture in Helsinky e i Fiery Furnaces, 2 gruppi tra i meglio recensiti negli ultimi tempi. I primi sono un collettivo australiano di 8 membri, che mescola con disinvoltura sintetizzatori vintage e tromboni, tra la new wave più sepolta (chi si ricorda i Pink Military o Martha and the muffins?), il pop da cameretta e il kraut rock. I secondi sono un duo, fratello e sorella (veri),che hanno persino dedicato un concept album alla vita della propria nonna, cantante negli anni ‘30/’40, ovviamente presente sul disco. L'album “Bitter Tea” (2006, Fat Possum/Ryko) ad esempio presenta brani molto lunghi, tempi dispari, cambi improvvisi di atmosfera, divagazioni pseudoetniche, voci incise al contrario (alla lunga un po’ stucchevoli); maggiore difetto: suoni troppo sintetici. Un bizzarro sense of humour unisce questi gruppi, oltre al desiderio di espandere i limiti della musica pop, senza però, molto diversamente dal progressive anni ’70, abbandonare del tutto la forma canzone.
Se vogliamo, non siamo lontani dalla contaminazione tra generi degli anni ’90, che tuttavia si limitava a mescolare linguaggi meno sofisticati come metal e hip-hop nel crossover, o sofisticati come nel post rock. Qui il desiderio di fusione è totale, e arriva persino all’ anteguerra, come peraltro anche in Devendra Banhart.Una delle migliori uscite del 2006 è stata “All at once” (2006, Too Pure) degli Young People: 11 canzoni brevi, ritmi ossessivi, quasi tribali, arrangiamenti scarnissimi, melodie vicine al blues e al jazz degli anni ’40, al servizio di una voce bellissima, tra Bjork e la mia adorata Alison Statton (meteora degli anni ’80 più cult). Che dire, convinto che la musica del 2000 la ascolteremo quando debutteranno i musicisti nati nel 2000, io adesso scommetterei su questi gruppi. Intanto accorriamo e godiamoci l’Illinois.
Alfredo Sgarlato
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