Erano spariti dai radar i Mekons, nonostante una produzione “monstre” di ben 26 albums e una carriera contrastata che affonda le proprie radici nel meraviglioso 1977 dell'esplosione punk e di tante altre belle cose che ormai sembrano di un altro mondo. Bando alla tristezza, però, e occupiamoci di questa ultima produzione dei nostri veterani, che esce a distanza di quattro anni dall'ultimo loro lavoro,
e che, con il solito humour nero dei nostri, vuole costruire un ponte lungo cent'anni tra l'epoca edwardiana e i giorni nostri, tra la Sarajevo del 1914, con l'anarchico Gavrilo Princip, che uccise Franz Ferdinand e quella della guerra in Bosnia, tra le false “armi di distruzione di massa” della funesta guerra in Iraq e l'invasione di telecamere di sorveglianza che una società paranoica piazza ad ogni angolo delle nostre strade nell'illusione di proteggere il nostro declinante benessere. Il tutto attraverso la miscela di folk e rock che i Mekons ci propongono da tempo, avendo ormai abbandonato i furori punk degli inizi e le deviazioni quasi-dance di fine anni '80, e che a buon diritto può essere considerata come l'inizio di quello che oggi è molto di moda chiamare “alt-country”. In particolare, in questo album la musica dei Mekons fluisce su registri piuttosto intimisti, punteggiata dai suoni malinconici del violino e dell'accordion, ma pronta, quando è il caso, a lasciarsi trascinare in qualche cavalcata elettrica.
Personalmente ho trovato tutto il disco ampiamente godibile, con qualche gemma, come la splendida ballata che lo apre, Warm Summer Sun, in cui Jon Langford canta con trasporto, a piena voce, tra l'arpeggio della chitarra acustica e lo stridio del violino, delle bellezze della campagna inglese agli inizi del ventesimo secolo, tra pic-nic sull'erba e partite di cricket, salvo sanzionarne la corruzione nel sussurrato finale (“I look out on corpses, skeleton trees, the unimaginable hell in front of my eyes”), oppure la possente Space In Your Face, che ricorda in qualche modo il mio carissimo Julian Cope.
O, ancora, la lunga, triste I Fall Asleep, quasi un lamento, nella grande tradizione delle ballate che il folk-rock britannico ci ha sempre regalato, che fa il paio con Ugly Bethesda, cantata da Sally Timms, storia di miniere gallesi in sciopero. Oppure, per finire, l'epica “title track”, con annesso coro maschile gallese e il rock corale di Honey Bear, con un verso folgorante, che ci invita a pensare ai giorni bui che stiamo vivendo: “The further the story is from the truth / The more you need propaganda”: più la storia è lontana dalla realtà, più è necessaria la propaganda. Che dire, ancora: grazie, ragazzi.
Luca Sanna
Bloodshot Records/Mekons
Nessun commento:
Posta un commento