Settimo album in dieci anni per i Black Keys, duo originario di Akron, postaccio nebbioso e puzzolente di pneumatici, oggi trasferiti nella più amena Nashville, con un passato sporco di blues e garage e un luminoso presente di rock'n'roll band arrivata, con “Brothers”, l'album dello scorso anno, ad un sontuoso successo
commerciale da un milione di copie. Il bello è che i due ragazzi, il chitarrista Dan Auerbach e il batterista Patrick Carney, non sembrano essersi montati la testa, proclamando nelle loro interviste un'etica del lavoro fatta di ore e ore di prove e miglia e miglia per raggiungere i più remoti locali dove suonare, attraverso la quale sentono di aver raggiunto gli attuali livelli, pur non sentendosi sicuri di essere davvero 'good enough'. Detto che questa tendenza all'understatement me li rende piuttosto simpatici, passo all'esame dell'album: “El Camino” è un po' un ritorno alle origini, si lasciano da parte le atmosfere “groovy” un po' anni '70 del precedente “Brothers”, per riproporre un buon, solido rock, a volte screziato di atmosfere “glam” alla T-Rex. Certo, non son più i tempi del blues tanto scorticato quanto possente di “Thickfreakness”, ma allora i nostri registravano nella cantina di Pat Carney ed erano ancora confinati nel ghetto dell'underground, dal quale solo l'intuito del compianto John Peel stava per tirarli fuori. Oggi le registrazioni sono invece curate e leccate dal produttore Danger Mouse, che, ormai, è diventato una sorta di terzo componente del gruppo, in grado di temperare le durezze intrinseche in una formazione così ridotta con tutta una serie di artifizi di studio (cori, organetti vari, handclaps). Notiamo altresì che l'album si mantiene su lunghezze da “padellone”: nemmeno quaranta minuti, per undici pezzi, ma la qualità è quasi sempre al top, segno che si è cercato di includere soltanto il meglio della produzione disponibile. Alcune segnalazioni, quindi, tenendo conto di quanto sopra: il primo pezzo, Lonely Boy, già noto per il simpatico video che annunciava l'uscita del disco, è un'assalto a base di chitarrona stradistorta, batteria “jungle sound” e coretto assassino, insomma, il singolo che spacca. Poco dopo, track no. 3, si profila l'ombra di Marc Bolan per annunciarci Gold On The Ceiling, quasi un tributo ai suoi T-Rex. Segue la mia preferita, Little Black Submarines, che da ballata acustica si trasforma in un perfetto, possente power pop. Ancora: la cruda Run Right Back, Stop Stop, dal groove inarrestabile, con battimani, coretto in falsetto e via così, poi l'ultima, quasi funky, Mind Eraser. Siamo al consuntivo finale: un buon disco di puro rock, facile, al quale è quasi ovvio pronosticare il bis del successone planetario di “Brothers”. A me, però, resta un po' di nostalgia per i “vecchi” Black Keys, quelli che registravano in cantina...
Luca Sanna
Nonesuch Records
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