Tim Hecker, canadese di Vancouver, presenta “Ravedeath, 1972”, sesto album della sua decennale produzione, il terzo inciso per la prestigiosa etichetta Kranky a sette anni di distanza da quel capolavoro che è stato “Radio Amor” (2003). La musica di Tim Hecker è sempre stata caratterizzata da un equilibrio molto fluido ed oscillante di elettronica, synth, drone e shoegaze, magistralmente bilanciata all’interno di strutture concettuali e sonore particolarmente complesse. Ogni lavoro di Hecker è legato ad un tema specifico. Se “Radio Amor” (2003) svela le leggi dell’equilibrio precario e “An Imaginary Country” (2009) racconta le regioni immaginarie della mente, questo “Ravedeath, 1972” è dedicato invece totalmente alle forme fisiche del decadimento. Ogni sostanza degrada, ogni corpo possiede una emissione sonora che tende a deteriorarsi nel tempo, a spegnersi in conseguenza dell’invecchiamento, a ridursi a rumore entropico. Ogni corpo si disfa, ogni oggetto perde nel tempo la sua capacità di funzionare, diventando scarto, rifiuto. Anche le sonorità diventano spazzatura. Questa di Hecker non è solo una architettura concettuale. Basta vedere la copertina dell’album per comprendere il senso di questa visione. Una foto in bianco e nero del 1972, in cui un gruppo di studenti americani è in procinto di eseguire il rituale del lancio di un pianoforte dal tetto di un palazzo. Quel gesto rappresenta la morte ed il disfacimento del suono (non solo simbolicamente).
Con The Piano Drop, primo brano dell’album, Hecker fornisce subito le coordinate del proprio lavoro: una sequenza pulsante e distorta di rumore, effetto del decadimento del suono originario. Le sonorità originarie sono registrazioni di un organo a canne eseguito in una chiesa di Reykjavik in Islanda, catturate nel corso di una giornata del 2010 dal compositore, ingegnere e produttore Ben Frost, sottoposte successivamente da Tim Hecker ad una serie complessa di trasformazioni ed alterazioni, quasi a volere sperimentare le leggi fisiche del caos, in cui l’entropia consegna ogni sostanza al proprio disfacimento. Il senso del decadimento si avverte soprattutto nella splendida suite In The Fog, forse il pezzo più intrigante di tutto l’album, in cui Hecker si diverte a ibridare il suono naturale, corrompendolo in una metamorfosi digitale che lo rende alla fine completamente irriconoscibile.
Il suono gelido dell’organo a canne si trasforma in una pulsazione dissonante ed entropica, completamente offuscata e corrosa. Il colore si trasforma in un grigio informe, i contorni appaiono vaghi e indistinti. Superato un provvisorio momento di quiete (No Drums), attraverso Hatred Of Music I ci si ritrova ad esplorare i confini più lontani del cosmo alla ricerca di quella radiazione di fondo anisotropa, che in realtà nasconde tra le sue pieghe aree di regolarità, isole di energia, zone di armonia. In Studio Suicide 1980 Hecker esplora invece i margini più estremi della mente, in una spirale pulsante e claustrofobica di inquietudini. L’album si conclude con un’altra splendida suite, In The Air I II III, brano che descrive la densità multiforme dell’aria nelle sue diverse stratificazioni, “musica per stati d’animo da 4:00 del mattino” come ebbe a definire lo stesso Hecker. "Ravedeath, 1972" è in definitiva una multiforme opera in cui il rumore diviene elemento “estetico” fondante, un opera certamente complessa ed affascinante, un lavoro assolutamente consigliato.
Felice Marotta
Kranky
Hatred Of Music I
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