sabato 18 dicembre 2010

CAPTAIN BEEFHEART (1941-2010): La vita come sporca arte!

"Non ho parole per esprimere la tristezza che provo per la scomparsa di questo grande artista. Ebbi la fortuna di conoscerlo diciassette anni fa in California e mi regalo' uno dei suoi tanti cappelli che teneva ammucchiati in casa facendomi gli auguri per il mio lavoro. Fu un caso. Lo incontrai in un pub e cominciammo a parlare davanti ad una birra. Neanche lo riconobbi ne' lui si presento'.
Poi dopo un po' fu pregato di salire sul palco dal gestore che sembrava conoscerlo molto bene e suono' per circa un'oretta alla presenza di una cinquantina di presenti. Si può immaginare il mio stupore; mi imbarazza scriverlo ma io a quei tempi neanche sapevo chi fosse (era il 1993 e avevo 20 anni). Poi mi spiegarono durante il concerto chi era il signore su quel piccolo palco...
Ricordo bene i musicisti che lo accompagnavano: lui al canto e all'armonica, poi c'era un batterista di cui non ricordo molto, un chitarrista di colore sulla cinquantina che suonava da Dio ed un secondo chitarrista o bassista che avrà avuto sui 25 anni e che era seduto con lui al bar già da prima del concerto.
Ricordo che il giorno dopo, entusiasta, mi precipitai nel primo negozio di dischi a comprare il suo disco più famoso. Non rammento cosa suonarono anche perchè era la prima volta che lo ascoltavo, ma rimasi folgorato e stupito dalla musica e dall'atmosfera che riuscirono a creare con quei pochi strumenti" (Pietro Ciraci)


Era lontano dall’ambiente della musica ormai da 28 anni Captain Beefheart, al secolo Donald (Van) Vliet, e si dedicava interamente ai suoi antichi amori, pittura e scultura. A cinque anni già scolpiva statuine di animali col sapone.
Artista fatalmente caduto da tempo nel dimenticatoio almeno per quello che riguardava la sua carriera musicale, su un pianeta abituato ormai a consumare i propri riti rock e pop sempre più in fretta ed a gettarli poi via, abdicando senza troppi problemi a pratiche ormai vetuste ed inutili quali l’approfondimento e l’adorazione della vera arte.
Quell’ arte che non ha potuto non essere nel caso di Beefheart libera, anarchica, dissacratoria, free form, in particolare quella dei dischi incisi dal 1967 al 1972. Anche nel decennio successivo possiamo ravvisare opere assolutamente dignitose come "Doc At The Radar Station (1980, Blue Plate)" e "Ice Cream For Crow (1982, Blue Plate)", attraversate da una vena compositiva ancora corrosiva e fuori dai canoni; ma sono QUELLE cinque opere che abbiamo continuato ad idolatrare nei suoi 28 anni di abiura musicale, che continueranno ad essere per vecchi fans e nuove (si spera!) generazioni i totem assoluti da adorare!
“Safe As Milk (1967, Buddha Rec.)” ancora naïf (se vogliamo) ed alla portata delle masse, in bilico tra pop geniale ed amore per la tradizione blues già sviscerato senza ritegno, corrompendo ritmi boogie e sottomettendola alla sua voce per nulla aggraziata di licantropo in libera uscita tra comuni mortali; approccio vocale rugginoso al vetriolo mutuato dai vecchi maestri del blues del delta ed urbani, Howlin’ Wolf in testa. Anche il suo uso istintivo e primitivo della mouth-harp incorporava richiami ancestrali ed animistici mutuati dalla profondità della cultura nera.
Con “Stricty Personal" (1968, Emi) credo si possano già manipolare a favore di Van Vliet concetti espressivi abusati in campo musicale ma mai come in questo caso appropriati: arte ‘visionaria’, ‘dadaista’, con una Magic Band sottomessa completamente alle direttive di un maestro di cerimonie, che non possono essere codificate in alcun modo; di nuovo il blues del delta (Son House) preso per la collottola e questa volta ‘affogato’ in un brodo rancido di psichedelia aliena dalle coordinate ritmiche ed armoniche dannatamente sghembe e stralunate!
I tre caustici minuti iniziali di Ah Feel Like Ahcid sono solo l’eloquente biglietto da visita di un’opera che come molte altre in quell’anno attraverso la musica voleva capovolgere il mondo: non per rinnovarlo però, ma solo per lasciarlo marcire attraverso le esalazioni velenose di un blues extraterrestre partorito da una galassia cattiva.
Può un disco suonare a più di quarant’anni dal suo concepimento come la creatura di una mente scoordinata e psicotica? Questo è l’effetto che fa ai più ancor oggi “Trout Mask Replica”, doppio vinile di Captain Beefheart & The Magic Band uscito per la Reprise nel fatidico 1969 e prodotto dall'amico Frank Zappa, dannatamente … politicamente scorretto rispetto al trionfo coevo della cultura psichedelica: Beefheart sradica con una furia anarchica senza precedenti tutte le regole codificate su cui era basato il mondo del rock ed inventa di sana pianta quelle che possiamo chiamare delle selvagge non-regole, una quasi totale assenza di rassicuranti punti di riferimento tonali e ritmici a favore di un ‘situazionismo’ creativo che lascia sbalorditi e basiti oggi come nel 1969.
A ben ‘ascoltare’ Van Vliet, che in questi solchi suona anche bass clarinet, sax tenore, sax soprano e la ‘musette’ un particolare strumento a fiato col quale cerca di riprodurre (parole sue) il verso delle cicogne quando si alzano in volo, va ben oltre la dissacrazione del blues del delta e s’impossessa dell’etica libertaria del ‘free jazz’ che in quegli anni ’60 aveva trionfato grazie a menti scoperchiate come Ornette Coleman, Roland Kirk e John Coltrane.
Fa sue nei solchi di Trout Mask Replica istanze come l’improvvisazione ed il libero interagire degli strumenti, scardinando le regole ‘modali’ su cui il rock si era sempre basato.
Inutile negare quanto l’ascolto di quest’opera, rimasta ineguagliata nei decenni successivi, esiga non solo una disponibilità ‘totale’ da parte dell’ascoltatore nel mettere in discussione codici e comportamenti artistici codificati , ma anche una massiccia dose di masochismo auditivo (perché nasconderlo?): solo così si potrà entrare nel territorio ‘franco’ paludoso di grandissimi brani quali Veteran’s Day Poppy (che da una vita non smette di affascinarmi), My Human Gets Me Blues, Moonlight in Vermont, When Big Joan Sets Up, Ella Guru, Dachau Blues, Old Fart At Play (l’elenco è lunghissimo) e goderne il dadaismo/surrealismo corrosivo.
Trout Mask Replica è un grandioso, ‘astratto’, sperimentale affresco sonoro nel quale il Capitano è riuscito a far combaciare le sue due grandi passioni, musica e pittura.
“Lick My Decals Off, Baby” e “Mirror Man”, entrambe uscite nel 1970, sono opere che serializzano i comportamenti dissacratori di Strictly Personal e Trout Mask Replica, imperdibili anch’esse per chi si fosse incautamente lasciato sedurre dalla mente diabolica di Beefheart. Né mi sento assolutamente di biasimare coloro che due anni dopo aggiunsero all’indispensabile catalogo del nostro due dischi nei quali la sua follia era divenuta ‘lucida’ non perdendo che qualche grammo del suo fascino, "Clear Spot" e The "Spotlight Kid". Tra il 1974 ed il 1978 invece escono tre dischi la cui mancanza nella vostra collezione non rappresenta assolutamente un handicap nella conoscenza del Beefheart essenziale.
“Per tutta la vita hanno continuato a dire che ero un genio …” così commentò disincantato ed un po’ amareggiato Van Vliet quando abbracciò la pensione dall’ambiente musicale nel 1982 “ …ma intanto hanno anche insegnato al pubblico che la mia musica è troppo difficile da ascoltare”.
E poi: “Ho definitivamente abbandonato la scena rock, anche se non mi sono mai considerato una rockstar. In molti hanno provato a farmici diventare, ma sono sempre riuscito a fregarli".
Beefheart è sopravvissuto 16 anni alla dipartita del suo grande amico e collaboratore Frank Zappa.

Allegri! Il Capitano non c’è più, ma continuerà a vivere nelle sue immortali opere sulfuree!


Wally Boffoli

Captain Beefheart and his Magic Band:
I'm Glad

Electricity
Veteran's Day Poppy
Dachau Blues
Ella Guru
Ah Feel Like Ahcid
On Tomorrow
Safe As Milk
Grown So Hugly
Ashtray Heart
Ice Cream for Crow

CaptainBeefheart

1 commento:

Anonimo ha detto...

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