Non scriveremo qui, a proposito del geniale pianista e compositore di Allentown, Pennsylvania, Keith Jarrett, dei suoi trascorsi in ambito eminentemente jazz, come allievo e coadiutore prima di Art Blakey, nei Jazz Messengers, poi dell'incommensurabile Miles Davis. Non scriveremo di Keith Jarrett quale formidabile interprete pianistico nel sodalizio con il compianto Paul Motian,
con Charlie Haden, con Dewey Redman. Erano gli anni magici della Impulse! Né della sua prodigiosa esperienza col Trio, insieme all'amico di tutta la vita Jack DeJohnette e al grande contrabbassista Gary Peacock. E neppure delle sue produzioni in ambito prettamente “classico”, come intrigante rivisitatore di opere immortali: “Il clavicembalo ben temperato”; “Le variazioni Goldberg” di J.S. Bach; o dei Concerti per piano di W.A.Mozart, solo per citarne alcuni. E tralasciando anche talune sue opere di taglio precipuamente classico, sia pure con la mente rivolta a quell'impasto di jazz, blues, gospel, che da sempre ne caratterizzano la cifra stilistica e la “poetica” musicale tout-court, “Bridge Of Light”, su tutte. Afferente, invece, alla sua vasta e preziosa produzione di opere per solo piano, sostanziantesi in memorabili concerti live con susseguente incisione fonografica, è quest'ultima fatica di Keith. Fatica, non a caso. Visto che il Nostro, all'inizio degli anni '90, fu affetto dalla sindrome da fatica cronica che ne compromise per gran tempo sia l'attività di incisione che, a maggior ragione, quella eminentemente live. Tornato, alla fine di quel decennio, a calcare il proscenio concertistico e alla consueta attività di incisione discografica, con lavori venati di apparentemente inoppugnabile angoscia compositiva, Keith ritorna via via a riacquistare quella felicità espressiva che, da un canto, la malattia prima e dolorose vicissitudini coniugali poi, avevano velato di un alone di pervasiva malinconia.
In questo senso, “Rio”, frutto di un memorabile concerto per solo piano tenuto il 9 Aprile del 2011 al Teatro Municipal di Rio de Janeiro, confluito nel doppio cd edito dalla ECM, la meritoria etichetta discografica di Manfred Eicher che accompagna Keith sin dai suoi esordi, rappresenta, diremmo plasticamente e non solo in musica, un ritorno alla vita per Jarrett. Si tratta, infatti, di un disco contrassegnato da grande felicità creativa, nel quale sarebbe errato ricercare echi e reminiscenze di memorabili incisioni quali il prodigioso “Koln Concert” del 1975, o il bellissimo concerto tenuto dall'artista statunitense alla Scala di Milano nel 1997. Per ovvie ragioni di estenuazione fisica, qui i toni si fanno lievi e trasparenti come ali di libellula; nelle 15 parti di cui si compone il doppio cd sembra aleggiare il tocco soffuso di una luce crepuscolare il cui barbaglio, lungi dall'inquietare, inebria di calore poetico, in sommo grado. Le dita alate di Jarrett, la cui tecnica sovrumana si coniuga alla perfezione col battito creativo del suo gran cuore musicale, scorrono sui tasti, ora con rapida leggiadria ora con lento e dolce incedere nelle regioni aurorali del sentimento umano appena sbocciante da spume di suono. Con alternanza puntuale, infatti, si succedono, brani ora più ritmati ora più sprofondanti nel morbido velluto delle note. La Parte 1, ad esempio si gioca sulla maestria funambolica del Maestro, agilmente modulata su note in rapido movimento, mentre la Parte 2 somiglia più al traboccare da una coppa soprannaturale di note baciate dal lento declinare dell'ultima luce del giorno, in forma di lieve alone rosato. E così, in puntuale altalena di sensazioni sonore, ora guizzanti di fiamma creativa improntata a un certo dinamismo, ora declinanti lungo la scala cromatica dei toni più tenui e languidamente poetici. In particolare, le Parti 2 e 5, nel primo cd, le Parti 7, 9 , 13 e 15 nel secondo cd, appartengono a questo genere di composizione che sembra spiccare una ad una le note come dall'albero rigoglioso del concetto stesso di suono, e tramutarle in perle che tintinnino nel fondo di calici dorati. Nei brani più ritmati, invece, la solarità riacquistata da Jarrett, pare esplodere in colori raggianti di più fervida luce meridiana, qua e là venata di sfumature latino-americane, in omaggio alla terra nella quale il disco prende forma e consolida la sua sostanza poetica. Un disco che ci ammalia, invero: frutto metafisico di poesia e ricerca dell'estasi, seminagione luminosa scaturita dal cuore stesso della tenebra, passata attraverso il fuoco dell'umano dolore, per farsi alba e riconquistato lucore.
Rocco Sapuppo
ECM/Keith Jarrett Rio, Player
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