Un amore di gioventù, i Waterboys, tornano con un lavoro con cui flirtavano da anni: un disco in cui mettono in musica le poesie di Yeats, sommo poeta irlandese. La delusione è in agguato e il disco non parte bene, l'iniziale The hosting of the shee è un tarantellone roboante, ridondante di fiati, che rimanda alle pagine meno ispirate del combat rock anni '80.
Per fortuna l'atmosfera cambia subito e già dal secondo brano Song of wandering Aengus Mike Scott ritrova la forma migliore. Una splendida ballata dove Mike si dedica al piano elettrico e un lungo assolo di flauto impreziosisce il tutto. In questo disco la voce di Scott perde certi accenti dylaniani che aveva nei primi dischi e acquista una teatralità che ricorda Marc Almond o un altro grande irlandese, Gavin Friday. La vena compositiva è fresca e Scott lascia ampio spazio ai solisti, Steve Wickham, violino (unico membro d'epoca), Kate St John, fiati (già collaboratrice di Julian Cope e Roger Eno) e Sarah Allen, flauto. In alcune canzoni Katie Kim è la seconda voce. Le ballate si alternano ai brani più epici come Sweet dancer. Strumenti dominanti sono le tastiere, organo, piano elettrico e mellotron, suonate dal leader: i brani sono piuttosto lunghi tranne il breve sketch Before the world was made. La miscela di folk, rock sanguigno e progressive che aveva caratterizzato il periodo migliore del gruppo irlandese torna a rivivere con canzoni vibranti come September 1913 e White birds. Un ritorno convincente, paragonandolo a quelli di altre vecchie glorie tiriamo un sospiro di sollievo.
Alfredo Sgarlato
Waterboys
Nessun commento:
Posta un commento