Il miracolo si materializza nella promessa fatta dall’improbabile manager Ottavio Miranda, colui che si dice abbia prestato la pistola del suicidio a Luigi Tenco, di far passare da Jato, sia pure per una breve apparizione il Duka, subito dopo la sua esibizione palermitana; ecco allora che si mette in moto un inarrestabile meccanismo che coinvolgerà tutto il paese, dal sindaco Sciortino, preoccupato per la sua rielezione, a Don Rocchè, prete che conosce le cose del mondo, al barbiere Mimì, la gola profonda del paese, ai due fratelli Scotti, in lite mortale fra loro, uno, Pino impegnato nella scommessa di ingentilire il vino siciliano con tecniche e vitigni nuovi, l’altro, Rosario, musicista giramondo giunto in paese per la morte del padre, tenta l’impresa disperata di rimettere in piedi una banda che possa essere degna di accogliere il grande Duke Ellington.
La storia si sviluppa in un susseguirsi di colpi di scena e di alti e bassi nei quali verranno coinvolti i numerosi personaggi di questo romanzo corale con un ritmo narrativo che Vittorio Bongiorno saprà tenere sempre brioso e trascinante, con costanti riferimenti musicali, dal beat italiano al rock psichedelico ad ovviamente i brani di Duke Ellington a formare una vera colonna sonora per chi legge il libro.
Il romanzo del resto nasce da un soggetto cinematografico, vincitore nel 2003 del Premio Sacher, ed è un esplicito omaggio al capolavoro di Landis “The Blues Brothers”, ne riprende in parte la trama, ne omaggia la musica, ma soprattutto ne salva lo spirito: la voglia di giocarsi tutto per un grande sogno. E quel 1970 fu certamente un momento in cui ancora i grandi sogni sembravano possibili, "Ma cu minchia è ‘stu Duka?" è la domanda ricorrente che, fra l’ironico e il disincantato, la gente di Jato si fa, "Ma comu minchia è possibile qui a Palermo?" era la domanda che noi giovani palermitani ci facevamo increduli e meravigliati man mano che sulla stampa locale leggevamo le notizie sul festival che sarebbe avvenuto lì a poche centinaia di metri da casa nostra su quel campo dove facevamo il tifo per Tanino Troja e ora avremmo visto il Duka, Aretha Franklin, Brian Auger, Arthur Brown e forse perfino i Led Zeppelin. E’ proprio questo senso di stupore e di ingenuità, che di lì a poco sarebbe finito, che “Il Duka in Sicilia” riesce a restituire:
"Dice che a Palermo, invece, in quello stesso momento c’era l’inferno; la notte era illuminata dalle mille luci di un evento unico, che era cominciato nel pomeriggio e aveva richiamato una decina di migliaia di picciotti sul prato della Favorita ... Dice che (Aretha Franklin) si era anche seduta al piano per un po’, sfiorando la tastiera per accompagnarsi in alcuni blues storici, poi aveva ripreso posto in prima fila sul palco in un finale da piangere. Poi era scappata via, mentre il gruppo di neri continuava a suonare, e si era infilata nel camerino, sudatissima, inghiottita dalla notte. Nessuno l’aveva più rivista".
Parafrasando la prosa di Vittorio Bongiorno dice che “Il Duka in Sicilia” è innanzitutto una bella storia raccontata con vivacità, ritmo e ironia, che ti restituisce il senso di un’epoca e di una musica che ancora oggi a distanza di più di quaranta anni ci fa battere il cuore:
"Mio padre era un appassionato di lirica, e diceva che la musica si divide in due: lirica e jazz. Nella musica moderna, tutto ciò che non è lirica, è jazz. Questo secondo lui. E in qualche modo è vero. Perciò, forza, attacchiamo. Amuni’…".
Ignazio Gulotta
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