E’ del 2004 una compilation dal titolo "The Sound of San Francisco" (Alive Records) che documentava una fervente scena musicale di stampo garage-noise, nella città dello stato più popolato d’America. Tra i vari gruppi in essa contenuti figuravano i Coachwhips di John Dwyer che, l'anno seguente, si sarebbe ripresentato con un nuovo progetto dal nome di Thee Oh Sees, in un’altra raccolta, altrettanto interessante: "In A Cloud: New Sounds from San Francisco" (Seven Records). Questa volta i toni molto più pacati orientano questo volume verso un jangle-pop acido e sbilenco. Su questa stessa raccolta comparivano già i contributi di nomi come Ty Segall, Sonny & the Sunsets, Tim Cohen o i Sandwitches, tra gli altri.
Le canzoni ivi presenti, accomunate da un approccio stralunato alla ballata tipicamente folk, pur mantenendo un’attitudine lo-fi, se vogliamo propriamente garage punk, erano decisamente fuori dagli stilemi del rock’n’roll che ha sempre contraddistinto il garage per definizione. Così come è sempre successo per il rock, quando la formula sembra ben collaudata e la lezione è stata appresa da tutti, qualcuno volge lo sguardo altrove e il gioco si reinventa; un nuovo punto di partenza, rende tutto improvvisamente più stimolante. Mentre nel resto degli states i Black Lips stavano già ricevendo consensi di pubblico per il loro debutto omonimo a colpi di “flower-punk”, di lì a poco altri gruppi come Smith Westerns, Strange Boys, Girls, i Traditional Fools o le Best Coast, avrebbero riaffrescato la scena punk underground con spruzzate di country, surf, folk sottoforma di tanto dissonanti, quanto melodiose canzonette pop in chiave lo-fi. Di tutta la scena nascente i Thee Oh Sees continuano ad essere quelli più capaci di spiazzare piacevolmente l’ascoltatore. Più nervosi e psicotici coniugano l’immediatezza del pop in maniera quasi sperimentale, quando non addirittura rumorista. Nell’arco di sei anni, si son dati da fare sfornando con quest'ultimo ben 7 album effettivi più vari live e raccolte. Il fragore freak-pop che li ha sempre distinti, in "Castlemania" ne approfitta per darsi una ripulita fondendosi con un certo gusto retro-british. Un po’ più di accuratezza riguardo ai suoni, anche le chitarre acustiche trovano il loro spazio, e qualche arrangiamento più “mirato”: non compromettono di certo il loro consueto e dissacrante sarcasmo. Come da titolo ci guidano in itinerari immaginari tra boschi abitati da folletti e castelli medievali entro cui, varcate le mura di cinta, ci è dato modo di assistere ai cerimoniali dei cortigiani festosi sotto l’effetto di intrugli allucinogeni e dove sicuramente i Thee Oh Sees stanno assolvendo al loro compito di giullari intrattenitori. E visto che tanto in questo momento i “nobili” son troppo fuori per accorgersi di quello che sta succedendo John e soci ci danno dentro senza farsi troppi problemi di forma, e intenti a denudare il Re. La natura astratta di queste 16 tracce, raccoglie l’eco (più nelle melodie che nella struttura) della psichedelia folk di Donovan, Blossom Toes, Troggs, Guess Who, riassumendola in maniera meno dilatata e visionaria ma più immediata e scanzonata. Se i Monty Python fossero un gruppo punk suonerebbero come "Castlemania".
Le canzoni ivi presenti, accomunate da un approccio stralunato alla ballata tipicamente folk, pur mantenendo un’attitudine lo-fi, se vogliamo propriamente garage punk, erano decisamente fuori dagli stilemi del rock’n’roll che ha sempre contraddistinto il garage per definizione. Così come è sempre successo per il rock, quando la formula sembra ben collaudata e la lezione è stata appresa da tutti, qualcuno volge lo sguardo altrove e il gioco si reinventa; un nuovo punto di partenza, rende tutto improvvisamente più stimolante. Mentre nel resto degli states i Black Lips stavano già ricevendo consensi di pubblico per il loro debutto omonimo a colpi di “flower-punk”, di lì a poco altri gruppi come Smith Westerns, Strange Boys, Girls, i Traditional Fools o le Best Coast, avrebbero riaffrescato la scena punk underground con spruzzate di country, surf, folk sottoforma di tanto dissonanti, quanto melodiose canzonette pop in chiave lo-fi. Di tutta la scena nascente i Thee Oh Sees continuano ad essere quelli più capaci di spiazzare piacevolmente l’ascoltatore. Più nervosi e psicotici coniugano l’immediatezza del pop in maniera quasi sperimentale, quando non addirittura rumorista. Nell’arco di sei anni, si son dati da fare sfornando con quest'ultimo ben 7 album effettivi più vari live e raccolte. Il fragore freak-pop che li ha sempre distinti, in "Castlemania" ne approfitta per darsi una ripulita fondendosi con un certo gusto retro-british. Un po’ più di accuratezza riguardo ai suoni, anche le chitarre acustiche trovano il loro spazio, e qualche arrangiamento più “mirato”: non compromettono di certo il loro consueto e dissacrante sarcasmo. Come da titolo ci guidano in itinerari immaginari tra boschi abitati da folletti e castelli medievali entro cui, varcate le mura di cinta, ci è dato modo di assistere ai cerimoniali dei cortigiani festosi sotto l’effetto di intrugli allucinogeni e dove sicuramente i Thee Oh Sees stanno assolvendo al loro compito di giullari intrattenitori. E visto che tanto in questo momento i “nobili” son troppo fuori per accorgersi di quello che sta succedendo John e soci ci danno dentro senza farsi troppi problemi di forma, e intenti a denudare il Re. La natura astratta di queste 16 tracce, raccoglie l’eco (più nelle melodie che nella struttura) della psichedelia folk di Donovan, Blossom Toes, Troggs, Guess Who, riassumendola in maniera meno dilatata e visionaria ma più immediata e scanzonata. Se i Monty Python fossero un gruppo punk suonerebbero come "Castlemania".
Federico Porta
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