martedì 12 ottobre 2010

PAOLO AGOSTA: "Virus" (Halidon, 2010)

Alla luce dell’ascolto di "Virus", opera del cantautore Paolo Agosta concepita nell’arco degli ultimi cinque anni, l’immaginario associato alla parola “cantautore” appare tutto da riscrivere.

Se “cantautore” vi fa immediatamente pensare ad un tipo dall’aria malinconica che suona alla chitarra acustica, o classica, storie personali e/o sociali più o meno probabili con una certa verbosità, in una veste musicale spesso “di  sottofondo” rispetto alla voce, che reciti più che cantare, allora abbandonate pure il vostro schema mentale. Perché, in fondo, cantautore è chi canta le canzoni che scrive, e può farlo in mille modi diversi, senza doversi per forza adeguare a questo o a quel cliché.

Agosta ama le sonorità del rock anni ’90, lezione che ha mandato a memoria appieno. Diciamo subito che il disco si ascolta volentieri anche perché registrato ottimamente, gli arrangiamenti sono puntuali, le chitarre  scintillanti. A ciò aggiungeteci melodie agrodolci con accenni pop, rese bene da una voce che, seppur non originalissima sul piano del timbro, regge il ruolo  e sa essere convincente soprattutto con riferimento ai testi: d’amore qui si canta, con aperture a quella che è la non facile condizione umana in generale.

L’argomento non sarà originalissimo – ma di che cosa si canta in fondo se non d’amore? – ma in questo lavoro i testi sono perfettamente funzionali al discorso musicale - che comunque fa la parte del leone - il che è certo un pregio. Particolarmente apprezzate da chi scrive l’iniziale Virus, Piove su Milano e Niente. Buon progetto.
Ruben
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