sabato 28 maggio 2011

GIL SCOTT-HERON (1949 - 27 maggio 2011) Dalla suburbia ... in paradiso

Sull'onda
dell' emozione intensa per la scomparsa del grande maestro Gil Scott-Heron, piegandola alla voglia di testimoniarne la grandezza artistica, il nostro Michele Passavanti ha scritto per Distorsioni il giorno dopo la sua dipartita un articolo commemorativo, il primo che pubblichiamo. Ne seguirà domani un secondo, scritto da Slim. Grazie davvero Michele! (wally)


Ci sono artisti che con la loro personalità scrivono a lettere di fuoco il proprio nome nella storia della musica. Gil Scott Heron è stato senza alcun dubbio tra questi. Scomparso il 27 maggio 2011 all'età di 62 anni Gil Scott Heron ha rappresentato non solo un' epoca musicale ma un intero movimento.

THE BONNIWELLS: "Unprofitable Servant" (2010, Z-Man)

“Famosi” (ahahahah) più per essere il side-project di Zak Olsen dei Frowning Clouds e per il curioso nome scelto in omaggio a Sean Bonniwell (qualora non sapeste chi fosse, è inutile proseguiate a leggere), i Bonniwells di Melbourne si concedono il lusso di un intero album a loro nome. Zac qui si limita a pestare i tamburi, lasciando a Mark Dean e John Waddell il compito di azzuffarsi al basso e alla chitarra.
Il suono dei Bonniwells si contorce tra zoppicanti marce figlie dei Black Lips (I don't need you know more, Soda Pressing), spore infettate dai germi di Wipers, Mudhoney e Monkeywrench (Cracked Hands, Predictable piece of shit) e deraglianti frustate garage punk alla Outta Place (due delle cover scelte per l’occasione provengono tra l’altro dal medesimo repertorio, NdLYS).

DEATH BY UNGA BUNGA: "Juvenile Jungle" (2010, Spoon Train Audio)

Nome rubato ai Mummies, vestiti rubati agli Strollers. E un disco che è una bella botta garage-punk old-style. Di quello tutto caschetti, beatle boots, Farfisa e urla da caveman. Di quello che basta poco per farlo e che però mica vero che tutti ci riescono. Uscito il giorno del mio quarantesimo compleanno, "Juvenile Jungle" mi riporta invece indietro ai miei sedici anni, quelli bruciati sui dischi di Stomach Mouths, Untold Fables, Wylde Mammoths e Misanthropes.

THEE OH SEES: "Castlemania" (2011, In The Red Records)

E’ del 2004 una compilation dal titolo "The Sound of San Francisco" (Alive Records) che documentava una fervente scena musicale di stampo garage-noise, nella città dello stato più popolato d’America. Tra i vari gruppi in essa contenuti figuravano i Coachwhips di John Dwyer che, l'anno seguente, si sarebbe ripresentato con un nuovo progetto dal nome di Thee Oh Sees, in un’altra raccolta, altrettanto interessante: "In A Cloud: New Sounds from San Francisco" (Seven Records). Questa volta i toni molto più pacati orientano questo volume verso un jangle-pop acido e sbilenco. Su questa stessa raccolta comparivano già i contributi di nomi come Ty Segall, Sonny & the Sunsets, Tim Cohen o i Sandwitches, tra gli altri.

LIVE REPORT: Thee Oh Sees - Spazio 211, Torino,19 maggio 2011

Thee Oh Sees sono una produttiva band di San Francisco: nel giro di 6 anni questi quattro energici ragazzi hanno pubblicato la bellezza di 9 album. L’ultimo, "Castlemania" è uscito il 17 maggio 2011 per la In The Red Records e contiene la bellezza di 16 brani. Sembra essere diverso dai precedenti: ha un suono più pulito, più definito senza che la vera essenza degli Thee Oh Sees vada persa. Ma veniamo alla cronaca live: chitarre ascellari (2 per non sbagliare, guardate le foto di Claudio Decastelli e capirete!) e si parte! Dal vivo sono una incredibile botta di adrenalina allo stato puro, dal primo attacco all’ultimo: un susseguirsi di riff vitali, energici, grezzi, sonorità garage punk forti e stravolte che riattivano la circolazione.

PHANTOM BUFFALO CEMENT: "Cement postcard with owl colours" (2011, Microcoltures\Socadisc records)

Quando la migliore anima indie incontra l'atmosfera giusta può anche succedere che ci sia un piccolo capolavoro pieno di magia e talento dietro l'angolo. I Phantom Buffalo Cement ne sono l'esempio, c'è un po' di tutto dentro questo magnifico calderone di maestosa psichedelia indie rock; ci sono umori, sapori e cantilene tipicamente Beatlesiane, c'è la dolce malinconia che sale piano piano fino a decollare, come in Bad Disease, dove la voce che si nasconde dietro ad un sipario di pennate piene di echos, si presenta al pubblico con un vestito elegante e delicato, quasi a sussurrare melodie che diventano foglie trasportate via dal vento in un luogo lontano.

CAPAREZZA: “Il sogno eretico” (2011, Universal)

All'inizio credevo avessi sbagliato disco, il "Nessun Dorma" iniziale era più Zucchero che Capa, ma subito dopo si entra in un vorticoso turbine che ti inebria, ma ti da' anche un po' alla testa. Il Pieno segue il pieno (a parte gli intermezzi comici tra un brano e l'altro), con un effetto dirompente ma anche saziante. A metà disco si è già ampiamente soddisfatti di questa sequenza di stili musicali (anche se più che altro apparente, è solo il vestito a essere elegantemente diverso) e di testi interessanti, intelligenti e ben costruiti. Dopo la metà la sazietà si trasforma in una leggera nausea da eccesso, con le musiche che si cominciano a ripetere, le rime che oramai (a prescindere dai testi, sempre ottimi anche se spesso poco intelleggibili) cominciano a suonare tutte uguali.

venerdì 27 maggio 2011

THE FEELIES: “Here Before” (2011, Bar/None Records)

Trentuno anni sono passati. Trentuno e sembra ieri. Era il 1980 quando usciva “Crazy Rhythms”, dopo diciannove anni di silenzio, un gioiellino di nove pezzi (a cui poi furono aggiunte delle bonus trak con delle cover, tra il 1990 ed il 2009) e quello che dava il nome all’album è un brano veramente indimenticabile. E diciannove anni sono passati da “Time For A Witness” (1991). Ma non siamo qui a dare i numeri, bensì a scrivere su “Here Before”, il nuovo lavoro dei Feelies. Nobody Knows, ottimo per aprire l’opera, è un pezzo tipicamente Feelies, tipicamente Bill Million e Glenn Mercer, i fondatori, con le loro chitarre inconfondibili.

ABOUT WAYNE : “Rushism” (2011, Nerdsound Records/Edel)

Nascono nel 2008 a Roma. Dopo pochi mesi registrano il loro primo EP e nel 2010: selezionati fra le quindici band finaliste, dividono con onore il palco dell’Heineken Jamming Festival con Ben Harper, Gossip, Skunk Anansie, Gomez ed i di certo amati Pearl Jam. Sono gli About Wayne, ovvero Giampaolo Speziale alla voce, Jacopo Antonini e Daniele Giuili alle chitarre, Giovanni De Sanctis al basso e Francesco Maras alla batteria. La giovane band romana in questo 2011 pubblica un disco d’esordio davvero maturo e convincente, in grado di oscurare produzioni d’oltreoceano ben più ricche o blasonate.

giovedì 26 maggio 2011

THE ANTLERS: “Burst Apart” (2011, French Kiss Records/ Transgressive Records)

“Burst Apart” è uno di quei dischi da sentire in primavera, con i campi in fiore, nel momento in cui sei pronto a cadere nel vortice degli odori e colori che la natura ti regala. “Burst Apart” e’ il quarto disco per gli Antlers, un terzetto di Brooklyn creato dalla mente geniale di Peter Silberman che ha riscontrato un successo mondiale con il precedente album “Hospice”, realizzato nel 2009. Il disco, arrivato al vertice di tutte le classifiche indie-rock con un’enorme riscontro della stampa specializzata era un progetto che narrava una relazione sentimentale abusiva, facendo il paragone di un infermiere e un paziente terminale di cancro. Quindi, un compito non facile per questi palchi di cervo americani dare un seguito alla notorietà acquisita con “Hospice". Mentre sei lì, sdraiato sul campo di fiori, a goderti i primi colori primaverili, i testi di “Burst Apart” anche se leggermente meno pessimisti di “Hospice”, ti portano ugualmente su sentieri tortuosi dell’inconscio: l’aria è ancora fredda e ti punge un po’, l’estate non é ancora arrivata. Ma rimani ancora lì sdraiato a crogiolarti nei tuoi pensieri malinconici e mentre segui i testi di Peter Silberman, continui a sognare ad occhi aperti. “Se rimango fermo qui da solo, se sono bloccato qui tutto l’anno, con nulla e nessuno a casa, non scomparirò per alcuna vedova. Se la ruota salta fuori dalla strada, nessuna vedova lo verrà a sapere su nessun amore perfetto, sotto alcuna punizione” (No Widows). Ancora Peter Silberman declama nello struggente lento di Putting the dog to Sleep (letteralmente: 'far morire il cane') “Dammi la prova che non morirò da solo. Metti le mani attorno al mio collare e apri la porta; tu dicesti - non posso darti la prova che non morirai da solo. Ma fidati, ti porterò a casa, per pulire il sangue dalle tue zampe". Forse qualcuno dei loro fan troverà i testi meno penetranti di “Hospice” ma vi e’ sicuramente una ricerca musicale più accurata e una crescita nell’utilizzo della voce. Qui Peter Silberman utilizza maggiormente il falsetto, fino quasi a ricordare Hayden Thorpe dei Wild Beasts e Antony Hegarty. La musica, lasciato l’indie-rock, contiene delle velleità più shoegaze o dream-pop che riecheggiano i Galaxie 500. “Burst Apart” è sicuramente un disco elegante che ha gli apici in pezzi come Parentheses con una chitarra affilata e d’effetto, French Exit, fresca come una leggera pioggia primaverile e la psichedelica Rolled Together. Anche “Burst Apart”, come “Hospice”, esce per French Kiss Records, l’etichetta di Syd Butler, bassista dei Les Savy Fav. Un album consigliato a patto che facciate attenzione a non compiacervi troppo nei vostri pensieri tristi, l’estate è alle porte.
Myriam Bardino
Parentheses
French Kiss Records
Transgressive Records

ATOME PRIMITIF: "Three Years, Three Days" (2011, Urban 49)

Confesso che prima di ascoltare questo lavoro, degli “atomi primitivi” non conoscevo nemmeno l'esistenza, e che mi sono fatto attrarre all'ascolto dal nome, che mi ricordava un vecchio romanzo di fantascienza letto nella mia lontana adolescenza. Come mi succede spesso, ho cominciato con qualche assaggio dei vari pezzi e la cosa mi ha convinto di aver fatto una buona scelta, seppur scarsamente motivata. Ebbene, i quattro ragazzi romani, precisamente Azzurra Giorgi alla voce, Clelia Patrono alle chitarre e alla programmazione elettronica, Giacomo Ferrera al basso e Claudio Cicchetti alla batteria, sono sulla piazza dal 2007 e, dopo la dovuta gavetta fatta di concorsi e comparsate varie, ma anche di prestigiosi “opening act”, arrivano al primo album, il cui titolo allude al fatto che, nei soli tre giorni di registrazioni, sono condensati tre anni di attività. Il suono del gruppo si muove in territori elettroacustici, la voce eterea di Azzurra Giorgi (peccato per la pronuncia inglese un po' “de noantri”, ma ci sta) viene sostenuta dalla strumentazione tradizionale, ma anche da un tappeto di suoni computerizzati. Il tutto forma un unicum che dà origine ad atmosfere notturne, occasionalmente rischiarate da rasoiate di luce rock, come accade ad esempio in Indù, il secondo pezzo dell'album, nel quale anche la voce, solitamente “educata”, prende tonalità più aggressive, oppure nel lungo, oscuro e pesante pezzo conclusivo, Amor & Psiche, una cavalcata elettrica con tanto di assolo di chitarrona wah-wah e nella marziale Machine, in cui l'elettronica la fa da padrona, filtrando anche la voce della dolce Azzurra. Dal disco è stato estratto un primo singolo, Tuna Drama, pezzo piuttosto articolato, che parte lento e sognante, per avviarsi verso un finale infuocato, mentre si compie il gramo destino del povero tonno che, colto in flagrante nel suo natio oceano, finisce ingloriosamente (per lui) in un piatto di spaghetti. Il brano, tra l'altro, è accompagnato da un video piuttosto curato. Personalmente trovo che ai nostri Atomi si addicano di più le atmosfere dilatate e oscure, in cui emerge il loro stile peculiare e nelle quali le potenzialità sonore del connubio tra chitarra e aggeggi elettronici, egregiamente padroneggiate da Clelia Patrono, vengono maggiormente evidenziate. Infatti, tra le tracce del disco, le mie preferite sono Air, che paga il giusto tributo al dub con il possente contributo fornito da basso e batteria e la confidenziale Concert In My Head. In definitiva, una piacevole sorpresa.
Luca Sanna
Tuna Drama
Urban 49 Records

mercoledì 25 maggio 2011

SALVO LAZZARA & PENSIERO NOMADE: “Materia e memoria” (2010, Fonosfere, Dodicilune)

Salvo Lazzara raggiunge la popolarità tra l’ancora numerosissimo pubblico italiano e internazionale del progressive rock a partire dai primi anni ’90, come chitarrista dei Germinale; la band, come è costume nel prog-rock, un genere che da sempre contamina linguaggi differenti tra di loro (musica, teatro, letteratura, filosofia, arti figurative), prende il nome da un’opera del francese Èmile Zola ma, a parte questa scelta stilistica affine a quella di molte altre band del genere, ben presto esce dai clichèe che troppo spesso fanno del prog-rock un genere più nostalgico che innovativo per battere percorsi stilistici fuori dagli schemi, che porteranno i Germinale anche a stringere illustri collaborazioni (una su tutte, quella con Petra Magoni). Ora i Germinale sono “in sonno” (ma ufficialmente non sciolti) e il loro chitarrista Lazzara, in questa sua seconda opera a suo nome (dopo “Di Questi e altri naufragi”, del 2007), allarga ulteriormente gli orizzonti già percorsi con la band di provenienza e ne esplora di nuovi, circondandosi di ottimi musicisti e di strumentazione variegata che attinge dal jazz, dalla world music, dall’elettronica. La formazione comprende Davide Guidoni (batteria e percussioni), Alessandro Toniolo (flauto e effetti), Luca Pietropaoli (tromba, flicorno, effetti) e Fabio Anile (tastiere e percussioni). E proprio in termini di strumentazione, salta all’orecchio dell’ascoltatore il fatto che una band guidata da un chitarrista (polistrumentista, per la verità: Lazzara suona anche il basso e l’oud) non abbia nella chitarra il perno di tutto: spesso l’elemento dominante è dato dalla tromba, richiamando così echi di artisti come Jon Hassell o Paolo Fresu. Ma la vera alchimia su cui si regge tutto il disco è data principalmente dalle sonorità eteree e rarefatte, ma al tempo stesso calde e avvolgenti, dell’abbondante strumentazione elettronica impiegata, che ben si amalgama con i timbri degli strumenti etnici, in un mix tra ambient, jazz e world music che evoca i nomi di personaggi illustri come Bill Laswell, Chuck Greenberg, Ralph Towner, fino ad arrivare, nei momenti in cui tutto si fa più impalpabile, a far trasparire tra le note lo spettro di Robert Fripp e quello di Brian Eno, sia presi ognuno per sé, sia nelle loro collaborazioni. Il tutto, però, tenendo ben presente in primo piano una forte identità “mediterranea”, quella di Salvo Lazzara, appunto, che confeziona un’opera comunque personale, originale e – particolare non trascurabile – dalla produzione sonora ineccepibile. Una resa audio molto curata che ben si abbina con il colorato packaging, di ottimo livello nella stampa e nel ricco corredo fotografico.
Alberto Sgarlato
Sample di "Materia e memoria” su  Dodicilune 

IL REGISTRATORE: “Tape counter reset” (2011, VideoRadio)

La prima cosa che colpisce nell'ascolto di questo disco è la vastissima gamma espressiva che il duo bresciano, che è al secondo full length dopo l'album omonimo di esordio del 2008, riesce a coprire senza perdere una sorta di intrinseca coerenza stilistica. Grazie a una produzione accuratissima e a una compiaciuta maestria nella scelta dei suoni, i fratelli Martinazzi riescono a “tritare” in un unico lavoro le influenze più disparate e a restituire un prodotto dal sapore sempre nuovo che, pur mantenendo uno stile abbastanza definito e una personalità riconoscibile, cambia quasi a ogni traccia. Tape Counter Reset” è soprattutto un disco di atmosfere, che vede una predominanza nettissima della parte strumentale e un uso del cantato finalizzato all'accentuazione di stati emozionali e suggestioni estetiche, con testi scarni e brevi e una timbrica estremamente versatile che può essere carezzevole o abrasiva a seconda della necessità. Si va da immersioni nel trip-rock, condite di chitarre taglienti ed elettronica liquida, a generose dosi di dark-pop, con linee melodiche accattivanti che si sfilacciano e si intrecciano intorno a un tema o prorompono da un tappeto musicale al limite dell'ambient. Si strizza l'occhio a quelle atmosfere scure che imperversavano oltremanica fra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90 e si passa con naturalezza dalle malinconie latineggianti di Shades (1 e 2) al groove deciso e ballabile del singolo Promenade. Il gusto pop, caratterizzato da una solida efficacia compositiva, viene rivestito di volta in volta di abiti diversi e il risultato è che si resta rapiti dalla prima all'ultima traccia, senza che l'attenzione conosca mai un attimo di calo. Questo disco è una galleria fortemente immaginifica di stati d'animo diversi, spesso difficili da afferrare, appena suggeriti e subito abbandonati per dirigersi verso l'estremo opposto. Si viaggia dal funky più acido a pennellate blues appena accennate, da ammiccamenti wave a tirate desertiche, il tutto sempre con un occhio alla cura della composizione, che non viene mai interamente sacrificata allo stile e all'arrangiamento. A volte si ha quasi la sensazione che la padronanza dei mezzi tecnici sfoci nel divertissement, nel puro esercizio di stile, con un certo compiacimento nel padroneggiare più generi, ma è un peccato veniale: se anche così fosse, questi alchimisti del suono se lo possono ampiamente permettere.
Angela Fiore

martedì 24 maggio 2011

THE KILLS: “Blood Pressures” (2011, Domino Records)

Bluesy punk duo’, così sono stati tra l’altro etichettati The Kills negli ultimi nove anni – dal loro debutto del 2002, l’Ep “Black Rooster” - un pò dappertutto, anche da Heather Phares nel più che attendibile sito online AllMusic. VV aka Alison Mosshart (vocalist/guitarist) ed Hotel aka Jamie Hince (drummer/guitarist/vocalist), duo nato nel 2000 da un improbabile scambio postale di nastri tra la Florida – base operativa di Alison – e Londra – quella di Jamie - avevano comunque ampiamente giustificato quella definizione di comodo parecchio approssimativa con un debutto sulla lunga distanza tutto anglosassone, “Keep Your Mean Side” (2003, Rough Trade) denso di richiami sulfurei all’atavico blues del Mississippi e di vaneggianti corde ‘slide’. Già nel suddetto EP avevano omaggiato un maestro nello sconvolgere antiche radici come Captain Beefheart coverizzando la sua Dropout Boogie. Il loro merito maggiore comunque risultava aver esaltato subito – anche se preceduti dai due White Stripes che avevano iniziato a sperimentare in sottrazione già dal 1997 - degli efficaci moduli di minimalismo espressivo a due in bassa fedeltà: che negli anni successivi siano diventati una formula archetipa, sfruttatissima in ambito internazionale con risultati alterni non è un mistero per chi sta dietro alle cose del punk-blues. The Kills non hanno dormito invece sugli allori, approntando nei due lavori successivi, “No Wow” (2005, Domino) e “Midnight Boom” (2008, Domino) tutte le possibili variabili che quell’ottica minimalista offriva, come l’accentuazione seriale della componente percussiva, un uso trasversale delle voci di Alison e Jamie su scarne (a volte scarnissime) basi armoniche e melodiche, la visitazione inquietante di locations emotive brulle e desolate, con risultati a volte eclatanti.
Il nuovo lavoro “Blood Pressures” pare voler recuperare ed aggiungere ciò che VV e Hotel avevano sottratto in otto anni e non convince, rinnegando la vocazione minimalista che li aveva così bene caratterizzati: si cerca il riff elettrico ad effetto (e lo è solo per i primi due ascolti) che introduca con impatto le song, e poi le si costringe in formule e sviluppi melodici standard molto più accessibili dei passati lavori, probabilmente parecchio più atti ad una fruizione ‘pop’olare. E' questa, in “Blood Pressures” , la finalità ultima del duo, divenuto a quanto pare dalle cronache definitivamente 'hype'? Se Future Starts Slow e Satellite, l’EP e il singolo tratti da “Blood Pressures”  riescono ad affascinare e risultare freschi ed intriganti anche dopo ripetuti ascolti, il resto del nuovo disco fallisce più o meno clamorosamente nel tentativo reiterato di rimpolpare la materia musicale, cadendo prima di tutto nella trappola di stralci di liriche e linee melodiche ripetute ossessivamente con magri risultati. Ad addurre validi argomenti ispirativi alla fine resta Last Goodbye, l’unica song di “Blood Pressures”  a riproporre, complici questa volta pianoforte, archi sintetici e ‘tiro’ romantico, lo splendido isolazionismo dei migliori episodi dei precedenti album.
Wally Boffoli
Domino Records

THE CARS : “Move like this” (2011, Hear Music)

Qualcuno si ricorda di Ric Ocasek? Forse qualche cinquantenne della mia stessa generazione. A dirla tutta anch’io l’avevo perso di vista da più di due decenni, da quel “Door to door” inciso con la sua creatura di sempre, The Cars, con i quali aveva realizzato sei albums di buona se non ottima fattura, in meno di un decennio, tra il 1978 ed il 1987. Ocasek, instancabile songwriter, aveva inventato con i Cars un marchio di fabbrica inconfondibile: etichettati all’epoca un po’ dozzinalmente new-wave, serbavano gelosamente nelle loro songs di tre-quattro minuti vestigia di brividi post-industriali e fredde movenze robotiche mutuate dall’ avanguardia punk americana di quegli anni, Suicide e Pere Ubu in testa. Ric Ocasek, che è anche un intelligente produttore e sa gestire alla perfezione in studio gli umori sperimentali-nichilisti di quegli anni, riesce a materializzare con ineguagliabile impronta melodica gli incubi futuristici di un Alan Vega nel suo “Saturn Strip” del 1983, tra un “Shake it up” (1981) ed un “Hearbeat City” (1984) dei Cars. Ma aveva anche prodotto nel 1980 il “Second Album” dei Suicide (di cui era un grande fan) e negli anni gente come Romeo Void, Bad Brains ed Iggy Pop. Il suddetto marchio di fabbrica consisteva per un buon 50 % in una dose massiccia di fascinazione armonico-melodica che Ocasek iniettava nelle songs dei Cars, con il viatico delle tastiere di Greg Hawkes e dell’efficacissima solista di Elliott Easton, oltre che della sua chitarra. Completavano la compagnia il bassista Benjamin Orr ed il batterista Dave Robinson, uno dei fondatori degli originali Modern Lovers. Così importanti melodie ed armonie vocali nei Cars da far varcare loro in più occasioni la soglia del power-pop, troppo sofisticati e gelidi però per essere annoverati a buon diritto tra le sue fila; ben visibili al contrario nei loro squisiti confetti pop radici nel decadentismo espressivo di Roxy Music, Velvet Underground e nel gelido universo berlinese Bowie-Pop. A distanza di 24 anni dall’ultimo lavoro in studio The Cars tornano a sorpresa con un Ocasek sessantunenne sempre leader incontrastato ed una line-up ancora miracolosamente originale, tranne il bassista, che in questo Move like this” è il produttore Jacknife Lee. Stesso miracolo avviene nei 10 brani del disco, la cui resa sonoro-ispirativa si ricollega senza difficoltà ai fasti di album come “The Cars”, “Candy-O “ e “Panorama”: la formula funziona ancora, le tastiere/synth di Greg Hawkes appaiono in grande spolvero resuscitando in più di un episodio un predominio glam sintetico di keyboards (Brian Eno docet) che negli eighties aveva ucciso fior di chitarre. Intatti anche i brividi inquietanti che sa regalare l’asciutta vocalità di Ocasek. Lente ballate nostalgiche e mid tempo meccanico-metronomici, come sempre, con almeno due o tre potenziali hits. A giganteggiare, produzione pressoché perfetta ed impatto emotivo stellare, Keep On Knocking, Drag on forever e Sad song. Peccato proprio in dirittura d’arrivo (tra tre bonus tracks), Rocket USA cover-tributo ai Suicide sfoderi un martellante ed edulcorato techno appeal, ambiguamente sospeso tra kitsch e claustrofobico.
Wally Boffoli

lunedì 23 maggio 2011

VINTAGE VIOLENCE : “Piccoli intrattenimenti musicali” (2011, Popular Music/SELF)

Chiariamolo subito: questo è un grande disco. Undici tracce taglienti e ispirate. Undici video a costo zero che le arricchiscono con maestria. "Piccoli intrattenimenti musicali" entusiasma per maturità e coerenza, ironia e impegno, appeal e devastante impatto sonoro. A quattro anni dall’EP Cinema e a sette dall’autoprodotto Psicodramma”  i cinque di Lecco esplodono con un disco suonato alla grande, potente, diretto, colto e profondo; chitarre ruggenti e intelligenti, la fantasia è al potere. Rock‘n’roll e coscienza sociale, sound da brividi e testi da incorniciare. Con Lorenzo Monti (Zen Circus) al mixer e Maurizio Giannotti (già visto con Afterhours e Prozac+) in fase di masterizzazione, la band che vede Nicolò Caldirola alla voce, Rocco Arienti e Stefano Gilardi alle chitarre, Roberto Galli al basso e Beniamino Cefalù alla batteria, ci offre un disco di livello altissimo dalla prima all’ultima nota. Nessuna tregua: dal tellurico inizio di Chupito e plusvalore alla conclusiva e corrosiva Blues dell’Homo Sapiens. La dichiarazione d’amore militante e caustica de Le bariste dell’Arci affianca la sublime e tragica ironia che dipinge le figure che danno vita alla splendida Raiuno. La sinfonia chitarristica e la lieve grazia letteraria di PPP precedono l’impatto da urlo di Natale lavavetri e la nevrotica danza elettrica di Fuori dal partito. Il processo a Benito Mussolini sancisce l’incontro meraviglioso e impossibile fra Guccini, Pietrangeli e i System of a Down aprendo la strada all’unico brano già edito presente nell’album, quella Les Pop di Leo Ferrè qui prodotta, cantata e suonata da Dario Ciffo (già Afterhours e ora Lombroso) con il titolo fedelmente tradotto di I Pop. Caterina affascina con le sue trame chitarristiche così come Il paraculo e il Blues dell’Homo Sapiens incantano per la tagliente e puntuale lucidità dei testi. Dagli esordi del 2002 alla mitica jam session del Transilvania live di Milano con i System of a Down, presenti fra il pubblico e saliti sul palco per improvvisare insieme un brano, dopo tre album e centinaia di concerti alle spalle, dopo gli osanna di pubblico e critica, i ragazzi che amavano i Ramones e che rubarono il nome del loro gruppo a un disco di John Cale, ora danzano sul fuoco della creatività e dell’esperienza, meritano il massimo e hanno i mezzi e la rabbia per ottenerlo. E “alla fine di tutto quanta commozione”. Immensi.
Maurizio Galasso

LIVE REPORT – "Road To Ruins" 12: The Fleshtones + The Grannies + Junkie Storm - Roma, Traffic, 5 maggio 2011)

Arriviamo molto presto al nuovo Traffic perchè volevo incontrare i nostri eroi prima del concerto e infatti trovo Peter con in mano una copia di Blow Up, molto contento: mi dice che è una rivista geniale. Scherziamo un bel pò, facciamo qualche foto, mentre nella sala parte il primo gruppo, i Junkie Storm, che non ho la fortuna di ascoltare dato che preferivo gigioneggiare con Peter. Finito il set si preparano ad andare sul palco i The Grannies, un buon gruppo garage rock con un ottimo disco su Teen Sound Record, non mi dispiacciono come aperitivo. 
In una mezz’oretta sciorinano il loro album e qualche cover come Don’t Bring Me Down dei Pretty Things. In mezzo al pubblico anche Peter e il bassista Ken Fox applaudono divertiti. Annunciati da un voodoo intro, appaiono come dei fantasmi in fondo alla sala e piano piano, senza che me accorga, arrivano sul palco. Finito l’intermezzo si parte subito alla grande con Hitsburg Usa, Feels So Good To Feel, Whatever It Takes. La voce del nostro Zaremba preferito non è delle migliori, ma al contrario, il chitarrista Keith Strengh è in ottima forma, un vero pazzo scatenato.  
Pretty Pretty Pretty, You Give Me Nothing Go On e Comin Home Baby, quest’ultimi due tratti dal nuovo disco “Brooklyn Sound Solution” lo dimostrano a dovere; si aggiunge il bel bassista nel girotondo psichedelico di Dreg, attaccata alla splendida Theme From The Vindicators. Il concerto fila che è una meraviglia, Zaremba e co., eterni ragazzi, divertono e si divertono, dimostrando che il rock’n’roll non ha età. Durante l’hard shake di  Push Up Man, invitano sul palco alcuni membri dei Grannies per una divertente jam, che piano piano si affievolisce per ripartire in crescendo con il ritmo bossa nova di I Wish You WouldL’amore per due band indimenticabili hanno il loro tributo: Daytripper, cover dei Beatles anch’essa presente nel nuovo lavoro, e  Remember The Ramones, pezzo pieno d’amore per i quattro fratellini del Queens, lato b del nuovo 7 pollici “Bite Of Soul”.Degna di nota una vibrante Hard Lovin Man che sbuca dopo la la danzereccia Rats In My Kitchen
Proprio alla fine, mentre se ne vanno, si avvicina un tizio del pubblico che quasi ruba il microfono al nostro Peter per gridare ‘BASTA CON LE FOTO’. Pazzo? Ubriaco? Forse, fatto sta che da lui il microfono passa a tutti i presenti in sala: ognuno ha voluto dare la sua versione di ‘basta con le foto’. Rock’n’roll is for crazy!!!
Marco Colasanti