Se esiste una frontiera terrena per l’oltretomba, questa deve con molta probabilità trovarsi dalle parti dell’Islanda. Dopo le celestiali e paradisiache atmosfere dei Sigur Ros in cui voci angeliche ci introducevano dinnanzi al più candido cospetto divino, ora un’entità cupa e misteriosa si presenta per accompagnare musicalmente le anime dannate destinate agli inferi (e per esigenza di completezza si potrebbe menzionare Bjork in merito al purgatorio).
Se mai la vostra sentenza vi assegnerà un posto all’inferno, non scervellatevi cercando di capire chissà quali peccati terreni avete commesso; ne basta uno, secondo la filosofia dei Dead Skeletons: “Colui che teme la morte non può godere la vita”. Ribadito dallo slogan, che riassume il concept dell’album stesso, nell’iniziale Dead Mantra, e che è anche un po’ il manifesto della band, questo è l’unico peccato in grado di condannarci, perché vivere pienamente la nostra opportunità è l’unico modo per riscattare la nostra esistenza dal senso di inesorabilità. Un inferno concepito più come rimpianto che non eterno tormento. Dietro questo progetto c’è, e si fa sentire, lo zampino di Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre, che già aveva pubblicato per la propria etichetta il primo ep dell’esordio di un anno fa. Nonni Dead, Henrik Björnsson e Ryan Carlson Van Kriedt i tre adepti del tempio della morte, hanno materializzato il loro oggetto di culto da quello che inizialmente era stato solo un progetto virtuale, ma che in breve tempo ha ottenuto un inaspettato consenso prima in rete e ora con questo loro esordio full-lenght.
Affrontare un disco come “Dead Magick” richiede un po’ di tempo, non solo quello relativo alla durata delle 12 tracce, ma preventivando anche quello necessario a riprendersi, che è ben più lungo. I brani che si strutturano su ritmi tribali, suoni pulsanti, e drones ipnotici ripetuti ossessivamente, dal sapore Kraut-e-delico, suonano appunto come dei mantra capaci di impossessarsi non solo dell’attenzione di colui che ascolta. A questo tipo di cose assai pericolose, è bene assuefarsi a piccole dosi, perché potenzialmente capaci di rivoltare il nostro presunto equilibrio mentale. Come ogni medicina, è la posologia che può trasformare il suo effetto benefico in veleno. Ben poche cose si avvicinano al concetto di “experienced” da cui Hendrix ci metteva in guardia. Questo disco suona più come un viaggio, un’esperienza appunto, che trascende la realtà, col rischio di non ritrovarla più come l’avevamo lasciata. Un risveglio atavico in un’atmosfera magica e inquietante, pervasa di neo-goticismo evocato nei tratti di un dark sound in stile Bauhaus, Banshees, Sisters of Mercy, come nel caso di Live! Lif-u!, ma con quello sguardo mistico rivolto a oriente, di tanta della psichedelia della fine degli anni ’60, come in Yama o nella shoegazing Ask Seek Knock. Fino all’epilogo di Dead Magick ii che come un buco nero ingurgita ogni materia, luce e coscienza per proiettarsi in un nuovo processo esistenziale in qualche altra bolla di universo; perché ormai lo abbiamo imparato: la morte non deve più preoccuparci.
Federico Porta
Dead Skeletons
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