giovedì 17 febbraio 2011

THE CURE Story - " First Part" : Gli Inizi, Three Imaginary Boys, Boys Don't Cry, Seventeen Seconds, Faith

Gli inizi

Come accade sovente è la scuola il posto giusto, la palestra dove impari a riconoscere gli spiriti affini, le anime che possono condividere i tuoi stessi sogni oppure i tuoi incubi. Un setaccio naturale di giovani vite. Per Robert Smith quel setaccio è la scuola media Notre Dame di Crawley, nel Sussex occidentale. Lui ha solo tredici anni, le altre anime appena qualche mese più di lui. Decidono di condividere sia i sogni che gli incubi, nell’ unico modo che l’ adolescenza ti regala: mettendo su una band. Suonano qualche pezzo di Bowie, qualche irriconoscibile brandello di Hendrix, qualche pezzo della Alex Harvey Sensational Band, stranite versioni di classici del beat. Stanno chiusi in cantina rinnovando formazione, nome e repertorio. Gli Obelisk diventano Malice, poi Easy Cure (unica testimonianza, un anonimo singoletto che vede alla 'voce' un improbabile postino locale). Infine The Cure. Di tanto in tanto aprono la finestra dello scantinato e si accorgono che ogni volta là fuori non è mai lo stesso. Ci sono vestiti sempre più eccentrici, acconciature sempre più disordinate, un avanzare di scarponi che corrono. Non è la Terza Guerra Mondiale ma è come se lo fosse.

Three Imaginary Boys (Fiction, 1979), Boys Don't Cry (1980, Elektra)

Robert Smith si innamora del punk sbarazzino dei Buzzcocks e soprattutto dell’ estro pop di Elvis Costello che diventa il suo modello, tanto da comprare una chitarra identica alla sua cui potersi aggrappare durante i primi timidi concerti. Smith, Laurence Tolhurst e Michael Dempsey mettono a fuoco il loro stile essenziale, ben delineato dalla copertina del loro primo album che inaugura il lunghissimo sodalizio con la Fiction interrotto solo venticinque anni più tardi.
Un frigorifero, una piantana, un aspirapolvere: "Three Imaginary Boys".
L’ immagine da salici piangenti dei Cure è ancora tutta da costruire e il disco viene avvolto in questa copertina pop voluta da Chris Parry dove tutto viene lasciato all’ immaginazione, perfino il titolo delle canzoni. Che spesso sono solo embrioni, abbozzi, schizzi scomposti di pezzi che tutti dimenticheranno in fretta (Meathook, So What, la cover di Foxy Lady) o che sono diverse opinioni su un’ unica idea (le 'gemelle Object e
It ‘s not you). Un disco da cui la band non si sente rappresentata e del quale si vendica parzialmente l’ anno successivo, in occasione della stampa americana del disco:
"Boys don’ t cry" ne fu la versione riveduta e corretta che in parte guarì la delusione di Robert Smith per una scaletta, quella del disco di debutto, che non lo soddisfaceva in pieno già a poche settimane dall’ uscita sul mercato. E io non mi sentii di dargli torto, ne’ allora ne’ dopo: "Boys don ‘t cry", architettato per ficcarci dentro i tre singoli (Killing an Arab, 6 Febbraio ‘79, Boys don ‘t cry, 12 Giugno ’79 e Jumping Someone Else ‘s Train, 20 Novembre 1979) e sdoganare la band in America è una spanna sopra l’ album originale. Dentro c’ è già il “carattere” della band seppure manchino i “tratti distintivi” (diciamo pure i cliché) di quello che sarà il suono dei Cure negli anni immediatamente successivi e poi, tra bilanciamenti e aggiustamenti vari, svolte repentine e improvvisi flashback, lungo una carriera ormai più che trentennale.
Ci sono già dentro le idee che frullano nella mente di Robert Smith e che i Cure recupereranno e approfondiranno col tempo: Three Imaginary Boys ha questa chitarra “molle”, annegata nel delay, che caratterizzerà il suono chitarristico di Smith per la famosa “trilogia” dark, la prepotente marcia di World War (successivamente esclusa, assieme ad Object, dalla versione CD, NdLYS) è invece, in tutto e per tutto, il prototipo hard su cui i Cure scriveranno la Shake Dog Shake che segnerà il loro ritorno al rock dopo le divagazioni dance di The Walk e "Japanese Whispers". Il romanticismo funereo e onirico tipico di molta scrittura di Robert alita invece su Another Day, perla melodrammatica del disco. Ma l’ appeal dell’ album, così come la musica dei primi Cure, si poggia su altre coordinate: c’ è innanzi tutto un minimalismo quasi osceno, figlio non tanto del punk che li ha appena attraversati ma del glam rock di Bowie e di Marc Bolan, riveduto in chiave decadente e surrealista e che genera piccoli mostri come 10:15 Saturday Night, Grindig Halt ed Object.Ci sono richiami alla letteratura colta di Camus che fanno di Killing an Arab uno dei singoli più scomodi della storia della musica contemporanea (i Cure saranno costretti a tenerla fuori dai concerti dopo l’ 11 Settembre 2001 salvo poi ripresentarla sotto il titolo di Kissing an Arab, NdLYS).
C’ è il gusto noir non ancora raffinato che qui produce il jazz-horror con tanto di atroce urlo finale di Subway Song, ci sono i tratti vagamente medio-orientali che si muovono in tracce come Accuracy, Fire in Cairo e, soprattutto Killing an Arab (e che daranno il via, soprattutto in ambito wave italiana, a una serie infinita di richiami alle musiche di origine araba) e c’ è la chitarra di Robert Smith, essenziale ma totalmente innovativa, a tratteggiare un suono imitatissimo ma inimitato e che negli anni diventerà ancora più ricercato e personale. Ma soprattutto, quello che c’ è qui e che non ci sarà in nessun altro album dei Cure è un suono adolescenziale, ancora poco scalfito dal dolore (spesso simulato ed estetizzato fino al parossismo ma altre volte vissuto in tutta la sua atroce disperazione) eppure imbevuto di un esistenzialismo pateticamente votato all’ autocommiserazione.

Seventeen Seconds (1980, Elektra)

Seventeen Seconds è il primo vertice del triangolo delle Bermude in cui i Cure vengono risucchiati all’ alba degli anni Ottanta e da cui usciranno con un autentico e sorprendente guizzo da delfini alla fine del 1982. Il più minimale e impalpabile album dei Cure esce nell’ Aprile del 1980. Un autentico disco di transizione dal suono secco e asciutto di "Three imaginary boys" a quello scuro e claustrofobico di "Faith", un disco sfocato come l’ immagine di copertina dove le idee sembrano afflitte da un senso di incompiutezza creativa accentuata dalle complicazioni economiche e logistiche che ne ridurranno ulteriormente lo sviluppo come nel caso limite di The Final Sound concepita come traccia lunghissima e ridotta paradossalmente a un abbozzo che non tocca neanche il minuto di durata a causa della banale interruzione della bobina analogica su cui Mike Hedges sta registrando la musica della band.
"Seventeen Seconds" è invaso da soffi di aria gelida, scrosci di pioggia, gocce di condensa che avvolgono la voce di Robert, letteralmente soffocata dagli strumenti, fino a diventare eterea ed impercettibile (Secrets).
Ad accentuare il senso di alienazione contribuisce pure Lol Tholurst che utilizza la batteria senza alterazioni, battendo metronomicamente cassa e rullante come una drum machine. I pezzi però sono perlopiù inconcludenti reiterazioni su idee banali
(In your house), furbe rimasticature su modelli già usati (Play for today ricalca lo schema di Jumping someone else ‘s train), volgari siparietti horror (A reflection, Three,
17 Seconds
). Unico pezzo memorabile e imperituro rimane la corsa affannosa di
A forest, incalzante e tetra fuga attraverso il nulla sottolineata dal basso rutilante di Simon Gallup e dalle tenebrose note di synth dell’ altro nuovo acquisto Matthieu Hartley fino al finale destinato a diventare un classico archetipo del nuovo suono dei Cure e di tutto l’ immaginario gotico dei primi anni Ottanta. ("M")

Faith (1981, Elektra)

L’ impressione è che qualcosa stia per succedere, anche se non è ancora chiaro cosa. Tuttavia basteranno pochi mesi per scoprirlo. Poche, decise, angoscianti note di basso. E quando, al rintocco di campana che introduce la batteria, ti accorgi che difficilmente uscirai vivo da quel mulinello di acque blu petrolio è già troppo tardi: sei sprofondato in quel pozzo angoscioso che è la musica dei Cure del biennio 1981/1982. Se Seventeen Seconds, a un passo dalla balbuzie adolescenziale di Boys Don ‘t Cry lasciava presagire una svolta dai toni decadenti, nessuno si aspettava che ergessero una cattedrale gotica come quella di "Faith", versione dark e romantica del "Back in Black" degli AC/DC uscito l’ anno precedente. Anche là delle campane a morto, per celebrare l’ ingresso all’ Inferno di Bon Scott. Quelle che invece qui risuonano fino all’ ultimo secondo di The Holy Hour accompagnano l’ ultimo viaggio di Ian Curtis. Un’ assenza che pesa come un macigno sulla produzione inglese di quegli anni e che in tanti sentono di dover esorcizzare.
New Order, U2, Josef K, Orchestral Manouvres in the Dark, Durutti Column. Ma i Cure superano tutti. I Cure prendono l’ 'helter skelter' per il nulla assieme a Ian. Perché è così che suona The Holy Hour, con quel suono liquido di chitarra che Robert ha iniziato a sperimentare, la batteria asciutta, meccanica, quel giro di basso che è un collasso del miocardio: una scivola vorticosa e lunghissima che tutti percorrono una sola volta, e senza divertirsi granchè. Ma non è l’ unica canzone che i Cure scrivono con il ricordo di Ian impresso come uno stampo a caldo.
Primary, il pezzo che la segue, nasce ancora prima, col titolo sperimentale di Cold Colours, proprio come omaggio a Ian. Ma è solo ora che diventa il colosso che è rimasto. I Cure in comune accordo con l’ etichetta la scelgono come singolo e la portano in giro per il mondo, fino all’ Australia. Qui sono ospiti di Countdown, sulla rete ABC. Devono suonare in playback. E Gallup se ne esce fuori con l’ idea di allentare le corde del basso simulando con le dita un’ immersione dentro uno stagno piuttosto che una coerente mimica da bass-player. Anche su disco Simon è al massimo della forma. Ha un ego fortissimo, capace di non piegarsi al carisma di Robert Smith e un basso a sei corde che spesso sostituisce del tutto la chitarra del leader. All cats are grey e soprattutto The Funeral Party sono ballate plumbee e incolori, distese glaciali dove la lentezza sembra veicolata da un’ astenia parossistica certamente memore dei mari artici dei Joy Division di The Eternal.
Un’ angoscia che torna prepotente sulle ultime due lunghe ed esanimi tracce del disco dove l’ acqua torna alta e minacciosa, ad occluderti le vie respiratorie.
"Faith", come il disco che lo seguirà, è una scatola vuota dove è rimasta solo qualche piccolissima molecola di ossigeno. Ti costringe all’ apnea e allo stordimento. E’ il prezzo da pagare per uscirne fuori vivo. Di certo non felice, ma vivo.

Franco Lys Dimauro

TheCureOfficialWebsite

1 commento:

Anonimo ha detto...

Una favola per raccontare una favola...incredibilmente appassionante. grazie.

Federica Porta