Titolo bianco-anzi-bianchissimo e copertina nera-anzi-nerissima per il secondo disco dei Velvet Underground. E’ l’ insegna della clinica newyorkese dove il rock ‘n roll degli anni Sessanta viene ricoverato nel 1968 per uscirne cadavere. Non prima di venire seviziato, torturato e amputato a dovere. “The Velvet Underground and Nico” era stato un suicidio commerciale. “White Light/White Heat“ ha tutta l’ aria di essere un suicidio e basta. Perché è un disco altrettanto violento ed oltraggioso ma
stavolta è orfano di qualsiasi patrocinio “di classe”: Andy Warhol e Nico hanno accompagnato la barella fino al corridoio della sala operatoria, poi hanno abbandonato l’ ospedale lasciando l’ equipe dei dott. Cale e Reed libera di tormentare quel corpo agonizzante. "White Light/White Heat" è un abominio di crudeltà. Liriche e musicali. Speed, chirurgia transgenica, decapitazioni, drag queens, pompini, omicidi, sborrate, sangue. Non manca niente della “poetica” Reediana dentro questo disco che è un abuso alle orecchie vergini degli adolescenti dei Sixties. Una roba da voltastomaco che costringerà Cary Kellgren a chiudersi in bagno a vomitare al terzo minuto e mezzo di Sister Ray, lasciando la band nell’ anarchia per altri quattordici minuti, con le manopole girate al massimo, l’ organo stuprato dalla distorsione e nessun’ ombra di basso. Nessuna regola. Perché non si registrerà nessun’ altra take per quel pezzo. Ognuno faccia ciò che vuole. Ognuno per sé e per nessun altro. Perché loro sono i Velvet Underground, non i Tre Moschettieri.
E’ un disco che richiede fegato e volumi altissimi malgrado nessun moccioso figlio di puttana potrà mai ascoltarlo se non con i potenziometri al minimo quando a casa girano mamma e papà. Perché qui non c’ è I want to hold your hands ma un branco di marinai che abusano di otto trans e ne fanno a pezzi qualcuna. E neppure quando
l’ impianto hi-fi di casa è spento sanno bene dove nasconderla quella cazzo di copertina nera come il veleno, in mezzo a quella discoteca casalinga piena dei colori abbaglianti dell’ estate dell’ amore e dell’ iridescente beat anglosassone. John Cale ha lasciato a casa la viola e sul nuovo album si diverte a massacrare tastiere e basso o a cantare impassibile alcune delle liriche più bizzarre di Reed come The Gift, macabramente ispirata a The Lottery di Shirley Jackson o l’ operazione chirurgica di Lady Godiva ‘s Operation. Tutto (ad eccezione della brevissima Here she comes now che taglia idealmente in due il disco) è hard qui dentro: linguaggio e musica sono le cose più devastanti e oltraggiose che l’ America possa tollerare all’ epoca. Provate a sentire l’ assolo di chitarra che squarcia la carne di I heard call my name, il basso tridimensionale e free di Cale sulla coda della title-track, la tastiera mastodontica che sommerge come un immenso schizzo di sperma il corpo sfatto di Sister Ray, il disgustoso impasto di chitarre che cola su uno dei due canali stereo di The Gift mentre John Cale racconta con la flemma di un imbonitore televisivo la storia carica di humour nero di un improbabile “regalo” giunto alla fidanzata di un tal Waldo Jeffreis: cos’ altro
c’ è di così morbosamente eccessivo e pesante in quel 1968 che doveva essere
l’ alba del nuovo mondo e che invece è l’ anticamera dell’ abisso? Buona immersione. L’ ossigeno nelle bombole è quasi terminato. Ho paura che stavolta dobbiate fare senza.
Franco Lys Dimauro
The Velvet Underground
2 commenti:
bellissima! Antonio
Bella recensione, complimenti!
zac
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