Leslie Feist, canadese trentacinquenne proveniente dal collettivo Broken Social Scene che già ha contribuito a fornire elementi di spicco dell’indie-rock degli ultimi anni (Jason Collet, Emily Haines e gli Zeus) arriva al suo quarto disco dopo l’esplosione mondiale di "Let it die" del 2004 e la successiva conferma del bellissimo "The Reminder" del 2006. Ora, a distanza di quattro anni,
Leslie ritorna con un disco prodotto da Valgeir Sigurdsson già collaboratore di Bjork.La prima sensazione che ti arriva ascoltandolo è strana, contraddittoria, come se il disco fosse diviso in due parti. La prima, sembra caratterizzata da parti più ritmiche e di ampio respiro sorrette da cori ed archi come in brani quali Graveyard con il suo incedere solenne aperto dall’accoppiata chitarra e voce o A commotion dove gli archi forniscono una notevole spinta dalla cadenza blues, oppure l’iniziale gospel di The bad in each other. Il fatto che una parte del disco sia stata composta e registrata nella parte più letteraria della West Coast, quella Big Sug che sicuramente ha contagiato la nostra nella stesura di testi che potrebbero essere dei racconti a sé stanti, fatti per essere oggetto di reading accompagnati da melodie esili e delicate come nel primo singolo estratto How come you never go there così come nella eterea Caught a long wind, contribuisce a dare un’aria di solennità a questa parte che lentamente sembra sfumare per confluire, senza traumi, nella successiva. Questa, risulta più oscura, lenta: sembra basare le sue fondamenta su pilastri scarni ed essenziali ma dalla sensibilità profonda con brani quali Anti Pioneer dal sapore trip-hop ed anche nello scarno blues di Comfort me, mentre la commovente Get it wrong get it right marca nel terreno la degna chiusura di un'opera che rasenta la perfezione.
Feist si conferma una delle migliori songwriters degli anni zero, sensualmente intrigante con quella sua tonalità calda sospesa tra passato e presente, tradizione e avant-garde con incursioni che vanno da Kate Bush a PJ Harvey, da Joni Mitchell a Joan as Policewoman e Cat Power ad ideale chiusura di un cerchio tra passato e presente. Sono passati quattro anni da "The reminder", le atmosfere si sono rarefatte e rallentate, quasi a respingere le convulsioni e le pressioni di un mondo esterno che l’ha vista protagonista delle copertine fashion di mezzo mondo con quella sua bellezza spigolosa ed eterea al tempo stesso, come una giovane Patty Smith dell’indie-glamour. Ma Feist dimostra che ha saputo trovare la sua giusta collocazione come cantautrice in bilico tra la sicurezza e l’incertezza del suo stato emotivo, regalandoci così uno dei dischi dell’anno, un must have per le giornate grigie e tempestose di tutti noi con la pioggia nel cuore ed un raggio di sole nell’anima.
Ubaldo Tarantino
Feist
Polydor
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