sabato 13 novembre 2010

BOOK REVIEWS: "Le biciclette bianche" di Joe Boyd (2010, Ed. Odoya, pp. 286)

Si autodefinisce l’eminenza grigia della musica rock, un uomo che è stato dietro il lavoro di musicisti come Nick Drake, Incredible String Band, John Martyn, Sandy Denny, Tomorrow, Pink Floyd; produttore discografico e cinematografico, promoter, gestore di locali underground, il nome di Joe Boyd è legato ad alcuni dei momenti più importanti e significativi della storia della musica rock e non solo poiché con lui hanno lavorato anche bluesmen e jazzisti.
Nel 2006 ha pubblicato le sue memorie sugli anni 60, ed ora le edizioni Odoya le hanno finalmente tradotte in italiano, il titolo "Le biciclette bianche" richiama sia le biciclette che i provos di Amsterdam mettevano gratuitamente a disposizione della cittadinanza, sia la canzone dei Tomorrow, band prodotta dall’autore e protagonista delle memorabili serate dell’Ufo, il locale di Boyd, dove si esibivano anche Pink Floyd, Arthur Brown, Incredibile String Band, Procol Harum, al centro della scena psichedelica londinese e sotto il mirino della polizia e della stampa conservatrice.
Merito principale del libro, che ne fa una lettura indispensabile per chi ama e vuol approfondire la conoscenza di quel periodo musicale, è quello di farci rivivere dall’interno l’atmosfera dell’epoca, quel senso di libertà improvvisa che un’intera generazione si trovò a prendere in mano liberando grandi energie creative che sfociarono nel periodo più incredibilmente esplosivo della musica rock. Joe Boyd dà anche una sua spiegazione, a mio avviso convincente, sul perché gli anni Sessanta rappresentarono un periodo così straordinariamente vivace e rivoluzionario: fu la disponibilità di denaro, nel senso che la vita era molto meno cara di adesso, e di tempo che rese quella generazione così libera e fiduciosa nel suo futuro, al contrario di quanto avviene oggi in cui la sensazione dominante è la mancanza e di denaro e di tempo.
Se non mancano le critiche a quel periodo, il razzismo con il quale gran parte del mondo musicale inglese accolse, per esempio, i jazzisti sudafricani Chris McGregor, Mongezi Feza, Dudu Pukwana, Johnny Dyani, il sessismo, l’autodistruttività che si manifesterà nell’uso di cocaina ed eroina, “ … non mi sono mai accorto che la cocaina migliori qualcosa”; dall’altra parte Boyd afferma con passione la grande vitalità di quegli anni e la sua forza di rottura: furono anni di grandi speranze e di grandi sfide, durante i quali ‘giovani senza debiti’ riuscirono a dare un deciso cambiamento alle società occidentali, per Boyd gli ideali che sono ancora fonte di speranza per il futuro hanno le loro radici negli anni Sessanta.
La rievocazione delle sue esperienze, Boyd la fa con un tono volutamente basso, il volume non è affatto autocelebrativo, eppure la materia non sarebbe mancata visto che il nostro ha avuto a che fare con indubbio fiuto con quanto di meglio e di meno convenzionale il rock abbia offerto: al contrario presenta gli avvenimenti e i personaggi nelle loro varie sfaccettature, legandoli al periodo storico e culturale, non dando giudizi moralistici, ma fornendoci le informazioni necessarie per capire.
Molto interessante e appassionante, ad esempio, la sua rievocazione della celebre esibizione elettrica di Dylan al festival folk di Newport (“Molto degli anni Sessanta è rispecchiato in quel sabato sera a Newport, quando Dylan fece scappare Pete Seeger nella notte con la festosa aggressione della sua musica originariamente ispirata dallo stesso Seeger.”) o la ricostruzione della vicenda dell’Incredible String Band, dei rapporti personali fra i musicisti e del ruolo che ebbe la loro adesione a Scientology nella parabola artistica della band.
Ma la parte più intensa e coinvolgente, dove si sente anche la partecipazione emotiva dell’autore, è la ricostruzione della personalità artistica ed umana di Nick Drake, del quale Boyd non si stanca mai di sottolineare lo straordinario talento artistico e musicale e sul cui tragico percorso umano cerca di trovare una spiegazione.
Naturalmente sono molti i personaggi che sono passati sotto gli occhi di Boyd e che troverete fra le pagine del libro, dai Fairport Convention a Paul Butterfield, da Steve Winwood a John Sebastian, da Jimi Hendrix a Thelonius Monk, per citare solo una minima parte.
Da grande produttore Boyd usa parole che suoneranno miele per i moltissimi appassionati del vinile e delle vecchie registrazioni: ”Il suono migliore di tutti è quello direttamente stereofonico, senza mixaggio, senza sovraincisioni, e non digitale.”
Ricco di aneddoti, personaggi più o meno famosi dell’universo rock, lucide analisi sociologiche, acuti giudizi musicali, il libro tratteggia un quadro non sempre conosciuto del mondo musicale degli anni 60; unica pecca gli errori di stampa presenti nell’edizione italiana, riscattati però dall’utilissimo indice dei nomi, indispensabile per un libro che è utile anche come opera di consultazione.

Ignazio Gullotta

Tra i grandi dischi prodotti da Joe Boyd:
"Arnold Layne" (Pink Floyd, 1967)
"The Hangman’s Beautiful Daughter" (Incredible String Band, 1968)
"Five Leaves Left" (Nick Drake, 1969)
"Unhalfbricking/Liege & Lief "(Fairport Convention, 1969)
"Bryter Layter "(Nick Drake, 1970)
"Full House" (Fairport Convention, 1970)
"Pink Moon" (Nick Drake, 1972)
"Jimi Hendrix" (Soundtrack, 1973)
"Fables of Reconstruction" (REM, 1985)


Tomorrow: My White Bicycle
Dylan Goes Electric & Pete Seeger Goes Nuts! - 1965 Newport Folk Festival
Jimi Hendrix: Hear My Train A Comin'
Nick Drake: River Man
Fairport Convention: Authopsy
Pink Floyd: Arnold Layne
The Incredible String Band: Koeeoaddi There

Joe Boyd on the web

venerdì 12 novembre 2010

INTERVISTA: THE GORIES (with Dan Kroha) and Lo-Fi Blues Connection

The Gories and LO-FI Blues Connection

The Gories sono stati, a cavallo tra la fine degli '80 e l'inizio dei '90 una delle bands americane più importanti (insieme ad Oblivians, '68 Comeback, Bassholes, Gibson Brothers) del filone cosiddetto lo-fi blues, perché la loro riscoperta delle roots blues e r&b era caratterizzata da un approccio primitivo, tecnicamente povero, marchiato da un amore sviscerato per il 'rumore'e l'estetica punk!
Originari di Detroit, vissero dal 1986 al 1993: Mick Collins (lead vocal, guitar), Dan Kroha (guitar and vocals, Margaret Ann O'Neill (Peggy) alla batteria.
Gories incisero principalmente tre albums, rimasti dopo il loro scioglimento dei punti di riferimento imprescindibili per tutti coloro che nel rock cercano una nuova essenzialità espressiva ed il ritorno 'imbastardito' all'innocenza primitiva delle radici: "Houserockin'  "(1989, Fan club Rec./New Rose), "I Know You Fine, But How You Doin' " LP/CD (New Rose, 1990), "Outta Here" (Crypt, 1992).
Dopo la parentesi Gories, Mick Collins, vero deus-ex machina della scena lofi-blues, per la sua estrema versatilità artistica e compositiva ha dato vita e prodotto alcune formazioni importanti (Blacktop, Screws, King Sound Quartet), anche se durate (qualcuna) il tempo di un album, nelle quali ha lasciato sempre indelebile la sua impronta di artista di colore impegnato in una rilettura personalissima, sacrilega naturalmente per i puristi, decisamente oltraggiosa ma affascinante di quei generi fondamentali per la musica americana inventati dalla sua gente tanto tempo prima.
La band più stabile fondata da Collins dopo i Gories é Dirbombs: nata nel 1998 ha inciso praticamente sino ai giorni nostri.
Il progetto più importante di Dan Kroha postumo ai Gories rimane Demolition Doll Rods, ma di tutto questo e di più ci parla Kroha stesso in quest'intervista realizzata nel 2009 da Crizia Giansalvo in occasione della loro reunion (di cui vi offriamo in calce alcuni episodi audio-visivi), e gentilmente fornitaci dall'ottima fanzine cartacea Mutiny.

Wally Boffoli




The Gories Interview (with Dan Kroha)

I Gories sono una delle band più importanti di Detroit! Come siete cresciuti musicalmente?
Dan Kroha: Sono il primogenito (ho una sorella e un fratello più piccoli) perciò non avevo fratelli più grandi che potessero indirizzarmi verso la musica. I miei genitori non ascoltavano rock'n'roll. Sono cresciuto ascoltando la radio e ho ricevuto le mie prime influenze da lì. Mi piacciono soprattutto gli ‘oldies’ e quando ascoltavo cose come gli Animals, Who, Them, Kinks e Yardbirds, sapevo che era la musica per me.
Posso dirti che Mick Collins era il più giovane in famiglia, perciò in casa aveva molti dischi dei fratelli e le sorelle maggiori. A sua madre piaceva il blues e aveva ottimi dischi.
Non so come Peggy si sia interessata alla musica, ma l'ho conosciuta quando aveva 19 anni e aveva già ottimo gusto. Ricordo quando la incontrai per la prima volta, le piacevano i Monkees e i Velvet Underground su tutti.

Quanto ha dato Detroit alla vostra musica?
Detroit è il posto dove devi usare molto l'immaginazione. Ci sono sempre state persone molto creative e c'erano sempre un paio di band rock'n'roll davvero buone. In più, c'è una così forte tradizione musicale, che penso derivi dalle influenze delle persone che da tutto il mondo, specialmente dal Mississippi e dagli stati del Sud in generale, arrivavano per lavorare nell'industria dell'automobile.

Come mai avete deciso di essere una band senza basso?
Non fu una scelta, ma più un incidente!! All'inizio dovevamo essere io o Mick a suonare il basso, dipendeva da chi scriveva la canzone (il songwriter avrebbe suonato la chitarra) ma poi abbiamo scoperto che Mick era più bravo a suonare singole note e io a suonare gli accordi, quindi insieme eravamo quasi bravi come un solo chitarrista!


Le vostre influenze vengono più dalla scena Blues, che da quella garage anni '60. Cosa apprezzate di più dell'era blues?
Mick Collins e io avevamo diversi dischi blues quando abbiamo fondato i Gories. Io avevo Muddy Waters e Bo Diddley. Mick ascoltava Slim Harpo, Howlin' Wolf e John Lee Hooker.

Quando è finita l'era dei Gories, ognuno di voi ha continuato con altri progetti: vuoi raccontarceli un pò?
Io ho fondato i Rocket 445 e ho suonato con loro nel 1992 e 1993. In quel periodo ho fondato anche Demolition Doll Rods con Margaret Doll Rod e abbiamo suonato insieme dal 1993 al 2006. Dopo che si sono sciolti Doll Rods, ho suonato con gli Ultimate Ovation, un gruppo soul, e abbiamo fatto uscire un singolo nel 2008. Ora ho una nuova band i The Readies, abbiamo un myspace, cercatelo!
Mick ha fatto così tanto dopo i Gories! La sua prima band post-Gories furono i Blacktop.Ha suonato in così tanti dischi, che non li ricordo tutti. Sono molto orgoglioso della collaborazione che abbiamo fatto insieme con André Williams. Il titolo è "Silky" ed è uscito per la In the Red Records. Abbiamo scritto la musica, suonato e prodotto il disco.
Non ricordo che anno era, più o meno 8- 10 anni fa!
Dopo la scioglimento dei Gories, Peggy si è trasferita a New Orleans e ha suonato in un paio di dischi con i ‘68 Comeback. Ha anche suonato la batteria in una band di lì, The Darkest Hour, con Matt il chitarrista di The Royal Pendletons.


Quanto è cambiato essere artisti indipendenti nel 2009 rispetto agli anni 80?
Sembrava ci fossero meno band negli anni 80. Ora è come essere sommersi! Penso che abbiamo davvero mostrato che tutti possono farcela! Ci sono così tante band ora! In più, penso che ora sia tutto meno misterioso. Ogni informazione è sulle tue dita grazie ad Internet. Negli anni '80 era davvero difficile trovare informazioni sulla tua oscura band preferita. Dovevi scrivere lettere alle persone e ordinare fanzines. Tutto questo si è perso ormai.


Mick Collins è uno degli artisti più prolifici dei nostri tempi: è un programmatore unix, attore, dj, produttore e ho letto che vuole persino incidere un disco techno!
Anche nei Gories Mick continuava a lavorare su molti altri progetti, anche se la maggior parte di questi erano nella sua immaginazione! E' sempre stato interessato a vari generi musicali e colleziona tutti i tipi di musica! Sono stato attratto da lui soprattutto per questa sua grande immaginazione. Quando l'ho conosciuto, aveva 5 differenti band nella testa con canzoni, copertine e video progettati per ognuno!

Che band attuali preferite?
Sono sicuro che Mick ha una lunga lista di band che apprezza attualmente!
Io ascolto veramente solo musica dei decenni passati. Recentemente ho sentito qualcosa di "Panda Bear" degli Animal Collective e mi è piaciuto. Mi è piaciuto il disco di Amy Winehouse quando lo sentii per la prima volta, ma è passato qualche anno ora! Ci sono un pò di band di Detroit che mi piacciono: Gardens, The Sugarcoats, Magic Shop, The Dialtones, Smashed Windows, Lightning Love, Silverghost, questi valgono molto.
So che anche Peggy ascolta principalmente gli oldies. Penso che le piaccia qualcosa di nuovo, ma non saprei dirti cosa.

E stato annunciato un tour con gli Oblivians nel 2009! Come è nata l'idea e in che stati suonerete?
L'idea per la reunion tour è nata per la festa del 25° anniversario della Crypt Records. Tim Warren [suo proprietario] doveva dare una grande festa e i Gories e gli Oblivians decisero di riunirsi e suonare insieme. La festa poi non si fece, per varie ragioni, ma Peggy e Greg Cartwright degli Oblivians parlarono al telefono e decisero che visto avremmo dovuto suonare per questa festa, perchè non organizzare un tour?
Pensavamo tutti che era un buon momento per farlo. Il 2009 sarà il 23° anniversario dei Gories e il 23 è il numero dell'ispirazione divina. 2 e 3 dà 5 e il primo LP dei Gories fu registrato il 5 maggio.

Crizia Giansalvo

(intervista tratta dal n. 1 della fanzine "Mutiny! 'Zine”)




"Mutiny! 'Zine è la fanzine nata nel settembre 2010 nell'ambito dell'incontro tra l'associazione Mutiny di Luca Falcone, Federico Sabatini, Francesca Di Santo e Crizia Giansalvo, che si occupa di organizzazione concerti e di un cineforum mensile nell'area di Pescara; arrivando in poco più di un mese a presentare in anteprima il nuovo documentario di Julien Temple "Oil City Confidential" e, insieme all'associazione Sulmona Rockers, ad organizzare il concerto dei Vibrators, leggende del punk britannico.
Il primo numero, da cui é tratta questa intervista, è uscito il 26 settembre 2010 in forma esclusivamente cartacea. E' in preparazione il secondo numero, che vedrà anche un ampliamento dei collaboratori e quindi delle tematiche musicali trattate.
Per info potete trovarci su Facebook Mutiny Fanzine
o contattarci all'indirizzo: mutinype@gmail.com "


giovedì 11 novembre 2010

LIVE REPORT: Roma ProgExhibition Festival - Roma, Teatro Tendastrisce, 5 e 6 novembre 2010

Nel 1970, anno di grandi fermenti musicali internazionali, mentre sull’Isola di Wight si contendevano (letteralmente, come rivelano gli aneddoti narrati dagli stessi musicisti) il palco Hendrix, Jethro Tull, Miles Davis, i neo-costituiti Emerson Lake and Palmer e tanti altri grandi, in Italia, a Roma, per la precisione, si avvicendava sul palco di Caracalla tutta la crème di quel movimento che all’epoca fu semplicemente battezzato ‘nuovo pop italiano’ e che negli anni conquistò una planetaria popolarità, dal Giappone al Sud America, con il nome di Italian Progressive Rock.
Venerdì 5 e sabato 6 novembre 2010, le Edizioni Musicali Aereostella di Iaia De Capitani hanno voluto commemorare il quarantennale di quello straordinario evento con una due-giorni di progressive rock presso il Teatro Tendastrisce di Roma, la Roma ProgExhibition Festival. Tra il foltissimo pubblico accorso, anche delegazioni, con bandiere e striscioni, dagli USA, dal Messico, dalla Costarica, dal Giappone e da quasi tutte le nazioni europee.

5 Novembre
L’arduo compito di rompere il ghiaccio è affidato ai Synesthesia, in rappresentanza di quel recente filone che fonde certe atmosfere del prog con la violenza del power-metal. Il connubio esalta i più giovani tra i presenti ma fa un po’ storcere il naso ai vecchi puristi.
Dopo di loro salgono sul palco i genovesi La Maschera di Cera, band nata all’inizio di questo decennio ma con l’intento di riproporre in maniera fedele nelle proprie originali composizioni le sonorità (e persino la grafica e il packaging) dei grandi concept album prog dell’epoca. La loro performance è potente e grintosa, in particolar modo da parte del front-man Alessandro Corvaglia, che si scatena con grande teatralità, ma purtroppo la band è in assoluto quella più penalizzata in termini di suoni. Soprattutto le tastiere di Agostino Macor, sempre molto attento nel ricreare timbriche vintage, sono soffocate quando invece meriterebbero di emergere con vigore.
Iniziano le band storiche: i primi sono The Trip, che propongono materiale dai due loro album più famosi, cioè “Caronte e “Atlantide”. Sul palco ritroviamo il tastierista Joe Vescovi, il cantante (e originariamente bassista, ma oggi purtroppo vittima di problemi articolari) Wegg Andersen e il drummer Furio Chirico (anche degli Arti & Mestieri), oltre a due giovani comprimari alla chitarra e al basso, rispettivamente Fabrizio Chiarelli e Angelo Perini.
L’esibizione, seppur penalizzata da qualche inconveniente tecnico iniziale (inevitabile nei festival, quando molte band devono condividere una stessa strumentazione sul palco), è talmente emozionante da far sgorgare più di una lacrima tra chi, nel pubblico, li aveva amati in gioventù e da lasciare a bocca aperta i più giovani. Serpeggia, però, un po’ di delusione, per non aver visto chiamare sul palco dalla band, neanche per un saluto, il primo drummer Pino Sinnone, che pure era presente tra il pubblico.
Dopo i Trip salgono sul palco Tony Pagliuca (tastiere), Aldo Tagliapietra (voce, basso, chitarra 12 corde) e Tolo Marton (chitarra) che, pur essendo tutti membri storici de Le Orme, non possono esibirsi con questo nome per una questione di diritti (probabilmente dovuta a qualche attrito con il batterista Michi Dei Rossi, che detiene il nome e lo utilizza con un’altra line-up). Anche in questo caso il materiale eseguito è quello degli album più amati ma, soprattutto, più progressivi nelle sonorità, come “Collage” e “Felona & Sorona". Proprio nei momenti finali di Felona & Sorona i musicisti vengono affiancati sul palco da David Cross, violinista elettrico dei King Crimson, che dà un ulteriore valore aggiunto in termini di sonorità magiche a una già ottima esibizione.
"Le Orme" (concedeteci di chiamarle così), dal canto loro, ricambiano il favore eseguendo Exiles insieme a Cross. La calda, corposa voce di Tagliapietra, assai simile a tratti a quella dei vari cantanti avvicendatisi nella band guidata da Robert Fripp, è davvero assai a suo agio nel repertorio crimsoniano, ed il risultato non lascia adito a perplessità.
Chiude la prima serata la Premiata Forneria Marconi. All’inizio i musicisti sono visibilmente indispettiti da alcuni inconvenienti tecnici, in particolare all’ampli del basso, ma come abbiamo già detto in un festival fa tutto parte del gioco.
Di Cioccio salta e corre su e giù per il palco come un ragazzino ma, diversamente a molti show recenti, siede più spesso alla batteria (che condivide con l’ottimo Pietro Monterisi) e lascia a Franco Mussida la maggior parte delle parti cantate, riservandosi piccoli e delicati momenti intimisti come Harlequin, Out of the Roudabout e la blueseggiante Maestro della Voce, dedicata al compianto Demetrio Stratos che, nell’intro affidata al basso, viene anche ricordato da Patrick Djivas con una citazione da Luglio Agosto Settembre (nero).
Ma il momento sicuramente più emozionante per i fans, che si alzano in una standing ovation, é quando la PFM divide il palco con Ian Anderson, dei Jethro Tull. Il flautista/cantante/chitarrista inglese fa il suo tradizionale ingresso sul palco in posa da fauno (con la gamba destra alzata e appoggiata al ginocchio sinistro) e manda in visibilio la platea. Tutti sono emozionati, a cominciare dallo stesso Mussida che, con voce rotta dalla commozione, ricorda: “Avevo 22 anni quando saltai sulla sedia esattamente come voi, vedendoli per la prima volta dal vivo. Immaginate come mi sento in questo istante”. Con Ian la PFM esegue una irrinunciabile Bourée, poi My God (dall’album “Aqualung”) ma, soprattutto, una spettacolare versione della Carrozza di Hans nella quale Anderson al flauto non si risparmia. Un momento indimenticabile per tutto il pubblico presente.

6 Novembre
L’apertura è affidata ai Periferia del Mondo, band molto giovane ma che può già vantare collaborazioni illustri (da Mauro Pagani a Rodolfo Maltese, e molti altri) nei propri album. Il loro sound è una riuscita contaminazione tra prog-rock dalle forti aperture romantiche, jazz-rock e influenze etniche arabeggianti e mediorientali, con in primo piano i molti fiati (sax alto, tenore e soprano, clarinetto, flauto) del cantante Alessandro Papotto. Il pubblico mostra di apprezzare la solida e rodata band come merita.
Dopo di loro, salgono sul palco gli Abash, che danno una ulteriore sterzata al sound della serata verso atmosfere multietniche, con forti influenze anche della musica popolare del Sud Italia. Purtroppo anche nel loro caso tante finezze a livello di sonorità, come certi piccoli tocchi di percussioni sapientemente posti a colorare qua e là, si perdono un po’ nell’impasto generale dei suoni, ma il loro show è comunque trascinante e coinvolgente.
È la volta di una band che nel 1972 lasciò una traccia tangibile, con l’album “Per un mondo di cristallo”, nella scena prog romana: la (Nuova) Raccomandata con Ricevuta di Ritorno. La voce del cantante nonché ‘pittore volante’ (come recita il titolo del nuovo album) Luciano Regoli è ancora più potente, alta, brillante e versatile che negli anni ’70, frutto di un lungo periodo di studio e di esercizio. Con lui sul palco, della vecchia formazione, troviamo Nanni Civitenga, che all’epoca del primo album era il chitarrista e oggi è invece un bassista dalle quotazioni molto elevate (ha lavorato, tra gli altri, con Ennio Morricone).
Il loro ospite sul palco è Thijs Van Leer, flautista e organista dei Focus, con il quale eseguono The house of the King, di certo il brano più famoso della band olandese (fu usato anche dalla Rai come sigla) e Palco di Marionette, dall’album dei RRR “Per un mondo di cristallo”. Ma oltre a Van Leer un altro ospite, totalmente a sorpresa e ingiustamente non citato sui manifesti, divide il palco con la Raccomandata: è Claudio Simonetti, dei Goblin, che delizia il pubblico con un’introduzione pianistica
d’alta scuola, in cui cita anche alcuni dei suoi temi più famosi (Profondo Rosso su tutti), prima di porsi totalmente al servizio della band con risultati notevoli, anche nelle interazioni con il mattacchione Van Leer, che intervalla le sue performances ad alto livello tecnico con bizzarre gag ironiche.
Salgono sul palco gli Osanna e, senza nulla voler togliere a nessuna delle straordinare band avvicendatesi nel corso del festival, sono forse il miglior live-act di prog-rock italiano di sempre: potenti, trascinanti, travolgenti, energici come un fiume in piena, precisi e perfetti come una macchina, un ben oliato macchinario in cui ogni suono è al suo posto e non può essere che lì.

Gli Osanna, poi, hanno un ulteriore valore aggiunto: i due straordinari ospiti che li affiancano sul palco, David Jackson dei Van Der Graaf Generator (sax sopranino, soprano, alto, tenore, flauto e tin whistle) e Gianni Leone del Balletto di Bronzo (all’organo Hammond) non sono due star di passaggio che si sono preparati un paio di pezzi, sono ormai da parecchio tempo due membri effettivi della band e sanno interagire con gli altri musicisti in ogni dettaglio. E il pubblico dà prova di apprezzare tutto ciò con un’ovazione tra le più esplosive di questi due giorni.
Chiude la rassegna il Banco del Mutuo Soccorso, con la formazione rinforzata da Papotto, dei Periferia del Mondo, che integra perfettamente le sue parti di fiati con gli arrangiamenti storici della band. Il Banco, però, come è spesso nello stile di questa formazione dal vivo, sceglie di chiudere il festival con una punta di malinconia, che traspare dagli amari monologhi di Di Giacomo e di Nocenzi sul tema Come eravamo, chi siamo, cosa saremo.
Francesco ‘Big’ Di Giacomo denuncia apertamente alcuni problemi vocali, ma ciononostante la sua performance è egregia. Il repertorio, come da tradizione, è soprattutto quello dei primi tre album, con poche incursioni leggermente più recenti, come Il Ragno (dall’Lp “Come in un’ultima cena”), mentre in generale è “Darwin” l’album più saccheggiato.
L’ospite speciale del Banco è John Wetton, bassista-cantante che ha militato in alcune tra le più grandi formazioni degli anni ’70: King Crimson, Family, Uriah Heep, Uk, Roxy Music, Asia e collaborazioni con diversi artisti, da Phil Manzanera, a Martin Orford, a Peter Banks, e non solo. Con Wetton il BMS esegue Leave me alone (edizione inglese della famosa Non mi rompete, dall’album "Io sono nato libero”) e Starless dei King Crimson.

Conclusioni
Non una semplice rassegna di concerti, ma un evento con qualcosa di unico che resterà nel cuore di ogni vero amante del rock progressivo italiano e mondiale. Meravigliosa l’atmosfera che si respirava non soltanto sul palco, ma anche prima e dopo le due serate, grazie anche alla straordinaria disponibilità verso i fan dimostrata dalla maggior parte degli artisti italiani e internazionali coinvolti.
Ottima, infine, l’idea di alleviare i tempi morti del cambio palco con interviste e presentazioni di libri, condotte dal giornalista Donato Zoppo o dalla stessa Iaia De Capitani. Molte e interessanti le opere letterarie citate, tra cui il bel giallo “Com’era nero il vinile" di Glauco Cartocci, il volume antologico a molteplici firme “Prog 40”, dedicato ai quarant’anni di storia di questo genere musicale in ogni sua accezione e sfumatura, e un’autobiografia di Bill Brudford.


Alberto Sgarlato
Fotografie di Alberto Sgarlato


Tagliapietra, Pagliuca, Marton + David Cross - Exiles (King Crimson) - Prog Exhibition
[06.11.10] BMS @ Prog Exhibition 2010, Roma - Canto nomade per un prigioniero politico
Banco del Mutuo Soccorso feat. John Wetton - Starless
[06.11.10] Thijs van Leer @ Prog Exhibition 2010, Roma - House of the king
THE TRIP - caronte I - 5-11-10 Rome prog exhibition
Pfm + Ian Anderson - La Carrozza di Hans - Prog Exhibition
Pfm + Ian Anderson - My God - Prog Exhibition
Pfm + Ian Anderson - Bouree - Prog Exhibition
Theme One Osanna-David Jackson Prog Exhibition Roma 6-11-2010
Osanna Prog Exhibition Roma 6-11-2010

THE MAHARAJAS: "SUCKED INTO THE 70'S" (Crusher Records, 2010)

E' dal 2007 che non avevamo notizia degli svedesi Maharajas, tenaci garagisti che annoverano nelle loro fila musicisti importanti per il rock svedese come Jens Lindberg (Crimson Shadows, Stomachmouths, Wylde Mammoths, High Speed Five, Maggots) e l'ex Strollers Mathias Lilja.
Di quell'anno é l'ennesimo loro lavoro per la connazionale label Low Impact, quell' "In Pure Spite" che aveva ottimi precedenti (sempre per la L.I.) in "A Third Opinion" (2005) e "Unrelated Statements" (2003).
Ancora prima c'erano state incisioni anche per l'italianissima e valorosa Teen Sound Records i vinili "H Minor" (2002), "Something Moody ...& Groovy" (1998) ed un 7" per la Loser Records, "Wait & Wonder" (2001).
Poi alcuni brani inseriti negli ultimi anni in compilations varie.
Dodici anni di grande garage impreziosito dall'amore di Lindberg e c. per le ariose melodie vocali e le atmosfere crepuscolari di stampo sixties; un sound però induritosi attraverso gli anni sino a raggiungere un magico equilibrio tra le componenti differenti.
Per la Crusher Records di Peter Carlsson, invece, di stanza a Goteborg, esce questo nuovo vinile e.p. "Sucked into the Seventies" con quattro brani: segue l'altro di ugual formato del 2006 (sempre Crusher) "Weekend Sparks".
Weekend Sparks" conteneva episodi vigorosi come Sometimes I Miss Me e Weekend Sparks e una toccante ballata piena di stupende melodie, Take a Look at Yourself.
Negli ultimi tre anni Mathias ed i suoi compagni, a giudicare dall'attacco sintomatico e dal tenore dell'iniziale Down at the Pub devono però aver ascoltato parecchio di quel pub-rock etilico che furoreggiò in Inghilterra nei fumosi clubs sparsi tra Canvey Island e Londra, a cavallo delle due metà seventies, innestandosi inevitabilmente nel punk che bussava rumorosamente alle porte: dicevo, il serrato riff iniziale della chitarra in Down at the Pub é praticamente quello della mitica Baby Jane di Dr. Feelgood, ovvero Lee Brillaux, Wilko Johnson e c.
Che i Maharajas succhino vigorosamente in questi solchi nuova linfa vitale dai '70 britannici é confermato poi dalle ritmiche gioiosamente 'speed' nei quattro brani della chitarra di Lindberg-Ulf Guttormsson (bass ed autore dei brani) Ricard Harryson (drums), dagli agili solo di harmonica di Mathias in Down at the Pub e di chitarra in Bing.
Se avete amato (ed amate ancora) nel '75-'76 gli istant-hits anfetaminici di Dr. Feelgood, Eddie & the Hot Rods (Maharajas ne coverizzano efficacemente dal vivo la mitica Teenage Depression), Count Bishops non potranno non piacervi Someone Looking Like You, Bing (and now you're hypnotised), Stickers and Pins con fiati (trumpet e tenor sax) pimpanti e refrain melodici contagiosi, veicolati dalle voci di Lilja e Lindberg, queste sì portatrici ancora di nostalgia sixties.
Che si tratti di innamoramento momentaneo o inevitabile virata stilistica non ci é dato sapere: quindi, visto che non siamo biechi puristi ci godiamo questo four-track EP dal primo solco all'ultimo.

Wally Boffoli



I'm Crackin' Up
The Maharadjas - Another turn + Misty night Live
Teenage Depression Live
Psylociben Live
Another Turn

Crusher Records


MaharajasMySpace

mercoledì 10 novembre 2010

LIVE REPORT: The Barbacans + The Jumpin' Quails - Torino, United Club, 31 ottobre 2010

The Jumpin' Quails

Lo United Club, uno dei locali particolarmente attivi a Torino in questo periodo, ha ospitato domenica 31 ottobre 2010 il concerto dei Barbacans, italianissimi da Fano, accompagnati dai torinesi Jumpin' Quails. L'accoppiata è vincente e il pubblico ha potuto assistere in quella serata a un grande live con due gruppi davvero notevoli.
I Jumpin' Quails sono stati una piacevole sorpresa. Sono decisamente bravi, trascinanti, sicuri, tengono il palco come dei provetti rockmen nonostante la giovane età, ma soprattutto il loro sound è particolarmente originale. Hanno comunque pubblicato un album, “What's Your Jump Like, e vantano diverse esibizioni in giro per l'Europa. Difficile classificare il loro genere; durante il concerto ho la netta sensazione che mi ricordino qualche gruppo, ma non riesco ad inquadrare esattamente quale. Pur essendo tutto sommato radicati nel sixties sound psichedelico con qualche sfumatura garage qua e là e vaghi rimandi crampsiani, lo stile è decisamente molto sfaccettato, riporta alla mente a volte perfino i nostrani Decibel di Enrico Ruggeri, e poi, sarà quella ritmica in alcuni pezzi, insieme alla bella voce del cantante e bassista (che si presenta sul palco con occhialoni da sub e bocca truccata alla Jocker) ma, sebbene senza la vena dark estrema, a tratti sembrano venir fuori i Joy Division, magari filtrati attraverso la lente più pop e meno cupa dei primi Placebo o anche degli Editors meno elettronici.
Tante suggestioni in bilico tra sixties sound e post-punk ma nessun riferimento ben definito, per cui forse a ben guardare è proprio vero quello che scrivono sul loro MySpace: “i Jumpin' Quails ricordano molti e non assomigliano a nessuno". Insomma un cocktail talmente ben amalgamato da rendere difficile individuarne e separarne gli ingredienti.

The Barbacans

I Barbacans, invece, fin dalle prime note non lasciano dubbi: potente e selvaggio garage sound allo stato puro! Attacco al fulmicotone, riff di chitarra graffianti, fuzz e farfisa elevati all'ennesima potenza, con ritmi punk serratissimi che non mollano fino alla fine del concerto.
E' incredibile l'energia che emanano da quel palco.
Suonano tutti i pezzi che hanno all'attivo, dall'album, bello e altrettanto tirato, “God Save the Fuzz”, uscito per la Boss Hoss Records nel 2009, primo lavoro ufficiale dopo un 7” in vinile che contiene Phantom Opera, uno dei pezzi più gustosi, e What's Fantastic, entrambi ripresi nell'album, il primo incluso nella track-list e il secondo in forma di traccia video. Nel 2010 hanno partecipato inoltre a un vinile 7” dal titolo “The Wildest Things in the World con altri tre gruppi garage di grande calibro, gli inglesi Thee Vicars, gli argentini Los Peyotes e i messicani Los Explosivos, un lavoro prodotto dalla Bosshoss Records e distribuito da Area Pirata. Entrambi i lavori recensiti da Music Box.
Nel concerto torinese lasciano poi spazio ad alcune cover eseguite sempre con grande grinta e personalità. Anche la scelta delle cover è davvero molto rappresentativa del genere, vere e proprie pietre miliari per gli appassionati del garage sound di stamposixties: Strychinine (più vicina però alla versione Fuzztones che a quella originale - e se c'è un gruppo a cui i Barbacans si possono affiancare è proprio quello di Rudi Protrudi) e The Witch dei Sonics, 99th Floor dei grandissimi Moving Sidewalks capitanati dal futuro ZZ Top Bill Gibbons e una versione decisamente spinta verso sonorità più garage di quanto non sia l'originale psichedelica di Lucifer Sam dei Pink Floyd di Syd Barrett.
Un concerto davvero grandioso, che spiega come a ragione i Barbacans siano stati chiamati a suonare con alcuni dei nomi più importanti della scena garage internazionale, come i Morlocks, i Trashmen, i Seeds, e alla fine del quale vien proprio voglia di dire “God save the fuzz”.



Rossana Morriello


Recensione God Save the Fuzz di Wally Boffoli
Recensione The Wildest Things in the World di Wally Boffoli



Jumpin' Quails
Than Today
Pattie
Contis (live)



Barbacans
Phantom Opera
I Know You
Time for the Choice
Strychnine (live)

The Witch (live)
Lucifer Sam (live)

WORDS OF ROCK - IGGY POP : “The Idiot” (1977, RCA/Virgin)

"The Idiot" è il primo album di Iggy Pop (James Newell Osterberg Jr.) da solista. Aveva fatto parte degli Iguanas come batterista tra il 1963 ed 1965, dei Prime Movers e degli Psychedelic Stooges (poi The Stooges) sino allo scioglimento nel 1974.
Intraprende l’attività solista e The Idiot è l’album di debutto, uscito nel marzo 1977 per l’etichetta RCA, prodotto da David Bowie (mentore della rinascita artistica e del ritorno sulle scene di Iggy dopo lo sbando totale seguito allo scioglimento degli Stooges) e Tony Visconti. L’album é già portatore di atmosfere post-punk, miscelando reminescenze garage- psych con un monumentalismo sincopato preludio alla scena industrial/wave.
Registrato nel 1976 agli Hansa Studios, ha come protagonista un Iggy affrancatosi quasi completamente dalla schiavitù delle droghe, dagli inediti moduli vocali, quadrati ed espressivi, ben lontani dalla furia iconoclasta di "Raw Power"e "Fun House". La mutazione era iniziata in "Kill City" ma é in questo album che matura decisamente. Le coordinate musicali robotiche e fredde del disco sono parto di David Bowie, in pieno trip mitteleuropeo-elettronico. Il disco coglie del tutto di sorpresa i fans americani di Iggy, che si aspettavano il seguito di Raw Power: in Europa invece ha successo!
"The Idiot" si compone di 8 tracce:

1. Sister Midnight
2. Nightclubbing
3. Funtime
4. Baby
5. China Girl
6. Dum Dum Boys
7. Tiny Girls
8. Mass Production


La parola è Transizione, l’album si apre con Sister Midnight , un’invocazione, un viaggio che sta iniziando:
“Listen to me Sister Midnight
You put a beggar in my heart
Calling Sister Midnight
You've got me walking in rags
Hey where are you Sister Midnight
Can you hear me call”

(Ascoltami sorella Notte
Hai messo un mendicante nel mio cuore
Chiamandoti Sorella Notte
Tu mi hai camminando in stracci
Dove sei Sorella Notte
Puoi sentirmi chiamare?)



Un viaggio, un’invocazione, un linguaggio che ricorda vagamente le atmosfere delle Mille e Una Notte: spazi e tempi infiniti e la necessità che aiuta a domare l’ansia, lo sconforto e ad apprezzare il buono che si può scorgere nell’oscurità.
Nel cammino gli scenari cominciano a cambiare. I 70’s con le dinamiche di piazza, le condivisioni, sono al crepuscolo, il business inizia a viziare ed esasperare la cultura ed anche l’underground risulta minacciato: il linguaggio del prodotto di mercato.

L’album prosegue con Nightclubbing infatti
“We're walking through town
Nightclubbing we're nightclubbing
We walk like a ghost
We learn dances brand new dances”

(Camminiamo attraverso la città
In Nightclub
Camminiamo come fantasmi
Impariamo nuove danze, scegliamo nuove danze)


In un viaggio che pare infinito le varie tappe danno una nuova dimensione alle illusioni degli entusiasmi, le soste devono essere commisurate alla necessità, Funtime
non è disincanto, ma consapevolezza, non è il martirio di Prometeo, ma la spregiudicatezza e la furbizia di Ulisse:
"I don't need no heavy trips
Fun
I just do what I want to do
All aboard for funtime"

(Non ho bisogno di viaggi pesanti
Divertente
Io faccio solo ciò che voglio
Tutti a bordo per divertirsi!)



Il Fun subliminale e sarcastico che ricorre ad ogni strofa ed il sarcasmo dopo la sentenza: si sta lasciando un villaggio nel quale si è indugiati un po’ troppo.

Uno sguardo a un’immagine, nostalgia di innocenza, e raccomandazioni sì da proteggere il bambino, in Baby:
“Baby there's nothing to see
I've already been
Down the street of chance”

(Piccola non c’è nulla da vedere
Sono già stato sulla strada delle possibilità)



… e una preghiera, una raccomandazione, (rimani come sei, non piangere, abbiamo già pianto ...)

Il passo scandito dalle riflessioni, tutto attorno muta: pian piano si scorgono le pennellate che disegnano lo scenario circostante: è così che la bramosia per un fuoco interiore porta ad incontrare China Girl :
ed un fruscio colmo di un pathos liberatore:
“I'd stumble into town
Just like a sacred cow
Visions of swastikas in my head
And plans for everyone
It's in the white of my eyes”

(Mi piacerebbe inciampare in città
Proprio come una vacca sacra
Visioni di svastiche nella mia testa
e piani per tutti
E’ nel bianco dei miei occhi) 

I ricordi, durante il cammino, assumono nuove forme, la memoria segue una soluzione di continuità, necessità, gli anfratti oscuri regalano le forme che in essi si celavano, dopo aver amato la notte, eravamo Dum Dum Boys (brano dedicato alle scorribande e sregolatezze con i fratelli Asheton)
“People said we were negative
They said we'd take but
we would never give
But we'd sing da-da-da
Da-da-da dum dum day
Da-da-da-da-da dum
And hope it would pay
Da-da-da-da it's been
A dumdumdum day
A dum dum day”

(La gente diceva che eravamo negativi
Hanno detto che ci avrebbero preso,
non ci saremmo mai dati
ma ci sarebbe piaciuto cantare
da-da-da da-da-da dum dum day
e speriamo che questo paghi
Da -da-da-da è stata
una giornata dum dum dum)


Uno sguardo a corto raggio sull’arazzo su cui è tessuta la trama della storia, Tiny Girls :
“So you turn around
"Toward the tiny girls
Who have got no tricks
Who have got no past
Yea that's what you think
And you hope she'll sing
But she sings of greed
Like a young banshee
And she wants for this
And she wants for that
What did you think”

(Quindi si gira intorno
verso le piccole ragazze
che hanno ottenuto senza trucchi
che non hanno alcun passato
è quello che lei pensa
e tu speri lei canti
ma canta di avidità
come un giovane ossesso
e lei vuole questo
e lei vuole quello
Quello che hai pensato)



E’ notte ma l’oscurità è dissipata, la vista fende la tenebra, il viaggio non ha meta, è continuo, possiamo vedere dalla prospettiva di una quota elevata, Mass Production:
“I'm back on the line
Again and again
And I see my face here
And it's there in the mirror
And it's up in the air
And I'm down on the ground”

(Sono di nuovo sulla linea
ancora e ancora
e vedo la mia faccia qui
Ed è lì nello specchio
Ed è in aria
e sto giù per terra)


La storia di un viaggio che dissolve il suo inizio in una dicotomia che lo disperde e non ha meta, un racconto senza morale, un viaggio nella Terra dei Morti in groppa ad un asino che è il beneficiario della dedica dell’album.

Ian Curtis, leader dei Joy Division, aveva visto il film "Stroszek" ed ascoltato "The Idiot", Mass Production, poco prima di suicidarsi.
Enrico Quatraro