Detroit, la Techno, Dirtbombs
Detroit, la città non solo dei motori, è stata almeno altrettanto famosa per il suo vivaio musicale e sia in passato che in tempi più recenti un importante riferimento. Ultimamente un documentario dal titolo
"It came from Detroit” ha rimestato tra le ceneri ancora ardenti di una scena classificata come
garage che in parte si è già relativamente fatta conoscere e il focolaio di un’altra più recente, che partendo con gli stessi presupposti incorpora elementi di
art-punk e
waves. Ma Detroit non è solo la
Rock City.

Non si può ignorare l’importanza che il suo contributo ha avuto in ambito
techno, quando a metà anni ’80 alcuni tra quelli che poi sono diventati tra i suoi principali iniziatori,
Derrick May, Kevin Saunderson, Juan Atkins, campionando suoni di
Italo-Disco, Electro-pop anni’80,
Kraftwerk e
Parliament, in perfetta attitudine DIY diedero origine alla dance music di
“scuola detroitiana”, poi ripresa negli anni a seguire ed evoluta da altri eredi come
Jeff Mills e
Carl Craig. A travalicare questi due mondi apparentemente distanti, ci pensa
“Party Store”, ultimo parto dei
Dirtbombs, band che sembra essere rimasto l’unico impegno di
Mick Collins, quando dai tempi dei
Gories ha fatto perdere il conto di tutte le sue collaborazioni e progetti paralleli.
La capacità di questo gruppo di masticare e digerire qualsiasi genere musicale è già stata dimostrata nel corso di una discografia, in cui oltre ad alcuni albums dedicati in modo specifico, alla
black-music, al
glam-rock (come Collins stesso aveva definito
“Dangerous Magical Noise” 
anche se qui si tratta perlopiù di composizioni originali che non di rifacimenti), spicca quella doppia raccolta
“If you don’t already have a look” (In The Red 2005) dove il contenuto recuperato da compilations e singoletti vari, viene diviso in due capitoli, uno dei quali interamente di covers. La scelta dei brani reinterpretati è alquanto bizzarra nella sua varietà: si va dai
Rolling Stones, Elliot Smith, Stevie Wonder, Gun Club, a
Yoko Ono, Soft Cell, Flipper, Bee Gees, Adult, e altro ancora.
Party Store
In
“Party Store” Mick Collins ha aggiornato il suo tributo alla musica afro-americana, contemplando in una sorta di percorso essenziale, almeno otto tra i brani più rappresentativi della
Detroit Techno. Di nuovo di black music si tratta, ma questa volta la sfida intrapresa dal gruppo è quella di decontestualizzare questi patterns dal loro ambiente originale e portarli in ambito più tradizionalmente rock e quanto più possibilmente ad una forma canzone.
In questo senso le due batterie della sezione ritmica si prestano maggiormente al gioco, passando un po’ in primo piano rispetto alla voce di Collins piuttosto assente nelle numerose suite strumentali. Su tutte si fa sicuramente notare, per la durata di 21 minuti abbondanti,
Bug in the bass bin che riprende in maniera dilatata l’originale di
Carl Craig (Innerzone Orchestra), special guest in questo stesso pezzo dal

carattere
space-jazz, corroso da feedback di chitarra. Ma proseguiamo con ordine. Il brano con cui, è il caso di dirlo, si aprono le danze è nientemeno che
Cosmic Cars dei
Cybotron, che verranno ripresi anche più avanti con
Alleys of your mind rispettivamente i due singoli di esordio del duo con
Juan Atkins. Entrambe interpretate con un cantato gutturale e una componente soul che, se non riesce a scaldare, quantomeno intiepidisce le fredde trame degli originali. In
Shari Vari la temperatura sale decisamente, e la mirror-ball che sovrasta la pista comincia a roteare su di un funky ipnotico, sebbene il mood sia più quello di una pausa drink che di un ballo sfrenato.

Non ancora per molto, perché dopo il pezzo che fu degli
A Number of Names arriva il riempi-pista
Good Life degli
Inner City di
Kevin Saunderson, in cui i
Dirtbombs non stupiscono più di tanto chi già li conosce, in quanto non sono nuovi a questo tipo di situazioni soulful. Decisamente più stucchevoli invece nella successiva
Strings of life di
Derrick May, altro strumentale rivisitato in versione garage art-punk, uno dei brani più interessanti che fa da preludio a
Jaguar (di
Dj Rolando) e
Tear the club up (
Dj Assault). Questi due pezzi sconfinanti in territori
P-Funk
riportano alla mente gli incastri di
Rapture, !!!, Radio 4 e i suoni della
DFA Records di
James Murphy che con i suoi
LCD Soundsystem aveva ben impressa la lezione degli anni ’80 di
New Order e
P.I.L., che in quegli stessi anni tentavano le prime contaminazioni tra dance, elettronica e rock.
E qui sembra chiudersi il cerchio anche se geograficamente da tutt’altra parte. Se in effetti il rischio di questo esperimento poteva essere quello di ritornare al punto di partenza, ovvero suonare come coloro che erano stati a sua volta i riferimenti

iniziali stessi, a conti fatti sembra che i due mondi riescano a convivere bene, tanto nella stessa città quanto in
“Party Store”. Ne scaturisce una prospettiva inedita, un circolo che nel suo ripetersi viaggia alla deriva perdendo il controllo nel suo inarrestabile incedere robotico, e che trova la sua estrema sintesi nella traccia conclusiva. Incognita a partire dal nome, titolato a caratteri giapponesi riporta la nota (
Detoroito Mix): qui non sono più i due mondi a sconfinare l’uno nell’altro ma un’asse in perfetto equilibrio, una nuova genesi.
Chissà se questo album dei
Dirtbombs riempirà più i clubs o i dancefloor: musicalmente non sarei riuscito ad immaginare un modo migliore per iniziare un nuovo decennio. Ancora lui,
Mick Collins.
Federico PortaIn The Red RecordsMidheaven
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