Le dimensioni soniche
Lou Reed è invaghito da sempre del rock, della sua quintessenza prettamente chitarristica, non è un mistero: tutti gli elementi della dimensione sonica dell’icona ‘chitarra’, distorsione, feedback, rumore hanno esercitato ed esercitano ancora su di lui un fascino assolutamente totale, sin dai primi due album dei Velvet Underground; episodi come Run run run, European son, I heard her call my name ne fanno fede a distanza di più di 40 anni. Nella sua lunga carriera solista questa monomania è andata crescendo esponenzialmente, raggiungendo i suoi vertici negli anni ’90, in opere come “Set the twilight reeling” (1996), “Ecstasy” (2000) , “The Raven” (2003), “Animal serenade" (live, 2004), dove ha messo a frutto attraverso performance sempre più consistenti - anche nei concerti - i suoi studi sull’effettistica, sui pick-up e sulle dinamiche, arrivando addirittura a definire dei modelli unici personalizzati, che riproducono i suoni perversi e sghembi che ossessionano la sua mente. Si è sempre circondato nel corso degli anni di chitarristi mai scontati e dallo stile penetrante come Robert Quine e Mike Rathke. Non si dimentichi che classici senza tempo e seminali come “Berlin” (1973) ma soprattutto “Rock and roll animal” (1974) sono passati alla storia anche grazie alla presenza di due inarrivabili maestri del manico hard come Steve Hunter e Dick Wagner, che immortalarono in quei solchi (allora questo termine aveva ancora un senso) soli monumentali dai fraseggi lussuriosi.
Non deve quindi in fondo meravigliare i suoi fan ‘storici’, i Reed-dipendenti di ogni età e gli osservatori meno di parte, che per la sua nuova opera “Lulu” l’artista abbia voluto accanto a sé delle icone del metal contemporaneo come i Metallica, esponendosi senza esitare alle clamorose (e forse previste) reazioni controverse che questa scelta sta provocando, oltre che nel pubblico, tra gli addetti ai lavori rock del cartaceo e della rete, attraverso un tam tam che non si vedeva da un po’ di tempo a questa parte. Questa operazione, questa partnership artistica che a molti è risultata stramba se non contro natura, sembrerebbe comunque non rispondere ad alcuna strategia di mercato e di etichette, come magari qualcuno avrà supposto: Lou Reed ha espressamente voluto Kirk Hammett, James Hetfield e c. e non altri – come Steve Hunter in “Berlin” ed Hunter/Wagner in “Rock and roll animal” - per materializzare sonicamente la sua torbida e matura rivisitazione rock, attraverso l’eroina Lulu, delle decadenti tragedie gemelle scritte dal tedesco Frank Wedekind nel 1904 - “Lo spirito della terra” e “Il vaso di Pandora” – e con loro ha stabilito (sempre ‘sembrerebbe’) un saldo legame umano-artistico. Se visionate i video registrati al Madison Square Garden in occasione del 25th Anniversary Rock and Roll Hall of Fame del 2009, nei quali i losangeleni rivisitano ‘pesantemente’ insieme a Lou alcuni alltime classic dei Velvet come Sweet Jane , White light white heat (oltre che coverizzare i Nirvana di Aneurysm), li vedrete scambiarsi sguardi di complicità e alla fine abbracciarsi con larghi sorrisi soddisfatti.
E’ praticamente così che è nata la loro collaborazione. Il metal seriale e martellante espresso dai cinque è parso a Reed l’unico idoneo a forgiare quella cornice drammatica contemporanea che gli serviva per disquisire sulle vicende altrettanto drammatiche, tutto sommato molto attuali di Lulu? E’ molto probabile: a pensarci bene si tratta del crudo corrispettivo terzo millennio del cavalleresco hard di Rock and roll animal, e il discorso non fa una grinza. Ecco perchè, anche se a essere pericolosamente sfidata è l’idiosincrasia dei più o meno tenaci soggetti no-metal (come chi scrive) verso i Metallica, a secondo, terzo ascolto si riesce un po’ di più – e non coattamente - ad avvicinarsi ed essere meno intolleranti verso sezioni di “Lulu” che a un primissimo approccio lasciano interdetti e colpiti abbastanza negativamente: l’apice è nei sette minuti oppressivi e quasi insopportabili di Mistress Dread, nei quali la voce salmodiante di Lou Reed lotta per non essere sopraffatta dal bombardamento degli spietati metal drones dei Metallica. Anche in The View (5:17), Frustration (8:33), Cheat on me (11:26), Iced Honey (4:36) il procedimento è identico: Reed appoggiandosi sulle implacabili partiture drones di Hetfield & c. più che cantare (lo fa poco veramente nell’arco dell’opera) imbastisce delle salmodie ‘recto tono’, dei recitativi attraverso i quali si addentra e sviscera i fatti mutuati dalle due tragedie di Wedekind. Non siamo tuttavia alle prese con l’approccio freddo, distaccato, impersonale con il quale Reed commentava le vicende di Caroline e Jim in “Berlin”: qui il cronista appare molto più partecipativo, i toni dell’affabulazione si alternano con grande varietà, drammatici, fragili, spaventati, rassegnati.
Ma quella metal non è assolutamente l’unica dimensione sonica di “Lulu”: Lou Reed, il deus ex machina dell’operazione, ancora una volta coerentemente con l’estremo, straordinario eclettismo artistico che ha caratterizzato sin ad oggi la sua carriera, sviluppa le due parti che compongono il lavoro su diversi piani sonori, e bisogna dare atto ai Metallica di averlo coadiuvato in maniera ottimale; Cheat on me, Little dog (8:01), Pumping Blood (7:24), Dragon (11:08) sono lunghe sezioni vivificate, in alternanza ai frequenti assalti metal che le attraversano, da un respiro quasi sperimentale, le anguste regole del rock rivoltate come un calzino, squartate e ricomposte seguendo la non-logica dei cut-up burroghsiani. La band deframmenta riff e drones, rincorrendo affannosamente i sussulti recitativi del primo attore, spesso cede abbandonando la mera missione di soundtrack ai fatti esposti, lasciandosi andare a splendidi fremiti noise e di feedback minimale, a mezze frasi monche, a strappi free percussionistici improvvisi e violenti. Chi conosce bene Lou Reed sa che anche con noise e feedback lui flirta (come Neil Young) da sempre, e che li ha ‘usati’come provocazione estrema in passato: l’impossibile, estremo, cacofonico “Metal Machine Music” (1975) è stato riproposto indefessamente nel 2007 in “Metal Machine Music: Live at the Berlin Opera House” (solo una stellina ciascuna in allmusic.com). Anche “Berlin” del resto fu replicato con “Berlin: Live at St. Ann's Warehouse" nel 2008, in uno psicotico, lucido processo di corsi e ricorsi.
Non basta (Lucarelli docet): che a Reed piaccia sperimentare e invadere altri territori fu chiaro sin da quel “The Bells” del 1979, dove chiamò il free jazz-ethno trumpeter Don Cherry a impreziosire il brano omonimo. Nel 2007 infine, 30 anni dopo e in contrapposizione netta a “M.M.M.” esplora nello strumentale “Lou Reed’s Inner Spaces”, coprodotto con Hal Willner, un’insospettabile side ambient-meditativo-spirituale, frutto dei suoi 65 anni. Tornando a “Lulu”, non sono solo le chitarre le protagoniste: un terzo piano sonoro è giocato sugli electronics di Sarth Calhoun, diluiti nel generale magma sonoro, e in primo luogo sulla sezione degli archi, tre violini, due viole e un cello che interviene in momenti diversi della narrazione, conferendo al tutto un respiro ancora più ampio e indefinito. Quella per gli archi è un’altra ossessione dell’universo reediano, che discende direttamente dalle strategie oblique e sadiche della viola di John Cale nei Velvet, e che negli ultimi anni si è materializzata nella figura e nel mirabile lavoro al cello di Jane Scarpantoni, soprattutto in “The Raven” e “Animal serenade”. L’incredibile epilogo finale di “Lulu”, Junior Dad, quasi 20 minuti, è una tragedia – quella della senilità - nella tragedia, consumata nel talking accorato e sconsolato dell’(appunto) anziano artista e uomo Lou Reed che si confronta con sé stesso e inevitabilmente con la morte: uno Street Hassle del terzo millennio dilatato a dismisura, definitivo, diluito in un mood onirico e (paradossalmente) placentale; verso il decimo minuto le chitarre tacciono completamente e gli archi, cresciuti con discrezione, la viola di Jessica Troy in primo piano, salgono algidamente in primissimo piano, sommergendo gradualmente tutto in un morbido, mortale afflato minimale. Ecco, tutte le componenti soniche storiche dell’artista Reed sono contenute in “Lulu”, asservite al dramma di Wedekind: è un tutt’uno inscindibile, non è possibile separarle dalla storia che raccontano e giudicarle criticamente a parte, in positivo o in negativo. Il lavoro di cucitura e di ricomposizione che si delinea alla base si rivela alla fine titanico, a cominciare dal concept-design di David Turner: il busto-manichino Lulu senza braccia ormai già famoso. Le foto di Reed con i Metallica per l’album packaging sono di Anton Corbjin, artista che non ha bisogno di presentazioni.
Il concept
Lou Reed nel 2010 viene chiamato dal regista teatrale Robert Wilson quale consulente musicale e compositore per uno spettacolo che sta allestendo a Berlino, tratto dalle due tragedie complementari “Lo spirito della terra” e “Il vaso di Pandora” d’inizio novecento, del drammaturgo tedesco Frank Wedekind: da quella collaborazione Reed trae materiale musicale e lirico per mettere in piedi un album-concept, cui decide di dare il nome della protagonista. Era già successo nel 1997: lavora con Wilson a “Poetry”, tratto dai racconti di Edgar Allan Poe, ma poi decide, con ambizione, di farne un monumento sonoro allo scrittore americano, e nasce “The Raven”, molto più enigmatico ed ermetico di questo “Lulu”, anche per la presenza di lunghi brani recitati da famosi attori famosi teatrali e cinematografici (Willem Dafoe, Steve Buscemi, Fisher Stevens, Amanda Plummer, Elizabeth Ashley). Ennesima cartina al tornasole quindi dell’estrema coerenza del nostro la passione ‘letteraria’ che sta alla base di Lulu, un’altra magnifica ossessione nata negli anni 60 nell’ambiente newyorkese, prima che il nostro entrasse nell’organico dei Velvet Underground, quando studiava con il poeta Delmore Schwartz. Furono giorni essenziali per la formazione estetica del giovane Lou: le liriche che avrebbe scritto di lì a poco per alcuni brani dei Velvet – e in seguito durante la sua carriera solista - avrebbero risentito di questa fondamentale ‘educazione sentimentale’ letteraria, che si nutriva delle opere di maestri della controcultura americana come Hubert Selby, Jr. e William S. Burroughs. Ma Lulu fa parte dei ‘corsi e ricorsi’ di Reed anche per un’altra ragione, l’attrazione per la cultura decadente mitteleuropea, quella tedesca in particolare: la storia decadente di Caroline e Jim del 1973 si svolge a Berlino, quella tragica di Lulu inizia in questa stessa città (Brandeburg Gate) e lì si sviluppa prima di passare in Francia a Parigi. Come in “Berlin” anche in Lulu la protagonista è una donna che paga sino in fondo una fame inesauribile di libertà dai condizionamenti sociali - in via di decadenza - e di conoscenza del ‘wild side’ dell’esistenza: Caroline si suicida lasciando Jim in preda a ricordi strazianti, Lulu è uccisa da Jack lo Squartatore dopo una sfrenata vita sessuale; le loro esistenze dissolute sono molto simili, glaciali tutte e due nella poetica ‘maledetta’ di Reed: l ‘ice queen’ Caroline, l’Iced Honey Lulu.
Infine: un concept album “Lulu” come lo erano “Berlin” e “The Raven”. Chi volesse approfondire tutta la storia che ruota attorno a “Lulu” può consultare il Lou Reed Official Site italiano, che ha fatto e sta facendo davvero un ottimo lavoro per sviscerarla, pubblicando tra l’altro tutti i testi in originale e tradotti: sarebbe necessario leggerli e seguirli contemporaneamente all’ascolto se si volesse andare a fondo del tutto, a prescindere dalla valutazione soggettiva su questo lavoro.
Pasquale ‘Wally’ Boffoli
Foto di Anton Corbjin
Lou Reed
LouReed/Metallica/Lulu
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