venerdì 18 febbraio 2011

THE CURE story, seconda parte: "Pornography", "The Top", "The Head on the Door", "Kiss Me Kiss Me Kiss Me", "Disintegration", "Wish", "Wild Mood Swings"


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Pornography (1982, Elektra)
Nel 1982 i Cure sono tre corpi che precipitano nel baratro.
"Pornography" è il suono di quei tre corpi che affondano dentro quella voragine.
L’ oltraggio pornografico cui allude il titolo non ha niente a che fare con la carnalità che spesso si associa all’ idea stessa della pornografia ma con l’ idea ugualmente oscena ed immorale della decomposizione, della privazione, del disfacimento corporale, sensitivo, passionale. "Pornography" è un prisma nero che inghiotte ogni fascio di luce. Nessun colore vive qui dentro. Nessuna forma di vita si muove, in questo orizzonte appiattito ed immutabile, dentro questo sarcofago dove siamo stati seppelliti, dentro questa camera iperbarica senza nessun pertugio ma in cui soffia una perenne folata di aria gelida e nella quale risuonano i tamburi dei soldatini di latta che sono venuti a farci da guardia, in questa implacabile immobilità che ci avvinghia come un enorme tentacolo, in questo stato comatoso di atrofismo respiratorio. Il canto di Robert Smith è diventato una supplica (One Hundred Years). Il suono dei Cure il crepitio di un legno seccato dal sole. I tamburi le scudisciate di un cappio su una lastra di zinco. Qui è il supplizio, qui il tormento. Come dei Napoleoni davanti al Generale Inverno ci stringiamo nei nostri spolverini, lasciando le impronte sulla neve. (The Hanging Garden)

Japanese Whispers (1984, Sire) - The Top (1984, Sire)
L’ uscita dal tunnel nero della trilogia scura dei primi anni Ottanta ha per i Cure la luce abbagliante e stroboscopica della svolta dance e tenerona dei singoli pubblicati tra l’ Ottobre del 1982 e il Novembre dell’ anno successivo frutto delle strategie di mercato del deus-ex-machina della Fiction Chris Parry e della crisi artistica seguita alla rottura con Simon Gallup culminata con la cancellazione del 14 Explicit Moments Tour e il temporaneo split della band.
I tre singoli, poi raccolti nel mini "Japanese Whispers" (1984, Sire), sono paradossalmente mille miglia distanti dai climi torbidi e raggelanti degli album precendenti, sono tre atti dissacratori e profanatori che come tale vengono accolti dai vecchi fans del gruppo e che invece sono i camuffamenti necessari a Smith e ai suoi soci per scappare via dagli angusti tunnel della depressione. Sono proprio canzoni sornione come The Lovecats e marce per sintetizzatori come The Walk e Let’ s go to bed a nascondere le bombole di ossigeno che servono alla band per non affondare nelle acque nere di Faith e Pornography. L’ empasse artistico di cui Robert approfitta per stringere i suoi legami artistici e confrontare le affinità elettive con i Banshees viene scongiurato grazie al rientro in formazione di Porl Thompson, uscito fuori dalla band poco prima dell’ esordio discografico.
Porl ha uno stile cervellotico e nervoso che ad inizio carriera cozza con i progetti di Robert Smith di una band dallo stile spartano e che invece adesso sono in perfetta sintonia con le nuove ambizioni del leader, messe in fila indiana dentro "The Top" (1984, Sire) in maniera scombinata e disomogenea: strappi hard-rock (Shake Dog Shake, Give me it), mielose canzoni da sofà (Dressing Up), oblique serenate per le ricercate reginette del gotico (Piggy in the mirror), accenni di musica mediterranea e di bolero (Bird Mad Girl), marce per soldatini di ghisa (The Empty World), eccentriche canzoni da terra incantata (la genialata di The Caterpillar e il nonsense di Bananafishbones), pesanti macigni di dolcezza (la lunga e cadenzata The Top), oscure discese tra le rocce di tufo infestate dai pipistrelli (Wailing Wall), "The Top" è disco babelico e caotico, in parte ripudiato da Smith che lo catalogherà come il suo disco più brutto, specchio di un periodo dove la confusione anarchica sembra essersi impossessata della band scombinandone gli equilibri. Eppure è questo suo tormento, questa pressione esogena che schiaccia dall’ alto e preme dall’ interno a renderlo un tassello importante nella lunghissima storia della band inglese. Queste sue mille sfaccettature tracceranno le coordinate per i Cure che verranno di lì a poco, rifondando il suono della band su nuovi pilastri. Per niente malfermi, per niente insicuri. Soltanto, per capriccio, costruiti su un terreno disomogeneo, così che il prossimo solaio possa venire tutto storto. The Top è un disco di architettura creativa. Chi lo biasima è solo un pessimo geometra.

The Head on the Door (1985, Elektra)
"The head on the door", nel 1985, mette a fuoco il linguaggio polimorfo che i Cure masticano dopo i bagni nelle acque gelide dei primi anni Ottanta. L’ obiettivo, raggiunto a livello concettuale ma non del tutto sul piano qualitativo, è quello di realizzare un disco dove nessun pezzo suoni come quello che lo precede o che lo segue e suona un po’ come l’ appendice estetica a The Top, alimentato dalla consapevolezza ormai raggiunta di poter scrivere con disinvoltura canzoni pop coperte da zucchero caramellato (In between days, A night like this, Six different ways) e di potersi concedere allo stesso tempo il lusso di piccoli abissi di depressione (Sinking) o di dare sfogo alle eccentriche
claustrofobie del leader (Close to me, Push) contando sull’ appoggio di schiere di fans risucchiate dal vortice esistenziale dalle catarsi emotive rovesciate loro addosso negli anni e che ora si fanno sempre più numerose e sempre più voraci e per le quali sono già pronte raccolte, riletture, concerti sempre più gremiti e tonnellate di poster e foto su ogni rivista di tendenza e su ogni giornaletto di musica, dal più idiota al più rinomato, che circoli in Europa. I Cure sono una band di successo, nonostante tutto. Anche qui dentro, come sul disco precedente, risuona spesso l’ eco di musiche mediterranee o orientali (il flamenco di The Blood o i piccoli ideogrammi giapponesi di Kyoto Song) che Robert associa ai suoi sbalzi d’ umore, dovuti in questo periodo al tentativo di tirarsi fuori dall’ alcolismo cronico che lo accompagna dall’ adolescenza. I richiami etnici sono pertanto sfruttati a livello cromoterapico, sfuggendo alla pericolosa trappola della musica etnica.
Singolare notare come, nonostante "The head on the door" sia il primo (e l’ unico, NdLYS) album dei Cure in cui le canzoni siano accreditate al solo Smith, in realtà sia il primo disco dove l’ apporto creativo degli altri componenti (l’ alter-ego smithiano Simon Gallup rientrato nei ranghi ufficialmente, Lol Tolhurst, Porl Thompson, Boris Williams) è invece tangibile e ufficialmente riconosciuto da Robert.
Ognuno porta con sè un colore, un pennello, uno schizzo per dipingere gli incubi di Robert di colori così intensi da farli diventare un attraente parco giochi, senza permettere ad alcuno di chiedersi se durante la discesa lungo lo scivolo di Sinking quella che Robert sta intonando sia una filastrocca per bambini o una disperata richiesta di aiuto.

Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me (1987, Rhino)
Quando esce "Kiss me, kiss me, kiss me" i Cure sono già stati dati per spacciati almeno un paio di volte. E invece nel Maggio del 1987, dopo essere passati indenni dalle onde grevi del post-punk più claustrofobico e aver fatto sciogliere il cerone ai darkettini facendoli ballare al ritmo frivolo di Let ‘s go to bed o The upstairs room, eccoli arrivare con quello che le cronache riportano come il primo doppio della loro carriera.
In verità l’ idea di “doppio”, commercialmente parlando, cominciava proprio allora a vacillare, tant’ è che la versione su cd fu evirata di Hey You pur di costringerlo su un solo supporto. Ma all’ epoca si azzardò addirittura una TRIPLA versione in vinile che custodisco ancora in casa, come uno scrigno di caramelle alla ciliegia.
Ora che il mercato ha invertito tendenza e le case discografiche hanno capito che il pubblico si divide in due categorie: i bacchettoni che scaricano da Internet e i bacchettoni che comprano l’ originale purchè gli si giustifichi l’ investimento con un disco bonus, quasi sempre pieno di schifezze (su le mani quanti hanno ascoltato i bonus sulle ristampe Cooking Vinyl dei Gun Club, avanti NdLYS), eccolo ridiventato doppio. Pure nel prezzo. Ma non è questo quello che conta di Kiss me.
Ciò che conta è che i Cure tornano ad essere un gruppo con tante cose da dire. Hanno scritto circa venticinque pezzi. Diciotto finiscono su questo disco. Un disco complesso, sfaccettato. Che è un po’ la summa di tutto quello che i Cure hanno dato fino a quel momento. Romanticismo e dolcezza certo. Come tra i fiocchi di zucchero filato di Catch o The perfect girl, che si muovono sul solco tracciato da Dressing Up e Piggy in the mirror. E anche il cipiglio rock ostentato in passato da Shake Dog Shake che qui torna a scuotersi tra le contorsioni di Shiver and shake.
Ma pure l’ inquietudine dark ammantata di psichedelia nera che era sgorgata dalle vene tagliuzzate di Faith e Pornography e che qui fluisce libera sui capolavori del disco: l’ ombrosa If only tonight we could sleep, l’ onirica Snakepit, il ralenti mortifero di Like Cockatoos, lo straziante sentimentalismo di A thousand hours. E poi il gusto kitsch per il ritmo funky e il jazz da big band che Robert Smith ha già esplorato in passato e che torna qui con la prepotenza irritante di pezzi come Why can ‘t I be you e Hot Hot Hot!.
Ma il tessuto connettivo di "Kiss me" è comunque quello di un disco fortemente drammatico. Sin da subito, dal lunghissimo incipit di The Kiss, si avverte quest’ esigenza di non rimanere schiacciati dal tempo ma di cercare di dominarne la sfuggevolezza, di godere del suo inesorabile fluire.
Come quando spacchi una clessidra e giochi a fare scivolare tra le dita la sua sottile sabbia rosa, lasciando che ti solletichi tra le falangi e il metacarpo. E’ una vendetta che Robert Smith rimugina da tempo ovvero da quando il budget limitato per la registrazione di 17 Seconds aveva ridotto il lungo strumentale di The final sound ad un banale e striminzito siparietto di 52 secondi. Una vendetta consumata fredda, al momento opportuno. Ovvero quando la band si sente nuovamente forte, compatta, imbattibile. Presuntuosa, sin dalla scelta della copertina.
Scompare il rigore del bianco e nero e la necessità estetica delle figure sfocate, dilatate, allungate e storte di qualche vecchia cover. L’ immagine è adesso immediata e diretta. Affidata all’ audacia del rosso sgargiante e carnale delle labbra sbavate di Robert Smith in cui è affogata. Due strisce di carne che chiedono amore senza ostentarlo. Serrate e impassibili, malgrado l’ esplicita richiesta del titolo. "Kiss me, kiss me, kiss me" è un disco smanioso, inquieto, che porta l’ impronta di tutti. Fortemente collettivo. Come una seduta terapeutica di gruppo. Ognuno fa i conti coi propri fantasmi, esorcizzandone le forme e i ricordi prima di prepararsi nuovamente ad affrontarli. Succederà due anni dopo con Disintegration, prima di mutare nuovamente, per l’ ennesima volta, pelle e fondotinta.

Disintegration (1989, Elektra)
A suggello di un decennio di cambiamenti, defezioni, ritorni, cadute abissali e rimonte improvvise e inaspettate, i Cure pubblicano "Disintegration", autentico Paese delle Meraviglie dello Smith-pensiero. L’ accesso ai trent’ anni mette Robert Smith davanti ai suoi vecchi fantasmi, riaccendendo di luce fosforescente i vecchi ectoplasmi che ingombrano i corridoi della sua testa. Album completamente immerso nel romanticismo onirico e visionario del leader, Disintegration riannoda quindi i legami col periodo più scuro della band inglese, ovviamente rivisto secondo le nuove ambizioni e il nuovo assetto artistico dei Cure che sono ora un gruppo col doppio di elementi. Un’ autentica orchestra a dare colore e forma ai sogni di Robert Smith che in questo periodo persegue il sogno Wilsoniano del suono perfetto, sovrapponendo i suoni strato su strato, come in una sinfonia decadente dedicata ad un secolo che inizia a sciogliersi come mascara sotto le lacrime.
Una cattedrale gotica che si erge sulle rovine di Faith e Pornography e sopra i forzieri ricolmi dei tesori pop di un disco come The head on the door (i claustrofobici sospiri di Lullaby, già sperimentati in Close to me, le prelibatezze sognanti di Love Song, i gorghi acquatici di Prayers for rain figli del lento sprofondare di Sinking) e delle ambiziose architetture di Kiss me Kiss me Kiss me (le pioggie di cristalli nella lunga intro di Plainsong, la polvere di stelle che piove dalla coda di Fascination Street, il canto di The Perfect Girl letteralmente soffocato nel rantolo di Homesick) portandosi dietro un po’ di quel dolore antico (Last Dance, The same deep water as you) e risputandolo fuori con un’ intensità che si credeva impossibile da vivere con tale impeto di disperazione.
"Disintegration" è l’ arte di cantare il dolore accarezzandone le piume come un uccello ferito.

Wish(1992, Elektra)
Agli inizi degli anni Novanta, i Cure passano dalla cassa per riscuotere. La consacrazione come band di successo viene legittimata dalle vendite milionarie di "Wish", secondo album doppio nella discografia del gruppo britannico, climaticamente vicino tanto alle ambientazioni gotiche e dolcemente plumbee di Disintegration quanto al glitter romantico e decadente di Kiss me Kiss me Kiss me, i due dischi che hanno ridefinito e rimesso a fuoco il suono dei Cure dopo la confusione dei medi anni Ottanta. I goffi tentativi di vestire la disperazione di Robert Smith con i colori sgargianti di orsetti di peluche e le vernici fosforescenti già messi al bando con Disintegration sono ulteriormente soffocati dal taglio introspettivo di questo nuovo album, stipato di lunghe cavalcate psichedeliche colme di presagi di mortale sventura e di inquietanti segni di annichilimento (Open, From the edge of the deep green sea, End) così come di estenuanti tuffi in apnea nell’ immobilità esasperante delle angosciose partiture di Trust, Apart o To wish impossibile things che custodiscono il plesso dentro cui si muove il vero kundalini di un disco che affida ai singoli High, Friday I ‘m in love e A letter to Elise il compito di circuire l’ ascoltatore con gli occhioni languidi ma spossati di Robert Smith che finge ancora di leccarsi le ferite come un micio mentre finge di fare le fusa. E’ il tentativo di Robert di ingannare se stesso, la sua coperta di Linus, le sue unghie da masticare per placare un vuoto addominale che potrebbe essere scambiato per fame, sono i suoi pasti fuori orario per giustificare un gonfiore triste quanto quello di Elvis al Capodanno di Pittsburgh. Il tour che ne segue, nonostante raduni platee da guinness, segna una nuova fase di crisi all’ interno del gruppo, culminando con l’ abbandono di Porl Thompson e Boris Williams e le rogne legali con Lol Tolhurst che incattiviscono Robert Smith (che tenterà di anticipare l’ annunciato scioglimento della band annunciato per il 2000 e che poi verrà invece di fatto totalmente sconfessato, NdLYS) e sfaldano la coesione del gruppo, finendo per fare di "Wish" il testamento spirituale ed artistico dei Cure, il suo monumento funebre.

Wild Mood Swings (1996, Fiction/Elektra)
Dopo la polvere di stelle che ha ricoperto i Cure durante i tour di Disintegration e Wish, Robert Smith vede annegare i suoi sogni. La band si sbriciola nuovamente e Robert Smith cade in una crisi creativa quasi irreversibile tanto che "Wild Mood Swings", al di là dei suoi bassissimi meriti artistici, è il secondo ed ultimo disco che i Cure incidono durante tutto il loro secondo decennio di vita. Ed è il punto più basso fin qui toccato dalla band inglese. L’ estro di Robert Smith è visibilmente appannato e il tentativo di “alleggerire” il suono della band vestendolo di impensabili vestiti sudamericani (la rumba del singolo The 13th), di orpelli operistici (This is a lie) o di sgraziate mediocrità pop (Return, Strange Attraction, Round & Round & Round) non riesce a sollevare le sorti di un disco assortito ma banale come gli scaffali di un negozio in franchising.

Bloodflowers (2000, Fiction/EastWest)
All’ alba del ventunesimo secolo, per ripulirsi la coscienza da un disco infame come Wild Mood Swings Robert concede ai suoi Cure, proprio alla vigilia dello scioglimento annunciato da anni, un’ ulteriore possibilità. Un’ occasione di riscatto che riporti il sound della band dentro le coordinate del suono decadente che le è proprio. "Bloodflowers" viene pertanto presentato come un’ ipotetico vertice di un triangolo ai cui apici stanno "Pornography" e "Disintegration", i dischi più umorali della storia della band, tanto che tutti e tre gli album vengono riproposti in sequenza durante un memorabile show al Berlin Tempodrom nel Novembre del 2002. In effetti in questo undicesimo album i Cure richiudono le imposte lasciate inavvertitamente aperte sul disco precedente e lasciano passare solo sottili fasci di luce anche se mancano i toni claustrofobici di Pornography così come il fascino gotico di Disintegration. Climaticamente accostabile ai due fratelli maggiori, "Bloodflowers" ha tuttavia un tono più dimesso, quasi essenziale e solitario, pur non rinunciando alle lunghe introduzioni strumentali che da "Kiss me, kiss me, kiss me" in avanti saranno uno dei tratti distintivi dei Cure.
Tornano ancora, senza che fossero mai andate via, le paranoie di Robert Smith espresse ancora una volta nell’ ossessionante trilogia catartica Cold-Hold-Old. Tuttavia Bloodflowers non scioglie le remore sulla salute creativa dei Cure lasciandosi apprezzare più per il clima “familiare” che lascia traspirare che per la reale consistenza delle canzoni che anche stavolta finiscono malgrado tutto per non farsi ricordare. Ma, ancora una volta, a dispetto dei suicidi e degli scioglimenti annunciati, Bloodflowers non è la ghirlanda con cui coprire la bara dei Cure. (The Last Day of Summer, Watching Me Fall)

The Cure (2004, Geffen)
Nel 2004 infatti esce un disco che segna un nuovo battesimo. Nessun titolo, disegni infantili che colorano tutto il booklet, nuova etichetta, nuovo produttore. Nuove spinte emotive, anche. Perché ovunque Robert volge le orecchie, sente il suono dei suoi Cure, sotto i falsi nomi di Editors, Interpol, Rapture e decide di rimettersi in gioco. "The Cure" azzarda senza eccessive forzature nel tentativo di rinnovare il suono della band, adattandolo alle esigenze di un pubblico che richiede un pizzico di ferocia in più. Il sound spoglio e intimista del disco precedente lascia il posto a una esplosione controllata di suoni metallici ben guidati dalla mano di Ross Robinson la cui impronta pre-apocalittica, seppur mitigata da quella dello stesso Robert, si avverte in pezzi come Lost, Labyrinth, The promise, Us or them. (Going Nowhere)

4.13 Dream (2008, Geffen)
Dopo l’ ormai abituale pausa quadriennale e l’ ennesimo rientro in formazione dell’ ormai calvissimo Porl Thompson, i Cure pubblicano il loro nuovo album, tredicesimo nella cronologia discografica della band e tredicesimo nell’ ossessione numerologica che ne avvolge il calendario progettuale (l’ uscita del disco era stata programmata per il 13 Settembre dell’ anno, preceduto da una serie di singoli pubblicati al 13 di ogni mese, NdLYS) che tuttavia si scontrerà con i piani della loro casa discografica affondando ogni velleità concettuale di un disco che invece è costruito attorno ad un totale vuoto d’ ispirazione che lo svuota di ogni catarsi emotiva, strutturalmente concepito per essere la prova più rock-oriented della loro storia.
"4:13 Dream" è un disco dove la magia è totalmente evaporata lasciando solo il suo catorcio. Il prodotto di un gruppo che ha prosciugato il suo calamaio e si affanna a voler intingere la sua penna in un vasetto dove l’ inchiostro si è ormai cristallizzato in piccole gemme di onice che non lasciano impronta, pur nella speranza che It's Over non sia il titolo del salmo con cui dovremo lasciare questa cattedrale gotica, alla fine di questa cerimonia.
Franco “Lys” Dimauro


CureOfficialWebsite


prima parte della CURE story:  First Part

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