giovedì 17 febbraio 2011

VINCENT CRANE & ATOMIC ROOSTER : Tra lo splendore e il buio.

Serpente nero
che vivi in un buco nero
dove non entra il sole.
Serpente nero
che abiti in una casa oscura
dove non entra mai il sole.
(Black Snake – Vincent Crane)





The Crazy World of Arthur Brown

In principio fu la follia.
La follia si chiamava Arthur Brown, un leader, un capostipite, il primo esempio (1968) di teatralità abbinata al rock, un carattere difficile, rissoso, contestatore, anticonformista e rivoluzionario che gli costerà alcuni problemi con la giustizia e gli farà affibbiare la qualifica di pazzo furioso; qualifica di cui egli si approprierà fieramente, al punto di titolare la sua prima band ed il conseguente unico album omonimo The crazy world of Arthur Brown.
E Brown il folle è un ottimo cantante con un appeal vocale che spazia da un vocione simil-Chris Farlowe (alfiere del nascente british blues) alle asperità acutizzanti di un Ian Gillan sulla sedia elettrica.
Quell’unico album del 1968 prodotto da Kit Lambert (The Who) su intercessione di un fan sfegatato come Pete Townshend contiene una dozzina di brani che svariano dal pop rock più orecchiabile, a momenti orchestrali, da feroci rhythmn and blues con sezione fiati, fino a qualche cover (James Brown e Screamin’ jay Hawkins) e a un’interessante mini-mini suite da far invidia a Frank Zappa. C’è però un brano trainante pubblicato anche come singolo che mette tutti d’accordo, (se non altro il pubblico che lo acquista a vagonate), che si chiama Fire e che l’immaginifico Arthur Brown canta (anche in italiano) indossando lunghe tuniche sgargianti, con il volto dipinto e addirittura, cosa che lo rende conosciuto al mondo, con una sorta di elmo trasparente sulla testa all’interno del quale arde un autentico fuoco fiammeggiante. A farsi notare però, non solo in questo hit davvero popolare, ma nell’intero album, oltre alla testa infuocata del leader, sono le cascate iridescenti di un organo Hammond 'lesliezzato' quanto basta per produrre slavine di accordi stridenti e onde sonore sfavillanti. Il suonatore di quell’organo si chiama Vincent Crane; è un ragazzo fragile di nervi, sofferente di repentini cambiamenti d’umore e di frequenti stati depressivi, il più forte dei quali, proprio dopo l’uscita dell’album, lo porta ad abbandonare il gruppo di Arthur Brown proprio nel suo momento migliore.
A questo punto, a sottolineare l’importanza di Crane nell’economia della band, The crazy world... non ha più ragione di esistere, il carismatico leader si dedicherà con alterne fortune, ma mai troppo esaltanti, alla creazione di altre bands (Kingdom Come la più importante) e altre collaborazioni senza mai raggiungere i fasti del suo “pazzo mondo”.

Atomic Rooster

Vincent Crane, dopo una pausa di riflessione e un ricovero psichiatrico, si associa al giovanissimo batterista che suonava con lui e Brown che si chiama Carl Palmer e dopo aver ingaggiato lo sconosciuto bassista, flautista e cantante Nick Graham, forma il primo trio della storia del rock con l’organo protagonista: Atomic Rooster. Il primo, trascurato ma non trascurabile, album esce nel 1970. Il disco, omonimo del gruppo ma col titolo scritto curiosamente con tre O nella parola 'rooster' contiene alcune gemme organistiche di assoluto valore. Crane non ha la tecnica di Keith Emerson o di Rick Wackeman ma ha un gusto sopraffino negli assoli debordanti e un “suono” che si rifà più a certi organisti dell’area jazz come Jimmy Smith; inoltre ha un’anima blues sotterranea che a volte torna alla luce in quella sua musica difficilmente definibile e che mai lo sarà, che non è pop, non è hard e nemmeno progressive come noi lo conosciamo, come dimostrano, la blueseggiante cover Broken Wing (di Grun e Jerome scippata al repetorio di John Mayall) o il delicato strumentale S.L.Y. arricchito dal flauto di Graham. Quest’ultimo non è un grande cantante, anzi è uno dei limiti di questa band e di questo disco che comunque per le trame avvolgenti organistiche è caldamente consigliabile a chiunque ami le tastiere rimanendo anche a distanza di tutti questi anni un gran bel sentire.
A battere il ferro finché è caldo, (anzi, i tasti roventi), il secondo album esce ancora nello stesso anno e fa cambiare drasticamente rotta all’instabile Vincent Crane (i Rooster sono e saranno sempre una sua, altrettanto instabile, creatura). Intanto sono successe alcune cose: le sirene di un successo planetario hanno attirato Carl Palmer verso altri due nomi non ancora troppo conosciuti ma che hanno fatto cose molto belle con i rispettivi gruppi in cui suonavano; Keith Emerson proveniente dagli ottimi Nice e Greg Lake transfuga dai superlativi King Crimson. Il trio produrrà gli sfracelli che sappiamo e a Vincent Crane non resterà che reclutare lo sconosciuto ma bravissimo batterista Paul Hammond, licenziare Nick Graham facendo a meno del basso che suonerà lui stesso con la pedaliera dell’Hammond e ingaggiare per la prima volta una chitarra solista nel nome di John Ducann (poi anche solo Cann) che ha una non trascurabile vena hard e psichedelica proveniente dagli Andromeda (autori di un solo bellissimo album) e che se la cava anche a cantare.
"Death walks behind you" sposa le tematiche dark tanto in voga all’epoca, anche se la musica non lo dà molto a sentire se non nel brano omonimo che apre il disco con i cupi accordi di un pianoforte sepolcrale. 7 streets è un classico pezzo hard dal riff micidiale mentre Gershatzer e Vug sono due sfolgoranti strumentali dove Crane e Cann danno il meglio di loro stessi. E’comunque il brano più commerciale a far conoscere il gruppo a livello internazionale: Tomorrow night è quasi una leggera marcetta a ritmo di samba rivestita da orpelli rock dalla cadenza orecchiabile e indimenticabile che non esce più dalla testa ed entra nei primi posti delle classifiche. Se ne consiglia l’ascolto nella versione del singolo diversa ma soprattutto più “tosta” rispetto a quella sull’album, rintracciabile in un’ottima antologia pubblicata nel 1991 dall’oscura etichetta Objet Enterprise Ltd. (Sleeping For Years)
Parallelamente esce un altro singolo Devil’s answer a firma John Cann che consegue un successo ancora più eclatante e che ritroveremo come bonus track nell’edizione in cd dell’album del 1971 "In hearing of". Quest’ultimo è il disco più maturo e unitario finora pubblicato da Crane, anche se il leader nella sua discontinuità emotiva e artistica, tra un ricovero psichiatrico e l’altro, relega il bravo John Cann al solo ruolo di chitarrista e assume Pete French come cantante solista. French ha un timbro vocale molto simile a quello di Rory Gallagher, lo straordinario chitarrista irlandese a cui, leggende metropolitane non suffragate da nessuna prova, attribuiscono una collaborazione proprio con Vincent Crane agli esordi di carriera. Al di là delle leggende "In hearing of" resta comunque una delle prove più belle di Crane & Co., dall’iniziale e pianistica Break through alla splendida e progressive Decision/Indecision. John Cann firma come al solito i brani più hard e Crane scrive e canta con voce esilissima a là Wyatt, la spendida ballata dagli umori canterburiani Black Snake, che, se si può leggere come una metafora della sua malattia nervosa, (il serpente nero che vive in un buco nero, in una casa oscura dove non entra mai il sole) questa viene nello stesso album ridicolizzata con intelligente ironia, almeno nel titolo A spoonful of bromide helps the pulse rate go down, con riferimento alle cure psichiatriche a cui Crane è sottoposto, una bellissima e travolgente cavalcata strumentale. Da segnalare anche la bella copertina sul cui fronte è disegnata un’elegante vecchietta che ascolta qualcosa da un vetusto cornetto acustico ficcato nell’orecchio, nel retro della cover la vegliarda sta fuggendo spaventata buttando via il cornetto quasi avesse ascoltato il diavolo, e, aprendo il centro-copertina l’immagine rimanda ancora alla vecchietta che fugge in lontananza mentre dalla tromba del cornetto in primo piano emergono le figure degli Atomic Rooster.
Ma se il precedente era un disco piuttosto compatto e unitario, il successivo "Made in England" del 1972 è talmente variegato e composito da non essere né vino né birra. Vincent Crane in preda alla sua ormai nota ansietà emotiva scompiglia nuovamente le carte e in questo nuovo album i Rooster sono totalmente un altro gruppo. Se ne vanno tutti: (volontariamente o allontanati?) Paul Hammond, John Cann, e Pete French che andrà a formare i buoni Cactus e vengono rimpiazzati dallo sconosciuto chitarrista Steve Bolton, dal batterista Ric Parnell (fans del prog italico vi dice niente questo nome?), e, forse memore degli istrionosmi gigioneschi vocali del vecchio sodale Arthur Brown che tanto assomigliavano a quelli di Chris Farlowe, Crane inaspettatamente assume proprio quest’ultimo cantante che lascia i Colosseum per unirsi ai galletti atomici. Nel primo brano dell’album appare persino un bassista ‘vero’ e il trio delle origini e ora un quintetto. E "Made in England" è davvero un album con troppa carne al fuoco; il nostro Vincenzino preferito sembra un pesce che annaspi in una melma fangosa di suoni e colori che non si confanno alla dinamica Rooster. Il brano Time is my life contempla oltre il vocione stentoreo e sgraziato di Farlowe una sezione fiati e un quartetto d’archi e poco può fare il prelibato solismo del tastierista per risollevarne le sorti. Crane, oltre alla svolta data dalla nuova formazione, ne dà un’altra prettamente musicale abbandonando parzialmente l’Hammond per dedicarsi principalmente al pianoforte. Per la prima volta appare un inutile sintetizzatore propagatore di effettacci senza ragione di esistere nel finale di All in the Satan's name. Ric Parnell scrive e canta mediocremente Little bit of inner air, Space cowboy scritta dal chitarrista Bolton è registrata dal vivo con una chitarra slide quasi country, in People we can’t trust Crane plagia se stesso ricopiando pari pari l’incipit della ormai lontana e mitica Tomorrow night senza raggiungerne il valore benché il brano sia impreziosito da un delizioso assolo di piano elettrico jazz e la finale Close your eyes è uno spiritual che si può immaginare sbraitato in una chiesa del profondo sud degli USA da una torma di neri fedeli invasati. Paradossalmente il brano più bello dell’album Satan's wheel, una buona saga roosteriana di quasi sette minuti è ascoltabile solo nella versione in cd essendo un brano scartato incomprensibilmente all’epoca e recuperato come bonus track dalla Repertoire negli anni novanta. Peccato; perché quando le unghie di Crane graffiano i tasti la classe viene fuori ed è ancora un bel sentire il pianismo lirico o l’organo multicolore del confuso Vincent viaggiare per le vie conosciute nei precedenti album e che invece in questa maionese impazzita, poiché gli ingredienti non si amalgano, si perdono in arrangiamenti pretenziosi e in una confusione di base del leader, forse ancora una volta legata al suo stato mentale, che limitano questo album assolutamente transitivo.
E conoscendo ormai l’incostante volubilità di Crane stupisce quasi, scoprire, come nel successivo "Nice n’ greasy" del 1973, il cambiamento di formazione sia semplicemente minimo. Se ne va infatti l’evanescente chitarrista Bolton e subentra tale Johnny Mandala uno che invece si fa sentire e che invece di prendere l’ascensore dell’inconsistenza chitarristica del suo predecessore, fa le scale sul manico dello strumento come chitarrismo jazz comanda, anche perché Mandala in questo caso è il nome d’arte di un eccelso chitarrista che si chiama in realtà John Goodsall e che ritroveremo al fianco di almeno una cinquantina di famosi artisti nel tempo a venire ( per brevità citiamo solo Brand X, John Martyn, Bill Bruford, Nona Hendrix, Phil Collins, Jeff Beck).
E la tripletta iniziale dell’album fa ben sperare in un salto di qualità anche se i fans del gruppo sono ancora una volta più confusi dello stesso Vincent Crane nell’ascoltare ancora un’altra musica. All across the country è un bluesaccio splendido con tutti i crismi, con assoli di Crane e Mandala e con Farlowe che ritorna nella casa natìa che è quella in cui si trova più a suo agio. Un brano che meriterebbe di entrare negli annali e in ogni antologia di blues inglese. Il successivo brano Save me è un robusto rhythm n’soul con sezione fiati sbraitato da par suo da un Chris Farlowe in stato di grazia/sgraziata e se a qualcuno sembrerà di averlo già sentito non avrà torto essendo una nuova versione di Friday the 13th, magnifico brano di Crane che apriva già il primo album degli Atomic Rooster.
Voodoo in you è una splendida cover di un poco conosciuto brano dei Ton Ton Macoute rallentato e dilatato rispetto all’originale con uno strepitoso assolo di chitarra di Mandala. Purtroppo la successiva Moods abbassa leggermente i toni essendo uno strumentale ‘all the Crane' di solo pianoforte un po’ fine a se stesso e se Vincenzino (come lo chiamano affettuosamente i fans italiani) nel precedente album usava già parzialmente lo strumento che lo ha reso famoso, in questa nuova opera lo accantona quasi definitivamente a favore del piano. Gli altri brani del disco sono purtroppo ordinaria amministrazione senza infamia e senza lode con inserti funk, melodie ancora blueseggianti e soul che sconcertano i fans di vecchia data e con un strumentale che si fa notare per un ruffiano ritmo a là Santana sposato inconsapevolmente con un ballabile da colonna sonora da film italiano (Umiliani, Ortolani, Piccioni) comunque molto piacevole e tutto a base di Hammond (finalmente l’organo!). "Nice n’ greasy" è un disco comunque una spanna superiore al precedente anche se il superamento non era poi così difficile.
A questo punto succedono ancora un po’ di cose: gli ultimi album non hanno ottenuto il successo sperato, Crane amareggiato e debole di carattere si butta a capofitto nel gorgo delle droghe pesanti e di tutto ciò che lo possa stordire, peggiorando il suo stato di salute mentale e i Rooster si sciolgono; Ric Parnell se ne parte per l’Italia dove troverà conforto ma non il grande successo nei Nova dell’ex Osanna Elio D’Anna e poi nei New Trolls. Passano alcuni anni, escono ben tre antologie a tappare i buchi dell’assenza discografica; per tentare di uscire dal buco nero dove vive il serpente nero che gli sta divorando la mente Crane si riunisce al vecchio sodale Arthur Brown per un album che passerà praticamente inosservato, finché nel 1980 in un barlume di sanità mentale il nostro eroe maledetto ripristina la sigla Atomic Rooster per un album dal titolo omonimo che ritrova John Cann alla chitarra e un nuovo batterista (ancora!) di nome Preston Heyman che verrà poi inaspettatamente sostituito dal vivo dal mitico Ginger Baker. Il nuovo disco dei galletti atomici anche questa volta non vale un chicchirichì anche se alcuni brani non sfigurano affatto, come la rockeggiante Future shock o la buona prova di Watch out-Reaching out, ma non basta, l’album non ottiene alcun successo e Crane ricade nella spirale della depressione.
E bisogna aspettare il 1983 per ascoltare una nuova e ultima prova degli Atomic Rooster. La malattia e le droghe concedono un’altra pausa al tastierista e questi si butta con impegno alla realizzazione di "Headline news". Nel disco c’è ancora un’altra musica: non c’è hard rock, non c’è il prog, non c’è il blues ma ci sono una manciata di ottime canzoni spruzzate dell’elettronica imperante in quegli anni. E nonostante la critica storca il naso, l’album è buono; la forma canzone è breve, semplice e risaputa ma i brani sono piacevoli, arrangiati in modo parco e senza orpelli. La sigla Atomic Rooster è un omaggio al passato di Crane che ancora una volta non vuole dimenticare i suoi trascorsi anche se "Headline news" può considerarsi un disco solista. Per l’ennesima e ultima volta la formazione è rimaneggiata; John Cann se ne va ancora una volta e ritorna da figliol prodigo dopo undici anni il batterista Paul Hammond. Vincent Crane scrive tutti i brani e se li canta egli stesso, l’uso del pianoforte è contenuto, il sinth è ripetitivo a mò di certa elettronica anni ottanta, i chitarristi sono addirittura tre e tra due emeriti sconosciuti spicca il nome di David Gilmour. Questo album è quanto di più lontano si possa immaginare da chi ha amato i Rooster dei primi anni settanta eppure quando Crane parte con le svisate dell’organo come nella bellissima Machine o come nella variegata Carnival, un groppo alla gola ci assale e ci conforta per il futuro.Una serenità apparente sembra avvolgere Vincenzino supportato dal rapporto sentimentale e artistico con l’intraprendente moglie Jean (jean.cheesman@atomic-rooster.com) che sembra risollevarlo dal baratro della maledizione e per lei Crane scrive la bellissima suite di ventidue minuti per solo piano e voce Taro Rota che uscirà postuma sulla splendida antologia "The devil hits back" curata da John Cann che contiene alcune perle inedite di assoluto valore e una pregevole versione di Tomorrow night dove Crane suona solo il pianoforte prodigandosi in un magnifico assolo.
Serenità apparente si diceva, ed è proprio così: "Headline News" sarà l’ultimo album di Vincent Crane e della sigla Atomic Rooster. Il nostro folle e sfortunato amico nel 1985 si aggrega inaspettatamente, lui vecchio e inveterato hippy, come tastierista ai new wavers Dexys Midnight Runners suonando sia dal vivo che sul loro album più famoso e di successo "Don’t stand me down".
La cosa non dura: in seguito a una nuova fortissima crisi depressiva della sua tormentata vita psichica da sempre sottoposta a continui combattimenti e a oscillazioni interiori, Vincent Crane decide di togliersi la vita il giorno di San Valentino del 1989 all’età di quarantasei anni.
Cosa resta oggi di quell’uomo che quel giorno decise di incontrare quella morte che da sempre camminava dietro di lui come aveva profetizzato fin dal 1971 col titolo del suo album più bello e più famoso? Restano un pugno di dischi frammentari altalenanti tra lo splendore e il buio ma sempre permeati dalla sincerità di un uomo fragile e spezzettato come la sua musica tra la gioia e il dolore. Restano le leggende che lo dipingono come un artista maledetto, volubile, stronzo, ladro, drogato e bugiardo. Restano gli aneddoti quali la vomitata sgorgata e catapultata direttamente sulle sue mani e sulla tastiera dell’Hammond durante un eroinico assolo live. Resta la fuga nel bel mezzo di una tournèè italiana quando Crane abbandona il gruppo e se ne torna in Inghilterra portandosi via l’incasso dei vari concerti per tornare dai suoi spacciatori preferiti. Restano le foto che lo ritraggono con lo sguardo dolce di uomo sfortunato, come quella sulla cover interna del disco coi Dexys Midnight Runners dove quel magnifico suonatore di tastiere non rinuncia al suo look di sempre rinunciando invece di tagliarsi i lunghissimi capelli e ad apparire sulla copertina principale dove gli altri sono tutti ingiaccati, incravattati e pulitini, mentre lui è sbracato e in perfetta tenuta da hippy fuori tempo massimo.
Restano alcune interessanti e complete antologie (il doppio cd "In the satan name" oppure "Devils answer’s") ricche di live, versioni alternate e inediti tra le quali segnalo in particolare quella già citata, splendida e piuttosto oscura ("The Collection") uscita nel 1991 che curiosamente contiene solo brani scritti da John Cann molti dei quali bellissimi e inediti sugli album ufficiali oltre a una versione della mitica Devil’s answer un milione di volte più bella dell’originale. Restano un paio di dischi dal vivo sfolgoranti come "Live and Raw 70-71" o le "BBC Sessions" del 1972. Restano la moglie Jean che si occupa di portare avanti la fondazione che porta il nome del marito e John Cann che con pazienza certosina sta ricostruendo la carriera del suo tormentato socio pubblicando periodicamente brani inediti e nuove antologie dei Rooster.
Resta questo mio piccolo ma accorato omaggio a uno dei più validi e sottovalutati tastieristi, questo ricordo di lui e della sua inclassificabile musica che ho finito di scrivere proprio oggi, nel giorno di San Valentino del 2011, anniversario della morte di Vincent Crane, uomo, artista puro, grande e sfortunato musicista. Ciao Vincenzino!

Maurizio Pupi Bracali

2 commenti:

aldo ha detto...

Per gli "archeologi" del Beat/Psichedelia, John Du Cann faceva parte degli ATTACK, che hanno visto vari cambi nella loro formazione e con lui si sono portati sempre piú verso la Psichedelia e suoni piú duri...

Danilo ha detto...

Il miglior articolo in italiano sugli Atomic Rooster. Complimenti! Unica piccola critica: non aver citato Before Tomorrow e Winter, pezzi centrali del primo album. Per il resto davvero un articolo scritto col cuore. Amo gli Atomic Rooster da anni, anche solo ora cerco di completarne la conoscenza con i dischi post John du Cann.