Eccoci al ritorno delle Vivian Girls dopo meno di due anni dal precedente e acclamato “Everything Goes Wrong". Certo, in questo periodo le tre ragazze di Brooklyn non se ne sono state con le mani in mano e tra progetti paralleli come The Babies, Best Coast e La sera (quest’ultimo passato recentemente anche da noi) e cambi di formazione (la batterista Ali Koehler sostituita da Fiona Campbell), hanno trovato il tempo di firmare per la Polyvinyl, etichetta già di gruppi quali Of Montreal, Joan of Arc e Architecture in Helsinki. Il terzo lavoro della band appare più articolato e complesso dei due predecessori, quasi a volersi staccare dalla schiera di girls band quali Dum Dum Girls, Best Coast, o Screaming Females, abbandonando quindi un po’ quell’attitudine noise-punk e shoegaze, che dava l’impressione di vederle più a proprio agio, per un accattivante (almeno sembrerebbe nelle intenzioni) dream-pop divertente ed estivo, ancora caratterizzato da cadenze garage e che risulta essere ripulito rispetto a quanto accadeva in precedenza. Infatti, come si intuisce già dall’iniziale The other girls della durata di oltre sei minuti (con un assolo di chitarra che non si capisce bene dove vada a parare, quasi fosse un primo esperimento di quel genere all’interno di un loro pezzo, con la batteria e il basso, ridotti all’osso, ad accompagnare non riuscendo pero' a sollevarlo da una certa piattezza nonostante il progressivo crescendo), sembra quasi che le ragazze abbiano preso i loro classici ritmi e li abbiano abbassati di giri (anche se quà e là fa capolino l’esuberanza dei lavori passati, come in Sixteen Ways o Dance (if you wanna), dalle reminiscenze alla Jesus and Mary Chain) e ora guardino con più interesse ai suoni delle girlie band degli anni ‘60, come in Take it as it it comes con l’interessante intro parlato di Cassie o nel singolo I heard you say . Non mancano gli episodi in stile shoegaze, come Vanishing Of Time ma, anche qui, il motore sembra sempre tenuto al minimo, senza far decollare il disco. In Death, Cassie Ramone si cimenta anche in un refrain in pieno stile del suo ben più conosciuto omonimo Joey (“I wanna wanna wanna stay alive”), nel quale i riferimenti sono più che evidenti (ma, il paragone risulta, francamente, improponibile). Il lavoro si conclude poi come era iniziato, con un brano come Light in your eyes dai vaghi richiami alla Velvet Underground, anch’esso molto lungo, che accresce il senso di perplessità sulle intenzioni delle nostre. Insomma, una virata su sonorità più pop che non mancherà di far trovare ai loro vecchi fan diversi episodi convincenti, nonché l’idea di un gruppo che non ha paura di ampliare lo spettro delle sue sonorità: anche se il passaggio non sembra del tutto riuscito, come se il bersaglio fosse stato, anche se di poco, mancato, lasciando l’idea di un buon disco che poco aggiunge alle qualità della band.
Ubaldo Tarantino
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