domenica 23 gennaio 2011

JAZZ-ROCK - "A Story - First Part": Miles Davis, Herbie Hancock, Weather Report, Chick Corea, Return To Forever, Chicago, Blood Sweat & Tears, If

Gli albori, Miles Davis
Nel 1973 facevo seconda liceo, mi piaceva l'hard rock (allora i Deep Purple e i Led Zeppelin erano etichettati così) e i Beatles, mentre ero piuttosto scettico sui Rolling Stones. Di jazz e dintorni, manco parlarne. All'epoca l'argomento ‘musica’ in classe era piuttosto popolare e un compagno insistette finchè non accettai in prestito “Hymn of the 7th Galaxy” di Chick Corea. Fu la prima esperienza con il jazz-rock, un genere allora nuovo, anche controverso (i ‘puristi’ del jazz non l'hanno mai mandato giù) ma del quale sono rimasto subito innamorato, anche se quella stagione è durata poco, man mano che la creatività dei ‘prime movers’è andata scemando. Non è per fare una micro-biografia di chi scrive che racconto questo aneddoto, ma per arrivare ad una definizione sensata del genere del quale ci stiamo occupando: non poteva trattarsi di un semplice trasferimento di strumenti elettrici o elettronici nel jazz ‘canonico’, altrimenti un orecchio come il mio non l'avrebbe digerito.
Non era così, si trattava di una vera e propria contaminazione tra generi, c'era dentro il rock, ma anche la musica nera, il blues, il funk, la musica etnica, anche l'avanguardia in alcuni casi. Possiamo fissare l'inizio del fenomeno alla fine degli anni '60, quando Miles Davis pubblicò l'acclamato “In a Silent Way” e, poco dopo, il seminale doppio album “Bitches Brew”. Ma era un periodo di grande fermento, durante il quale uscivano anche “Chicago Transit Authority”, l'album omonimo dei Blood, Sweat & Tears, “Hot Rats” di Frank Zappa, dall'altra parte dell'Atlantico i primi dischi degli If, quelli dei Nucleus.
“Bitches Brew” fu un successo di pubblico da più di 500.000 copie vendute, anche se alcuni critici e musicisti pensarono che l'album avesse oltrepassato i confini del jazz, o addirittura che non fosse jazz per niente.
Date un'occhiata alla splendida copertina in puro stile afro di Abdul Mati Klarwein: niente di simile alle minimaliste copertine dei dischi di jazz, con i faccioni dei musicisti e via.
In Pharaoh's Dance (da “Bitches Brew” di Miles Davis): c'è dentro tutto quello che dicevamo sopra, alla massima potenza.
Poi date un'occhiata alla formazione: oltre al nostro naturalmente alla tromba ci sono tutta una serie di musicisti che faranno la storia del jazz-rock: Wayne Shorter e Joe Zawinul, poi nei Weather Report, Lenny White e Chick Corea, protagonisti dell'album che citavo all'inizio, e John McLaughlin, il micidiale chitarrista inglese che, con il violinista ex-Flock Jerry Goodman, Ian Hammer fondò la Mahavishnu Orchestra; assolutamente essenziale la loro opera prima "Inner Mounting Flame" (1971) . Tutta gente di cui parleremo diffusamente nel corso di questa disamina.
Davis non tornò più indietro, continuando, con alterne vicende, sulla strada aperta con i due dischi sopra citati. Mi piace ricordare con Black Satin, l'altro capolavoro "On The Corner”, datato 1972 ed all'epoca massacrato dalla critica, salvo poi a distanza di decenni venire riabilitato. In effetti si tratta di un lavoro al confine tra jazz ultramoderno, funk e avanguardia, in cui, su un ipnotico tappeto ritmico di basso, batteria e percussioni, si innestano le lunghe improvvisazioni dei solisti. Ancora una volta il cast dei musicisti chiamati all'opera è assolutamente ‘all stars’: confermati i partecipanti di “Bitches Brew”, va citato il sitar elettrico di Colin Walcott (Oregon) e, soprattutto, il piano elettrico e il synth di Herbie Hancock, che, nel frattempo, perseguiva gli stessi obiettivi con i suoi Head Hunters.

Herbie Hancock, Head Hunters
Stiamo parlando di un'altra delle leggende del jazz, autore di ‘standards’ del calibro di “Maiden Voyage” (dove già utilizzava il piano elettrico) e “Watermelon Man”, autentiche pietre miliari del jazz degli anni '60, periodo durante il quale aveva già collaborato con Davis nel famoso quintetto con Ron Carter al basso, Tony Williams alla batteria e Wayne Shorter al sassofono.
“Head Hunters” è anche il titolo dell'album del 1973, che contiene questa Sly , il cui titolo cita, non casualmente, uno degli eroi del funk, Sly Stone. L'andamento del pezzo evidenzia lo splendido tocco del pianista sul Fender Rhodes e la spiccata attitudine funk della formazione, in cui figuravano Bennie Maupin ai sassofoni, Paul Jackson al basso elettrico, Bill Summers alle percussioni e Harvey Mason alla batteria, ma che non dimentica, in particolare con l'assolo di Maupin, di pagare il dovuto tributo al free jazz.


Weather Report

Per rimanere nel ‘difficile’ ecco uno dei miei dischi preferiti: “I Sing The Body Electric”, dei Weather Report, uno dei gruppi più giustamente apprezzato nel genere e loro seconda opera, dopo il già ottimo primo album omonimo.
L'album fu registrato parte in studio (il primo lato si diceva in quegli anni!) e in parte dal vivo in Giappone. Il gruppo si muove nella direzione tracciata da Miles Davis, ma il suono è più frenetico, violento, a tratti distorto. Un ascolto impegnativo, insomma, ma di grande soddisfazione. Vi propongo il primo pezzo del lato B, quello dal vivo: si tratta di un medley dei pezzi Vertical Invader, TH - Dr. Honoris Causa .
Stupefacente, in particolare, è l'assolo di sax con il wah-wah (!) di un irriconoscibile Wayne Shorter. Oltre a lui, la formazione comprendeva il geniale Joe Zawinul alle tastiere, il funambolico Miroslav Vitous al basso (acustico!) e la potentissima coppia Eric Gravatt (batteria) e Dom Um Romao (percussioni).
Dopo questo capolavoro, il gruppo ha sfornato almeno altre due pietre miliari: “Sweetnighter” e “Mysterious Traveller”, suonati dalla stessa formazione, con l'inserimento di un altro pezzo da novanta, il bassista Alphonso Johnson, al posto del forse troppo ‘mainstream’ Miroslav Vitous, nel secondo album. Rispetto a “I Sing...”, i dischi in questione sono più digeribili, con una forte connotazione funky e qualche richiamo etnico, una delle impronte di Joe Zawinul. Ecco un brano per ognuno dei due album, si tratta di Boogie Woogie Waltz, dal primo e Cucumber Slumber, dal secondo, due pezzi dall'irresistibile groove, tipici del suono del gruppo a quell'epoca, che da essi viene illustrato meglio che da mille parole.
Dopo l'uscita dei due dischi citati, a mio parere, la parabola delle ‘Previsioni del Tempo’ ha iniziato una progressiva discesa. Per come la vedo io, consapevole di enunciare un teorema assai poco condiviso, neanche l'arrivo del bassista di origine brasiliana Jaco Pastorius, peraltro un innovatore della tecnica strumentale e un personaggio degno di ogni stima, ha potuto mascherare l'affievolirsi della vena creativa. Non posso tuttavia non citare come la critica (quella 'vera'), certifichi come miglior album dei nostri il vendutissimo “Black Market”, del 1976.

Chick Corea, Return To Forever
Prima di affrontare una branca del genere più vicina al rock, vi parlerò di un musicista che, come ho detto all'inizio, mi ha aperto le porte del jazz-rock: si tratta di Armando ‘Chick’ Corea. Nato nel 1941, statunitense, tastierista, il nostro frequenta, durante i ‘roaring 60's il jazz latino, influenza molto evidente nel suo stile pianistico e compositivo, pubblica almeno un album di grandissima qualità, l'acclamato “Now He Sings, Now He Sobs”, con un quintetto ‘all stars’ di cui fanno parte Roy Haines, grande batterista e, guarda caso, Miroslav Vitous.
Verso la fine del decennio entra nell'entourage di Miles Davis (ancora lui!) sperimentando gli strumenti elettroacustici e si avvicina al free jazz, facendo parte del gruppo Circle in compagnia di ‘estremisti’ come il sassofonista Anthony Braxton, il batterista Barry Altschul e il bassista Dave Holland (un altro del giro di Davis).
Nel 1971 inizia l'epopea del suo gruppo Return To Forever, una delle formazioni che diedero inizio allo sviluppo del jazz-rock. Inizialmente i componenti erano, oltre a Corea, un giovanissimo Stanley Clarke al basso, Tony Williams alla batteria, Joe Farrell al flauto e sassofono, il percussionista brasiliano Airto Moreira e la vocalist Flora Purim, moglie e connazionale di quest'ultimo. Con questa formazione il gruppo pubblica due album, il primo omonimo e il secondo chiamato “Light As A Feather”, entrambi usciti durante il 1972. L'influenza della musica brasiliana e ispanoamericana, vista la presenza di Airto e Flora Purim, è notevole: si tratta, in ogni caso di lavori ancora molto più vicini al jazz che non al rock. Meritevoli di attenzione, nel secondo album, sono due pezzi, diventati classici della produzione di Chick, e cioè Spain e 500 Miles High.
Dopo questi due album l'attitudine del gruppo cambia radicalmente, assieme alla formazione: via i due brasiliani e Tony Williams, arrivano Bill Connors, alla chitarra rigorosamente elettrica e Lenny White alla batteria, presente con Corea nelle sessions di “Bitches Brew” e quindi già avvezzo a certe sonorità. Con questa line-up, nel 1973, il gruppo pubblica “Hymn Of The 7th Galaxy”. Si tratta di uno dei dischi ‘simbolo’ del jazz-rock, nei quali si incontrano la perizia strumentale e le complesse strutture del jazz colto con sonorità elettriche, spesso distorte, tipiche del rock. Notevole è il contributo dello slapped bass di Stanley Clarke, tra i primi ad utilizzare massicciamente questo stile, che farà scuola. Per inciso, il buon Stanley non riuscirà mai a mettere a frutto l'immensa abilità nei suoi lavori solisti, tutti di scarso interesse per i non bassisti.
Ho reperito questa versione del 2008, suonata però dalla band originale, del primo pezzo del disco, dallo stesso titolo, Hymn Of The 7th Galaxy. Ancora una volta, la musica è più eloquente di mille parole. Tra l'altro, la versione in questione è assolutamente simile all'originale del 1973, segno che i ‘ragazzi’ non hanno perso affatto lo smalto...
L'anno dopo esce “Where Have I Known You Before”.
Rispetto all'album precedente, cambia il chitarrista: infatti Bill Connors abbandona il gruppo per dedicarsi a progetti solisti acustici, e al suo posto arriva il giovanissimo (19enne) enfant prodige Al DiMeola, un autentico virtuoso della chitarra, sia acustica che elettrica, i cui solo sono in primo piano nell'economia dell'album. I pezzi sono divisi da brevi ‘solo piano’ acustici di Corea, ma il sound si fa ancora più elettrico rispetto al disco precedente, raggiungendo, a mio parere, il vertice qualitativo della produzione del gruppo. Da questo disco ho scelto Song To The Pharoah Kings, l'ultimo pezzo, che parte con un intro strumentale del solo Corea e prosegue a ritmo di bossa-nova con gli assolo dei vari componenti. Un'emozionante cavalcata sonora, in sostanza un capolavoro. Sentite le due parti e godetevela: Part 1 , Part 2. La carriera di Chick Corea è proseguita con alterne fortune fino ai giorni nostri, ma personalmente, non credo abbia più toccato i vertici a cui arrivò nel periodo di cui abbiamo parlato.


Chicago, Blood Sweat & Tears, If
Facciamo adesso una piccola digressione, per occuparci di alcune formazioni che si situano ‘lateralmente’ rispetto alla, chiamiamola così, ortodossia jazz-rock. Sono convinto che esistano alcuni gruppi e artisti classificati espressamente ‘rock’, le cui opere possano invece a buon diritto vantare parentele anche strette con il jazz. Non ho la presunzione di farne un elenco esaustivo, mi limito a tre suggestioni, riservandomi eventualmente di trattarne più esaustivamente in altra occasione.
Prendiamo, per esempio i Chicago, una big band vera e propria, in grado, almeno per i primi due monumentali doppi LP, risalenti al 1969 e '70, di coniugare il rigore jazzistico delle sezioni di fiati e degli assolo di questi ultimi, con il violento quanto virtuoso chitarrismo heavy e la voce roca del compianto Terry Kath. Sentitevi questa Introduction, uno dei loro capolavori.
Discorso simile vale per i Blood, Sweat & Tears, attivi fin dal 1967 con una formazione nella quale militavano, tra gli altri, Al Kooper, chitarrista bianco dedito al blues, un certo Michael Brecker, sassofonista di cui parleremo più tardi, ma nella quale, nel tempo si sono succeduti jazzisti di vaglia come il trombonista Lew Soloff, il chitarrista Mike Stern e addirittura il povero Jaco Pastorius. La produzione dei nostri ha oscillato, a seconda dei componenti della band, tra il blues, il soul e il jazz, quindi possiamo dire che fa senz'altro al caso nostro. Uno dei loro hits più famosi, e giustamente, è questa Spinning Wheel cantata dal magnifico David Clayton-Thomas. Ascoltate il lavoro della sezione fiati: in questo caso parlare di ‘fusion’, l'altro nome utilizzato per identificare il jazz-rock, è obbligatorio.
Attraversiamo l'Atlantico, ora, e interessiamoci di un gruppo assolutamente misconosciuto, che invece meriterebbe molta più attenzione, gli If. Attiva dal 1969 al 1975, si trattava di una formazione a sette elementi, abbastanza strana, visto che comprendeva una sezione di fiati composta da due sassofoni, il che le dava un suono piuttosto peculiare.
Il gruppo era capitanato da due tra i migliori esponenti della scena jazz del Regno Unito, Dick Morrisey, al sax e al flauto e Terry Smith, alla chitarra. Quest'ultimo abbandonò la band nel 1973, quando le pagine migliori erano già state scritte, dopo la pubblicazione di quattro album, intitolati con poca fantasia "1, 2, 3 e 4". In compenso il suono del gruppo era abbastanza originale, come testimoniano queste splendide Fibonacci's Number, dal terzo LP e The Promised Land, dal primo. Qualcuno etichettò gli If come ‘progressive jazz-rock'.
Luca Sanna

2 commenti:

Johnson57 ha detto...

Bellissima ed esauriente (per quanto possibile) cavalcata attraverso il periodo del Jazz-Rock. Anche la scelta dei brani è ottima, anche se per "Where have I know you before" avrei scelto "Vulcan Words", secondo me il pezzo in assoluto più rappresentativo del genere.
Complimenti, Luca Sanna
G.G.

Johnson57 ha detto...

Un ottimo refresh di un genere divertente che ha aiutato molti (me, per esempio) ad avvicinarsi al Jazz in tutte le sue forme. Ottima anche la scelta dei pezzi, anche se, a proposito di "Where have I known you before" avrei scelto "Vulcan words", secondo me in assoluto il brano più rappresentativo del genere insieme a "Up on it" di George Duke in "From me to you"
Complimenti, Luca Sanna