venerdì 31 dicembre 2010

SIXTIES GARAGE - PSYCH selection, by Rossana Morriello

Dopo la più centrata Shadows Of Knight Selection, che ha inaugurato la serie Sixties Garage/Punk/Psych ecco una prima selezione di Rossana Morriello puramente introduttiva alle meraviglie garage punk che esplosero in America in quel decennio incredibile, ottimamente sintetizzate per la prima volta nel 'vangelo' "Nuggets" (Elektra/Sire, 1972) da Lenny Kaye, comprendente brani registrati tra il 1965 ed il 1968). Alcuni famosi brani di Nuggets sono presenti in questa selezione. Un doppio album che inaugurò una lunga serie di raccolte (Pebbles, Highs in the Mid-Sixties, Boulders ...) che con seriale spirito archeologico andavano a recuperare miriadi di piccole gemme sconosciute di quegli anni. Band provenienti dai vari stati americani che partendo da un'indigestione di beat inglese vanno man mano delineando attraverso le prime 'dilatazioni' soniche quel concetto di Psichedelia che esploderà di lì a poco nella scena di San Francisco (Grateful Dead, Jefferson Airplane, Moby Grape ...). Questa prima selezione di Rossana é una valida occasione indirizzata naturalmente ai neofiti per conoscere alcuni dei brani più importanti nell'evoluzione e 'rivoluzione' rock suddetta. (wally)





The Sonics – Psycho (singolo 1964 pre-Sonics, album Here Are the Sonics, 1965)








Zakary Thaks – Bad Girl (singolo 1966, album Zakary Thaks, 1980)









Count Five – Psychotic Reaction (singolo 1966, album Psychotic Reaction, 1967)








Kenny and the Kasuals – Journey to Tyme (singolo 1966, album Live at the Studio Club, 1967)











Question Mark & the Mysterians – 96 Tears (singolo 1966, album 96 Tears, 1966)








The Seeds – Pushin' Too Hard (singolo 1966, album The Seeds, 1966)










The Standells – Dirty Water (singolo 1965, album Dirty Water, 1966)








The Remains – Don't Loook Back (singolo 1966, album Remains 1966)









The Blues Magoos – (We Ain't Got) Nothin' Yet (singolo 1966, album Psychedelic Lollipop, 1966)






The Electric Prunes – I Had Too Much To Dream (Last Night) (singolo 1966, album Electric Prunes, 1967)



(a cura di Rossana Morriello)

GUN CLUB: Live 1984 and " Las Vegas Story" (S.F.T.R.Industry/Cooking Vinyl, 1984)

"Jeffrey Lee Pierce, biondo, figura tozza e corpulenta, cantante, compositore e chitarrista sui generis, guida i Gun Club da sempre, plasmandoli col suo carisma maledetto. Spesso penso a lui quale erede maledetto di Jim Morrison, per il suo modo di fare poesia, per i suoi moduli vocali strazianti, cupi ma soprattutto per la sua sregolatezza esistenziale, che ne hanno fatto un eroe negativo"

Così scrivevo su un giornalino locale in occasione di un incredibile concerto tenuto dai Gun Club verso la fine del 1984 in un cinema in provincia di Bari (lo so, é difficile crederci!).
Queste parole, certamente enfatiche, erano state scritte in preda all'eccitazione per un avvenimento eccezionale: l'esibizione di un gruppo che in quegli anni idolatravo con una ristretta ma fedelissima schiera di fans e che attraversava un felicissimo momento creativo; "The Las Vegas Story", album ispiratissimo e maledettamente lirico sino all'ultimo solco era uscito appunto in quel fatidico 1984.

THE LAS VEGAS STORY
Dopo il disperato EP "Death Party" i Gun Club incidono quel quasi-capolavoro che risponde al nome di "The Las Vegas Story", per l'Animal Records, prodotto da Jeff Eyrich.
Eccolo Kid Congo Powers, riunirsi al suo antico compagno, assolutamente funzionale, selvaggio ed istintivo nel suo stile chitarristico ai 'bad trips' di Jeffrey; il suo 'excessive feedback' é più efficace ed evocativo di qualsiasi solo tradizionale! Quindi Terry Graham alla drums e la stangona nuova arrivata Patricia Morrison al basso.
La produzione del 33 giri é magistrale, rendendolo (grazie ad una continuità notevole di atmosfere) un'epopea vera e propria di un'America decadente e profondamente inquietante: Bad America, My Dreams, Give Up The Sun, Stranger In Our Town, monumentali elegie elettriche; viste con occhio retrospettivo, epitaffi indelebili di un'anima pura, persa sullo sfondo degli anni del disagio reeganiano.
Come dimenticare My Man's Gone Now, il blues di George Gershwin che inaugura la seconda facciata, con Jeffrey che sfodera uno swing insospettabile su un piano vibrante, una cosa molto vicina al trattamento che Nick Cave riserverà al blues di lì a poco : Dark-Swing!
Ed ancora le tenebrose Moonlight Motel, Eternally Is Here, il country disperato Secret Fires, la danza indiana Walkin' With The Beast sino all'omaggio a Pharoah Sanders , The Master Plan.
Ospite Dave Alvin alla chitarra solista in Eternally Is Here e Stranger In Our Town.


GUN CLUB 'LIVE' 1984, Bari

Le voci circa il menefreghismo di Jeffrey Lee Pierce nei confronti del pubblico erano fondate: la prima parte della serata fu all'insegna del caos sonoro più sconcertante; Jeffrey, visibilmente fuori di testa (chissà di cosa!) se ne é fregato della tonalità di parecchi brani brutalizzandoli con il suo vocalismo svogliato ed occasionale, suonando la chitarra ritmica in modo disastroso. Si direbbe che il biondo stravolto volesse svolgere apposta una massiccia azione di disturbo sulla ritmica sempre precisa di Terry Graham (drums), e della dark-lady Patricia Morrison (bass).
Anche le buone cose cose di Kid Congo Powers, chitarrista tutto effetti e feedback, Lui le ha coperte e rovinate con la sua mano pasticciona ed eccessiva! Ma da personaggio lunatico ed imprevedibile quale Pierce é sempre stato all'improvviso ha lasciato perdere quel punkismo gratuito ed autocompiaciuto nel quale si era rifugiato 'totally stoned' e si é calato molto più attentamente e con giusta concentrazione nel feeling dei brani successivi, regalandoci delle versioni indimenticabili dei classici Sex Beat, Cool Drink Of Water, intense e sofferte interpretazioni di Walkin' With The Beast, Stranger In Our Town.
Ma é stato con Jack On Fire che i Gun Club hanno dimostrato quella sera la loro grandezza on stage quando riuscivano a entrare in feeling e ad amalgamarsi: a luci spente ci hanno lasciato tutti col fiato sospeso, la ritmica inesorabile a scandire il blues voodoo misterico degli inizi del gruppo ("Fire Of Love"); Kid Congo librava nell'aria ormai satura di vibrazioni malsane i glissati della sua chitarra, lamenti ancestrali di bestia ferita, mentre Jeffrey nell'oscurità si aggirava per il palco recitando con enfasi il suo copione di dolore e di alcoolista squilibrato.
Devo dire che mi sconvolse: lasciata la chitarra, ha rantolato sul palco, gettandosi a corpo morto più volte tra le prime file; si é arrampicato sugli amplificatori, rimanendoci accovacciato come una pantera ferita, mentre guardava il pubblico minacciosamente, in procinto di lanciarsi da un momento all'altro.
Il suo approccio on stage era completamente fisico e tragico, di pura ascendenza morrisoniana, e riusciva a creare nell'audience reazioni molto contrastanti e violente. Posso dire, per quanto mi riguarda, che si é trattata di una delle esperienze live più sconcertanti che io abbia mai vissuto, ed é rimasta scolpita nella mia memoria in modo indelebile!

Wally Boffoli

SIOUXSIE AND THE BANSHEES : "Join Hands" (Polydor/Geffen, 1979)

Delle campane a morto, poi una lenta, greve agonia di chitarre. Quindi, si schiude l’ ossario.
"Join Hands", secondo album dei Banshees, ha la bellezza marmorea e impassibile di un monumento ai caduti.
Sono le colonne del Vittoriano, è la lapide sotto l’ Arco di Trionfo parigino,
è il Mausoleo Sovietico di Tiergarten. "Join Hands" è un disco appassito come certe ghirlande macilente che adornano i sepolcri dei defunti dimenticati.
E’ un Re Magio che ti porta in offerta il dono dell’ oblio, severo ed implacabile.
Join Hands è un rituale di sepoltura, ma visto dall’ interno del feretro.
Non è una celebrazione dell’ orrore, non esibisce e ostenta spettacoli di viscere e carni maciullate. I Banshees lavorano con impassibile, freddo cinismo.
Senza ossequio e senza dolore tangibile, inchiodando alla croce i sentimenti umani della sofferenza con chiodi pieni di metastasi di ruggine.
Fermi in un’ istantanea di morte come scalpellini davanti ad un masso di marmo.
Placebo Effect, Icon e Premature Burial sono la sacra Trimurti del rock ossianico.
Autentiche marce funebri scolpite nel granito e sillabate da una Morgana in delirio da trance medianica anche se è negli ultimi minuti di Premature Burial, quando la voce di Siouxsie viene doppiata da quella maschile che ti accorgi che ti resta poco ossigeno, e che la festa che stanno preparando è riservata a te.
Quindi è Playground Twist a condurti nella discesa nelle catacombe della musica gotica. Suona come un Bowie davanti ad un plotone di
esecuzione yugoslavo. In fondo c’ è una bimba con un carillon in mano ad aspettarti.
Canta una straziante canzone d’ amore per la sua mamma e non sarà felice di vederti. E neppure tu lo sarai.
L’ ultimo atto è l’ infinita preghiera maledetta di The Lords Prayer che i fan dei Banshees già conoscono. Una messa nera improvvisata per mezz’ ora alla fine dei concerti biascicando testi sacri e versi di canzoni altrui e ora ridotta ai 14’07” conclusivi del disco. Poi l’ orizzonte sparisce.
Le narici si ingolfano di odore di erba, di carne secca e di sangue rappreso.
Gli occhi restano sbarrati, sporgenti sul buio.
I muscoli si fermano, tutto ammutolisce mentre il silenzio si deforma in un rantolo di dolore. Asfissia, paura, morte. Mani Congiunte.

Franco Lys Dimauro
The Lords Prayer
Premature Burial
Placebo Effect
Icon
Playground Twist

LOVE: “Forever Changes” (Elektra, 1967)

Etichetta, anno di incisione, e sound-engineer (Bruce Botnick) sono gli stessi del debutto dei conterranei The Doors, ma diversissimi sono lo stile e il background: non rock d’assalto venato di pop e blues ma psycho-folk a metà tra l’acido e l’evocativo, e non la carica di una band bramosa di conquistare il mondo ma il disagio di cinque ragazzi in piena crisi da droghe e ambizioni più o meno frustrate.
Nessuno si sarebbe mai aspettato un capolavoro, eppure capolavoro fu: chitarre distorte e arpeggi, ritmiche ruvide e arrangiamenti di archi e fiati, una voce che dall’Inferno punta al Paradiso.
Ma soprattutto amici miei, atmosfere e canzoni uniche, memorabili, a definire meravigliosamente una psichedelia che affonda le sue radici nella tradizione americana ma che rivela sorprendenti sintonie con quanto nello stesso periodo si sviluppava nel circuito (non solo) underground britannico.
Spoglio e ornato assieme, il terzo album dei Love è un ardito susseguirsi di incanti melodico-abrasivi, di equilibri quasi impossibili, di preziosi intarsi orchestrali sul corpo del rock fantasioso, onirico e avvolgente concepito dal chitarrista e cantante di colore Arthur Lee, che solo in due circostanze - Alone Again Or e Old Man: non si registrano però cadute di tono o tensione emotiva - lascia scrittura e microfono al biondissimo chitarrista Bryan MacLean. Impossibile cercare di descrivere a parole il progressivo crescendo dell’incalzante A House Is Not A Motel, l’inarrivabile grazia di Andmoreagain e i mille altri prodigi di questi quaranta minuti di folk elettroacustico malinconico e nel contempo solare, generati miracolosamente da un’alchimia casuale che in migliaia hanno poi cercato senza fortuna (o con fortuna parziale) di replicare.
Migliaia con l’esclusione di questi Love, che di li a poco si sono sciolti cedendo al leader la loro gloriosa sigla. Forse perché consapevoli di come nella storia del rock non avrebbe potuto esserci posto per un altro “Forever Changes.
Forever Changes per me è stato più di un semplice disco, è stato un compagno di viaggio ed un confidente capace di infondermi forza in molti momenti difficili della vita. E’ una delle pietre miliari della storia del rock, al pari di “Revolver” dei Beatles o “Pet Sounds” dei Beach Boys : purtroppo per molto tempo uno tra i più sottovalutati.
I filmati qui in calce sono presi dal festival di Glastonsbury del 2003. Esattamente tre anni prima che Arthur Lee, anima dei LOVE morisse di leucemia. Al tempo del concerto era già ammalato ma la sua voce non era cambiata, anzi era migliorata.

Pietro Ciraci

Andmoreagain Live
Arthur Lee & Love - Your Mind And We Belong Together (Live)



The Red Telephone
Maybe the People Would Be the Times or Between Clark and Hilldale
You Set The Scene
Live And Let Alive
The Daily Planet
Bummer In The Summer
Good Humor Man He Sees Everything Like This

PORCUPINE TREE : ”Recordings” Reissue (Kscope Records-2010)

I Vecchi aculei pungono ancora

Non ho mai amato leggere nè tantomeno scrivere, quel tipo di recensione dove un album viene analizzato brano per brano dall’inizio alla fine. Nel caso di questo “Recordings” dei Porcupine Tree (ristampa dell'omonimo lavoro uscito nel 2001, in edizione limitata di 20.000 copie) la tentazione c’è stata, in quanto brani slegati e assemblati tra loro in questa sorta di arbitraria compilation potevano permetterlo, ma tenendo fede all’assunto di partenza vedrò, come un cane bagnato di pioggia, di scrollarmi di dosso le gocce della tentazione dicendo subito che delle tre anime che convivono tra i consueti suoni dei Porcupine Tree una, se non altro, è completamente assente: mi riferisco a quella hard che ogni tanto fa capolino con pesanti e stupende schitarrate nei solchi dei loro album alternandosi ai momenti prog-psichedelici e alla vena cantautorale di Steven Wilson che al contrario la fanno da padrone in questa nuova (vecchia) uscita.
I brani presenti nel CD sono infatti quelli che non hanno trovato posto nei due splendidi album dei tardi anni novanta "Stupid Dream" e "Lightbulb Sun" rispettivamente ’98 e ’99 più alcune uscite, passate più o meno inosservate come lati B di CD singoli tratti sempre da quei due dischi.
Unico brano ultrafamoso che si rivela una strepitosa sorpresa è un’immensa versione dilatata della poderosa Even Less, una delle loro canzoni più belle, che all’epoca apriva Stupid Dream, ed è qui ripresa con una seconda parte inedita che la porta a diventare una fascinosa minisuite di quattordici minuti.
Tre e magnifici sono i brani strumentali che pagano il loro debito ai Pink Floyd del periodo migliore: Untitled che si avvale di un intro con un piano liquido doppiato dal contrabbasso di Colin Edwin suonato con l’archetto per poi esplodere nella parte centrale nell’assolo lacerante della chitarra di Wilson che conduce a una danza vorticosa e psichedelica: sembra un outtake di "Ummagumma".
Ambulance Chasing è invece introdotta da un intro percussivo profumato di Africa che potrebbe ricordare Biko di Peter Gabriel stemperato in effetti elettronici (il mago Richard Barbieri alle tastiere) che coadiuvano il sax dell’ospite Theo Travis (Soft Machine Legacy) e nuovamente la chitarra di Wilson ancora una volta Gilmouriana e pregnante così come nella conclusiva Oceans have no memory, un gioiellino prog dove l’arpeggio elettrico wilsoniano ricorda i momenti più luccicanti del 'minore' "Obscured by the clouds" dei Floyd.
Un caso a parte è Access Denied, ballata quasi pop con reminiscenze Beatlesiane, pop che, pur vivendo nel dna di Steven Wilson, raramente e occasionalmente i P.T. mettono in pista nella loro produzione. Quando lo fanno li si potrebbe paragonare ai King Crimson quando si dilettavano anche loro, altrettanto raramente, a Beatlesare.
Rimangono le canzoni a sfondo cantautorale, una manciata di brani lenti e carismatici di una bellezza sconvolgente con la voce di Wilson calda e avvolgente in primo piano e quelle voci doppiate che ritornellano i momenti salienti e che di volta in volta sono state paragonate a quelle di Crosby Stills Nash & Young o una volta di più a quelle dei Pink Floyd (e non sarà un caso che Crosby e Nash siano recentemente approdati sia live che in studio alla corte dell’ultimo Gilmour).
Tutti questi riferimenti ad altre musiche e ad altri artisti non traggano in inganno; la somma è infinitamente superiore alle sue parti, e comunque i P. T. restano, nonostante la deriva, altamente e incontestabilmente personali.
E poi quale musica oggi non è derivativa? (vedi gli ottimi Fleet Foxies accostati ai Byrds per citare un caso di cui si è parlato di recente su Music Box).
Ricordo per dovere di cronaca che, visto il periodo delle incisioni, dietro ai tamburi in questi brani siede ancora il bravissimo Chris Maitland prima di essere sostituito negli anni duemila dal perfetto batterista di... Claudio Baglioni (ebbene sì...) Gavin Harrison.
La produzione è, come sempre nei Porcupine Tree, superlativa; il genio di Steven Wilson (un altro capolavoro assoluto senza tema di smentita è il suo primo disco solo "Insurgentes" dell’anno scorso) è ormai dilagante e non si sa più dove collocarlo: se tra gli autori di splendide canzoni, come fantasioso e ottimo chitarrista, bravissimo cantante o come produttore.
Certo è che se oggi si vuole sentire un disco con suoni perfetti e amalgamati al meglio bisogna ascoltare un disco firmato Steven Wilson; la riprova è l’incarico affidatogli da Robert Fripp (mica l’ultimo dei musicisti/produttori) di rimasterizzare l’intero catalogo del Re Cremisi che il leader dei Porcupine Tree sta svolgendo alla perfezione rivestendolo, come i giardini di marzo, di nuovi abbaglianti colori.
Registrazioni vecchie si è detto, ma mai come in questo caso è evidente come il tempo artistico non esista; sono brani che potrebbero essere stati incisi ieri, aculei
porcospiniani di oltre dieci anni fa che però pungono ancora lasciando tracce indelebili e cicatrici incancellabili nell’animo di chi li ascolta.
E se questi sono gli 'scarti' dei due album citati in precedenza vi lascio immaginare, se già non lo sapete, cosa siano quelle due opere che insieme a una quindicina di altri imperdibili CD formano la summa di una delle più grandi band psicoprog dell’ultimo ventennio.
Una confezione lussuosa in digipack con foto e libretto e un prezzo contenuto (15 euro) spero possano invogliare all’ascolto non solo di un’ora di sfolgorante musica, ma anche alla scoperta di autentiche emozioni.
Maurizio Pupi Bracali

Buying New Soul
Cure For Optimism
Disappear
In Formaldehyde

PorcupineTree Official Website
Italian Fan Site

giovedì 30 dicembre 2010

THE CHURCH Selection by Maurizio Galasso

The Church: great band from Australia.

Steve Kilbey (13/09/1954): vocals, bass guitar, keyboards
Peter Koppes (21/11/1955): guitar, backing vocals, organ, piano
Marty Willson-Piper (07/05/1958): guitar, backing vocals, bass guitar
Richard Ploog –‘81/’90-(29/10/1962): drums, percussions, backing vocals
Jay Dee Daugherty –‘90/’93 (22/03/1952): drums
Tim Powles –‘93/present-(21/12/1959): drums



Chi non ha mai ascoltato i Church si é perso una buona parte di paradiso in terra: ci ha pensato Maurizio Galasso a cominciare a rimediarci con questa 'essenziale' ma sintomatica Selection. La voce gentile di Steve Kilbey, i cori celestiali e le aeree chitarre Rickenbacker di Peter Koppes e Marty Willson-Piper ci hanno confortato per tutti gli anni '80 e nel decennio successivo sino ai giorni nostri.
I Church furono solo una delle grandi rock-bands che la prodiga Australia regalò al mondo in un decennio funestato in Inghilterra ed in Europa da un melenso synth-pop che decretò la morte delle chitarre. Le altre si chiamavano Died Pretty, Triffids, Hoodoo Gurus, Go-Betweens ....fautrici di psichedelia mesmerica, esaltante garage-pop e personalissimo story-telling. Forse i Church sono stati e sono gli eredi più legittimi dei Byrds, a prescindere dall'uso affine delle Rickenbackers, soprattutto per lo stesso approccio 'umano' alla materia rock, capace di generare come nessun altra compagine prima e dopo di loro delle 'visioni' poetiche e soniche estremamente benefiche per il nostro spirito. (wally)






The Unguarded Moments (Of Skins and Heart, 1981 EMI-Parlophone)












Almost With You (The Blurred Crusade, 1982 EMI-Parlophone)











Electric Lash (Séance, 1983 EMI-Parlophone)











Into My Hands (Remote Luxury, 1984 EMI-Parlophone)











Already Yesterday (HeyDay, 1985 Emi-Parlophone)











Under The Milky Way (Starfish, 1986 EMI-Parlophone)











Metropolis (Gold Afternoon Fix, 1990 Arista)











Anaesthesia (Hologram Baal, 1998 Thirsty Ear Recordings)










Snowfaller (Back With Two Beasts, internet-only released 2005)











Dead Man’s Hand (Untitled #23, 2009 Unorthodox Records & Second Motions Records)

BRYAN MACLEAN: " IfYouBelieveIn" (Sundazed, 1997)

In un giorno come questo, in un momento in cui mi sento particolarmente romantico, mi piace parlare con voi dell’album “IfYouBelieveIn” (sì, tutto attaccato!) di Bryan MacLean, chitarrista dei Love. Un album umplugged di questo artista che, si scopre, avere una voce calda ed espressiva, finanche emozionante. Un album uscito postumo di canzoni che Maclean aveva composto proprio perché fossero suonate dalla mitica band del compianto Arthur Lee.
Così, nell’aprile 1997, lo stesso autore presentava il suo album:"The music that is presented in this collection was written, decades ago, when I was in the band LOVE, and was written with that band in mind…”. E in effetti, alcune di queste songs diventeranno pietre miliari della storia dei LOVE. Penso soprattutto alla splendida Alone Again Or, in questa raccolta replicata due volte: in una prima registrazione del 1972, dove l’elemento spagnoleggiante, un improbabile flamenco reso dalla chitarra acustica, si amalgama ad una costruzione delicatamente psichedelica, ed in una nuova registrazione, datata 1982, dove lo stesso elemento latino viene riproposto con un utilizzo più caratterizzato della sua sognante voce.
Penso anche ad una rallentata prima versione, datata 1966, di Old Man, dove prevale una sensibilità folky che avvicina molto Bryan al repertorio del sognante menestrello americano Tim Buckley, al cui il nostro si avvicina, soprattutto in questo brano, per la modulazione vocale e per le soluzioni musicali. Nella raccolta di brani ci sono invece canzoni che non videro mai la luce, alcune splendide.
Chi non avrebbe voluto ascoltare, già nel 1966, e magari proprio dai LOVE, l’ispirata e dolcissima She Looks Good, che seppure nel costretto minimalismo dovuto ad una voce ed una chitarra davanti ad un registratore, suscita emozioni di rara intensità? Canzoni d’amore e di sentimenti 'pieni che, quindi, hanno o avrebbero potuto figurare nel repertorio ideale Love ma che nulla tolgono all’originalità di un’artista che, con i suoi brani, rivendica un ruolo nella band assolutamente principale, sebbene Arthur Lee tendesse a primeggiare ed a relegare gli altri artisti della band a meri comprimari. Ed è così che nasce questa romantica raccolta di prove strutturate e di inediti che mi piace immaginare da ascoltare questa sera, con la complicità di un McIntosh valvolare caldamente spinto dall’artistico attrito della puntina sul solco, di luci di candele tremolanti, di calore e profumo di legna che arde nel camino, di un sorso di barolo chinato e, soprattutto, con la complicità di una donna dai capelli scuri, oggi e sempre mia moglie, che può essere amica, sorella, amante.
Una voce, una chitarra acustica, l’arte di un songwriter e la spontaneità dei sentimenti di chi ascolta e filtra e reagisce e ama di conseguenza.
Assolutamente da dedicare a chi crede ancora alla 'favola' dell’amore ed è ben felice di restare bambino per ascoltarla ripetutamente; assolutamente anche da dedicare a chi, cresciuto, dalle favole d’amore piace trarre la metafora, che è sempre quella, nemmeno originale, pur sempre foriera di intriganti emozioni a cui non vorremmo mai rinunciare.

Marcello Rizza

Alone Again Or
She Looks Good

Old Man
Orange Skies & Strong Commitment
Barber John
Tired Of Sitting
Strong Commitment
Claudia
People

BOOK REVIEWS: "GENTLE GIANT - I GIGANTI DEL PROG ROCK " by Antonio Apuzzo (Stampa Alternativa, 2010)

“Agli inizi non avevamo una direzione precisa. Avevamo un nome, Gentle Giant, ma il materiale era ancora grezzo. Eravamo diversi l'uno dall'altro dal punto di vista delle influenze, delle personalità e delle conoscenze. Il modo in cui riuscimmo a fondere tutto questo in uno stile nostro rimane ancora oggi, per me, uno splendido mistero”. Basterebbe già questa dichiarazione di Derek Shulman, nelle prime pagine del libro, per far capire che di opere come questa ce ne vorrebbero molte di più.
Anzi, ce ne vorrebbe una per ogni band che abbia lasciato un segno tangibile nella storia del rock. Perchè leggendo libri come questo ci si rende conto che si riesce ad assimilare molto di più una canzone, un album o anche un'intera discografia, se li si ascolta con la consapevolezza di come sono stati concepiti, in che ambiente, di quali emozioni e di quali contesti sono stati il frutto.
Il libro in questione si intitola “Gente Giant – I Giganti del Prog-Rock” ed è una biografia, realizzata dal musicista italiano Antonio Apuzzo per la casa editrice Stampa Alternativa, di una delle band più 'strane' che l'universo rock ricordi. Un nucleo di polistrumentisti incredibili capaci di infiammare il pubblico sul palco con un riff chitarra-basso-batteria e poi di colpo passare ad un brano per violino e violoncello, o per quattro flauti dritti, o per tromba e tastiere, o per un ensemble di sole percussioni.
Tutto, però, senza prendersi mai troppo sul serio, “perchè in fondo siamo sempre stati prima di tutto una rock band”, come amavano spesso ripetere gli stessi musicisti di questo grande, complicato progetto chiamato Gentle Giant.
Nel corso dell'opera di Apuzzo ripercorriamo tutta la loro vita, dall'infanzia niente affatto facile dei tre fratelli Shulman, cresciuti nei più rischiosi quartieri-ghetto del proletariato inglese, agli studi classici di Kerry Minnear in una scuola che lui stesso definisce 'altamente competitiva', fino agli esordi del chitarrista Gary Green, che da bambino intratteneva, alla sera, i parenti in vacanza sulla spiaggia di Rimini suonando per loro gli 'hits' dei Beatles.
Da questa genesi muoverà i primi passi una band cresciuta tra mille contraddizioni, per tutta la vita schiava del sogno di conquistare platee immense e 'fare i grandi numeri' pur continuando a suonare la musica più anticommerciale possibile.
Ma forse gli stessi Gentle Giant, perennemente insoddisfatti nella loro nicchia, non si rendevano nemmeno conto di quale bomba avevano in mano: Apuzzo, infatti, ci racconta di un'era geologica oggi neanche lontanamente immaginabile, nella quale in Italia bands come Gentle Giant o Van Der Graaf Generator potevano permettersi di organizzare tour di una quindicina di date, radunando pubblici da 20.000 persone a sera.
E poi, ancora, il loro destino di 'eterni secondi' in America, che li vedeva spesso costretti a fare da spalla ad altri, vittima degli abbinamenti più improbabili, dai Black Sabbath agli Sha Na Na, lo humour irrefrenabile di Derek Shulman, che spesso presentava al pubblico la sua band spacciandola di volta in volta per i Led Zeppelin, gli Yes o gli Abba, e invece le tensioni con il più 'vecchio' fratello Phil, che sognava una vita lontana dalla ribalta, da dedicare alla famiglia e all'insegnamento, che lo porteranno ad allontanarsi dal gruppo proprio all'apice del successo, e ancora l'avvicendamento di ben tre batteristi.
Nel corso dei vari capitoli del libro dedicati agli album della band, questi episodi storici sono intervallati a descrizioni più tecniche, nelle quali ogni canzone viene analizzata nella sua struttura e nell'avvicendamento delle sue parti strumentali (lavoro niente affatto facile, visto l'incredibile polistrumentismo dei componenti della band).
A corredo al libro è allegato il CD “Ibrido Hot Six plays Acquiring the Taste” in cui la band dell'autore, il clarinettista/saxofonista Antonio Apuzzo rilegge forse l'album più completo e riuscito dei Gentle Giant in una inedita chiave 'cameristica', per quattro fiati (oltre alle ance di Apuzzo anche flauto, oboe e tromba) e due contrabbassi, tra atmosfere jazz e di avanguardia.

Alberto Sgarlato



Gentle Giant - Funny Ways - 16mm Film - 1974
Advent of Panurge
Gentle Giant - The Runaway \ Experience


GentleGiantStampaAlternativa