# Consigliato da DISTORSIONI
Arborea sono musicalmente e nella vita una coppia formata da Shanti Curran e Buck Curran, americani del Maine ed attivi dall'anno 2005: è allora che decidono di formare la loro creatura, ispirati dal folk d'Albione dal quale sono pesantemente ispirati ed innamorati. E’ davvero interessante e quantomeno curioso che per una volta sono gli americani a ripescare sonorità care agli inglesi,
in questa esplosione di acid-folk, neo-folk, weird-folk o come diavolo lo volete chiamare, citando le decine di etichette che disperatamente gli addetti ai lavori si sono affrettati ad affibbiare ai numerosi artisti apparsi in questi ultimi dieci anni di autentica esplosione di suoni soffici e vellutati. Questo duo è uno dei migliori del genere con già quattro albums all'attivo, senza grosse evoluzioni, dall'esordio splendido di “Wayfaring Summer” (2006) proseguendo con l'omonimo “Arborea” (2007) con inserti di violoncello della magica Helena Espvall degli Espers, ed a seguire “House of Sticks” (2008) quasi un mini album ma forse la loro vetta creativa ad oggi. Questo “Red Planet” era molto atteso dalla ristretta ma fedele cerchia di appassionati del gruppo: i due Curran non deludono le attese donandoci uno dei lavori più suggestivi e suadenti di questo 2011, almeno limitatamente al genere di cui sono come detto tra i migliori esponenti. Nel disco la bella Shanti suona banjo, harmonium, dulcimer, violino oltre a cantare, mentre il marito Buck si limita a chitarra, flauto e kalimba: la solita Espvall dà anche qui il suo prezioso contributo in Spain e Arms and armonies, tra le cose migliori della raccolta. Il titolo del disco Red Planet può forse trarre in inganno, qui non ci sono musiche spaziali, nè voli psichedelici in pianeti sconosciuti, lo stesso favoloso rosso trasparente con cui sono state pressate le prime 100 copie su vinile - e qui mi vengono in mente gli Hapshash & The Coloured Coat, una band di freakkettoni inglesi 1967 circa - può far pensare ad una band space rock, od una nuova creazione di uno Steve Wilson sotto acido; niente di tutto questo, in queste note echeggiano solo una tranquilla pace pastorale, il verde dei prati ed i silenzi della natura.
Non si può dire che manchi un po’ di presunzione ai coniugi Curran, visto che in questo ultimo lavoro si cimentano in due impegnative covers: Black is the colour (of My True Love's Hair), un traditional dei monti appalacchiani, resa celebre dalla straordinaria Nina Simone, (la più grande soul singer di sempre), oltre che dalla pazzesca versione della grande ma misconosciuta Patty Waters nel suo “Sings” (1965), 14 incredibili minuti di delirio vocale e Phantasmagoria in two del mai troppo compianto Tim Buckley, da “Goodbye & Hello” (1968), uno dei suoi innumerevoli capolavori. Entrambe le versioni degli Arborea risultano abbastanza riuscite, meglio la seconda ad onor del vero, anche se entrambe sono molti gradini sotto gli originali e questo è normale vista la caratura degli storici interpreti, che vantano estensioni vocali inarrivabili. Il resto dell'album scivola via con soffici e lentissimi brani acustici, con la bella voce di Shanti a ricamare il tutto ed il tocco morbido dei loro tanti strumenti tradizionali usati nell'occasione, il banjo su tutti, un pò il marchio di fabbrica di questo disco. Tutto sommato un altro lavoro riuscito questo degli Arborea, anche se quello che mi preme sottolineare è che a loro come a molti gruppi simili manca forse la spregiudicatezza ed il coraggio necessari per evolvere il suono, dirigerlo in direzioni più originali: il ripetere per cinque dischi, pur degnissimi, lo stesso impasto vocale e strumentale rischia di appiattire la loro interessante proposta. I Curran saranno anche debitori dei grandi maestri folk dei seventies, ma sono distanti anni luce da loro: la stessa distanza che intercorre tra la Terra e Marte, il pianeta rosso.
Arborea sono musicalmente e nella vita una coppia formata da Shanti Curran e Buck Curran, americani del Maine ed attivi dall'anno 2005: è allora che decidono di formare la loro creatura, ispirati dal folk d'Albione dal quale sono pesantemente ispirati ed innamorati. E’ davvero interessante e quantomeno curioso che per una volta sono gli americani a ripescare sonorità care agli inglesi,
in questa esplosione di acid-folk, neo-folk, weird-folk o come diavolo lo volete chiamare, citando le decine di etichette che disperatamente gli addetti ai lavori si sono affrettati ad affibbiare ai numerosi artisti apparsi in questi ultimi dieci anni di autentica esplosione di suoni soffici e vellutati. Questo duo è uno dei migliori del genere con già quattro albums all'attivo, senza grosse evoluzioni, dall'esordio splendido di “Wayfaring Summer” (2006) proseguendo con l'omonimo “Arborea” (2007) con inserti di violoncello della magica Helena Espvall degli Espers, ed a seguire “House of Sticks” (2008) quasi un mini album ma forse la loro vetta creativa ad oggi. Questo “Red Planet” era molto atteso dalla ristretta ma fedele cerchia di appassionati del gruppo: i due Curran non deludono le attese donandoci uno dei lavori più suggestivi e suadenti di questo 2011, almeno limitatamente al genere di cui sono come detto tra i migliori esponenti. Nel disco la bella Shanti suona banjo, harmonium, dulcimer, violino oltre a cantare, mentre il marito Buck si limita a chitarra, flauto e kalimba: la solita Espvall dà anche qui il suo prezioso contributo in Spain e Arms and armonies, tra le cose migliori della raccolta. Il titolo del disco Red Planet può forse trarre in inganno, qui non ci sono musiche spaziali, nè voli psichedelici in pianeti sconosciuti, lo stesso favoloso rosso trasparente con cui sono state pressate le prime 100 copie su vinile - e qui mi vengono in mente gli Hapshash & The Coloured Coat, una band di freakkettoni inglesi 1967 circa - può far pensare ad una band space rock, od una nuova creazione di uno Steve Wilson sotto acido; niente di tutto questo, in queste note echeggiano solo una tranquilla pace pastorale, il verde dei prati ed i silenzi della natura.
Non si può dire che manchi un po’ di presunzione ai coniugi Curran, visto che in questo ultimo lavoro si cimentano in due impegnative covers: Black is the colour (of My True Love's Hair), un traditional dei monti appalacchiani, resa celebre dalla straordinaria Nina Simone, (la più grande soul singer di sempre), oltre che dalla pazzesca versione della grande ma misconosciuta Patty Waters nel suo “Sings” (1965), 14 incredibili minuti di delirio vocale e Phantasmagoria in two del mai troppo compianto Tim Buckley, da “Goodbye & Hello” (1968), uno dei suoi innumerevoli capolavori. Entrambe le versioni degli Arborea risultano abbastanza riuscite, meglio la seconda ad onor del vero, anche se entrambe sono molti gradini sotto gli originali e questo è normale vista la caratura degli storici interpreti, che vantano estensioni vocali inarrivabili. Il resto dell'album scivola via con soffici e lentissimi brani acustici, con la bella voce di Shanti a ricamare il tutto ed il tocco morbido dei loro tanti strumenti tradizionali usati nell'occasione, il banjo su tutti, un pò il marchio di fabbrica di questo disco. Tutto sommato un altro lavoro riuscito questo degli Arborea, anche se quello che mi preme sottolineare è che a loro come a molti gruppi simili manca forse la spregiudicatezza ed il coraggio necessari per evolvere il suono, dirigerlo in direzioni più originali: il ripetere per cinque dischi, pur degnissimi, lo stesso impasto vocale e strumentale rischia di appiattire la loro interessante proposta. I Curran saranno anche debitori dei grandi maestri folk dei seventies, ma sono distanti anni luce da loro: la stessa distanza che intercorre tra la Terra e Marte, il pianeta rosso.
Ricardo Martillos
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