oscuro della nostra storia musicale) e per oltre un lustro furono accomunate dalla musica pop (il termine progressive fu coniato molti anni dopo per identificare tutto quel genere musicale attivo nella prima metà degli anni ’70). Se il Regno Unito bisogna assegnare la “medaglia d’oro” per quel che riguardava quel tipo di musica, noi eravamo subito dietro, una “medaglia d’argento” di tutto rispetto, che ben collocava l’Italia nel contesto musicale di quegli anni. Erano gli anni ’70, in Europa andavano per la maggiore gruppi come Genesis, Pink Floyd, Van der graaf generator e molti altri, i Beatles erano definitivamente alle spalle, e anche in Italia quel tipo di musica aveva monopolizzato il contesto generale. Nel periodo 1972-1974 la forbice (negli anni 50, con l’avvento del rock n’ roll in America e la canzone melodica nel nostro paese, raggiunse – forse – l’ampiezza più ampia),
che per anni separò musicalmente l’Italia dai paese anglosassoni, raggiunse il suo minimo storico, accomunando due mondi che sino ad un decennio prima erano lontanissimi. Sovente capitava che gruppi inglesi raggiungessero il successo prima da noi e poi in madrepatria (Van der graaf, Gentle Giant), e che alcuni di loro si ispirassero addirittura a gruppi italiani. A tal proposito Peter Hammil non ha mai negato di provare profonda ammirazione per il concept album “Felona e Sorona” delle Orme che tradusse anche in lingua inglese per la Charisma. Di conseguenza, la nascente musica pop trovò ben presto terreno fertile nel Bel Paese, permettendo una fioritura di gruppi e artisti sul tutto il territorio nazionale. Volendo sintetizzare al massimo, e dando una schedatura piuttosto rigida per semplificare le cose, possiamo dire che i gruppi italiani si dividevano in tre categorie: quelli che ottenevano successo, quelli che riuscivano ad arrivare al traguardo dell’ellepì (a volte ottenendo un briciolo di notorietà), e quelli che pubblicavano un solo 45 giri per poi entrare nell’oblio più totale. Il Museo Rosenbach lo possiamo classificare nella seconda categoria, avendo realizzato un solo – notevole – album, per poi eclissarsi, sparendo definitivamente dalle scene negli anni successivi, come tutto il movimento del pop italiano (anche se la stagione di successo del gruppo - se così la possiamo chiamare - durò appena due anni). Il Museo, proveniente da Bordighera, ha origine da due gruppi liguri, La Quinta Strada e Il Sistema (formazione minore che incise nel biennio 1969-1971 alcune registrazioni rimaste inedite sino al 1992) e inizialmente si fa chiamare Inaugurazione del Museo Rosenbach. La formazione del gruppo era la seguente: Stefano "Lupo" Galifi (voce), Enzo Merogno (chitarra, voce), Pit Corradi (tastiere), Alberto Moreno (basso, piano), Giancarlo Golzi (batteria, percussioni, voce). Inizialmente i nostri ripropongono in sede live rivisitazioni di classici del rock e del blues, dove una documentazione sonora è presente nell’album semi-ufficiale “Live 72”, registrato al Park Hotel di Bordighera nell’estate di quell’anno e pubblicato dalla onnipresente Mellow Records. Lì possiamo ascoltare, pur con tutti i limiti del caso per quel che riguarda la qualità sonora, un’esibizione dal vivo del Museo antecedente alla pubblicazione del loro unico disco, "Zarathustra". Nel cd sono presenti due tracce che poi confluiranno nel loro ellepi, Dell’eterno Ritorno e Della Natura, e un dilatato medley contenente le riletture di Season of the witch e It´s a man´s man´s world. Nello stesso anno il gruppo accorcerà definitivamente il nome in Museo Rosenbach e viene messo sotto contratto dalla Ricordi.
Come abbiamo già avuto modo di dire all’inizio, l’avventura della formazione fu brevissima. La prassi, nel decennio dei ’70, era che tutti i gruppi (la stragrande maggioranza a parte poche eccezioni) che suonavano musica pop fossero di ideologie politiche di sinistra, come e soprattutto - ad esempio - gli Area di Demetrio Stratos, che come molte altre formazioni avevano dei messaggi politici all’interno dei loro testi. In questo senso la scelta di andare controcorrente fu parecchio azzardata e rischiosa, che combinata al discorso filosofico del disco ("Zarathustra" infatti riprendeva le argomentazioni di Nietzsche riguardo la teoria del superuomo) portò l’opinione pubblica generale ad etichettare il gruppo come fascista. A tutto ciò si aggiunse l’emblematica e orrorifera copertina, nera, raffigurante un volto costruito con un collage di immagini: uccelli in volo su morbide colline, bambini impauriti, mani che stringono sbarre metalliche, un bottone, dei denti, e un busto di Mussolini posizionato sulla mandibola destra. Il retro se vogliamo è ancora più inquietante e spaventoso; presenta due braccia incrociate che risaltano sullo sfondo completamente pesto. Una è l’opposto dell’altra: la prima è l’emblema della forza, dei soldi e del potere, un braccio robusto – ornato da un’orologio d’oro e da un abito elegante - che è nell’atto di stritolare un uomo, l’altra è il simbolo del vizio, della debolezza, dell’autodistruzione, un braccio rachitico e bucato, stretto da un laccio emostatico, che sembra provare l’ultimo fatale piacere derivato dall’iniezione della droga. Va da sé che il busto del dittatore venne aggiunto in un secondo momento su un’idea del grafico, ma tutto ciò comportò ad un categorico un rifiuto della RAI e di altri organi addetti alla distribuzione. Nonostante la Ricordi promosse regolarmente il disco, tutto questo comportò un totale fallimento, ma come spesso accade il tempo darà ragione al lavoro della formazione di Bordighera, assegnando a “Zarathustra” un posto d’onore tra i lavori del progressive rock italiano ed europeo. Il disco è un susseguirsi di pathos, intrecci tastieristici, partiture energetiche di chitarra e liriche interessantissime. L’intera prima facciata del vinile è occupata dalla suite di 20 minuti che dà il titolo all’album, Zarathustra appunto, suddivisa in cinque movimenti: L'ultimo uomo, Il re di ieri, Aldilà del bene e del male, Superuomo e Il tempio delle clessidre.
L’inizio è totalmente in sordina: volumi bassi, atmosfere epiche e un crescendo di tastiere, mellotron e chitarre, portano l’ascoltatore alla seconda parte, che comincia con un delicato pianoforte che sembra provenire da chissà dove, lontano, distante. Il brano si apre con melodie dal fascino quasi leggendario: tastiere oceaniche, tarantelle spiccatamente prog e la caratteristica voce di Galifi ci accompagnano a quello che per chi scrive è l’apice e il cuore del disco, l’accoppiata Aldilà del bene e del male/Superuomo. Qui troviamo cambi di tempo, cori epici, un tono di grandiosità, chitarre hard, emozioni a raffica e un cantato giustamente enfatico che porta alla frase cult del disco “Ecco nasce in me, vivo il Superuomo”. Tastiere roboanti e travolgenti - dall’elevato tasso prog - a tratti marcianti, colpiscono nel segno lasciando un’impronta indelebile nel cuore e nelle orecchie dell’ascoltatore. Chiude la suite la quinta e ultima parte, Il tempio delle clessidre, un’epopea sonora verso il termine della facciata, verso l’ultimo solco del vinile, verso quella gloria che il gruppo non ha mai avuto durante i suoi pochissimi anni di attività. Quasi un inno al successo postumo, ottenuto tra gli appassionati di progressive di tutto il mondo. Una conclusione degna ed enfatica quale fu Ritorno al nulla, dal ben più famoso disco delle Orme “Felona e Sorona”.
Il secondo lato del disco riserva altre tre canzoni indubbiamente interessanti: Degli uomini, con il suo incedere tipicamente anglosassone e gli appassionati - e appassionanti - intrecci di chitarra e tastiere, Della natura, ampio brano di oltre otto minuti con molteplici atmosfere variegate, ricche all’inverosimile di energia, potenza, seduzione – con un finale portentoso, solenne - e Dell'eterno ritorno, degna conclusione di un disco bellissimo.
“Zarathustra” non portò il Museo da nessuna parte, se non allo scioglimento; le vendite, come già scritto in precedenza, furono scarsissime e per vent’anni non si seppe più nulla di questa formazione di culto, come del resto anche per l’intero movimento del prog italiano, relegato ad un ruolo marginale durante tutti gli anni ‘80 e i primi ’90. Solo Giancarlo Golzi entrò in pianta stabile nei Matia Bazar, riscuotendo i successi che tutti conosciamo. Solo di recente, nel 2000, il gruppo con una formazione rinnovata ha pubblicato un nuovo album, “Exit”, e Stefano Galifi con Il tempio delle clessidre, ha recentemente risuonato in sede live l’intero storico disco del 1973.
Massimiliano Bruno
* Zarathustra (1973, BMG Records)
* Live '72 (1992, Mellow Records)
* Rare and unreleased (1992, Mellow Records)
* Rarities (1992, Mellow Records)
* Exit (2000, Carisch)
* Fiore Di Vendetta (The Flower of Revenge) in “Kalevala” (2004, Musea)
1 commento:
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