Liebezeit in questo storico album si inventa un drumming che io amo definire ‘circolare’, incessante e ripetitivo con soluzione di continuità solo dopo molti minuti di ritmo convulso e totalizzante. C’è da dire che i Can, a fronte dei gruppi tedeschi finora trattati ( Amon Duul, Tangerine Dream, Faust) sono i più ‘normali’. Nelle loro tessiture armoniche si intravede una qualche forma canzone addirittura orecchiabile e cantabile (anche se non proprio da sotto la doccia) ed un certo ordine costituito; per dirla shakespearianamente anche loro in realtà sono un po’ folli, ma nella loro follia c’è comunque un metodo. Il metodo forse proviene dalle frequentazioni colte di Irmin Schmidt (tastiere) e di Holger Czukay (basso) entrambi allievi di Stockhausen, ma più prosaicamente il metodo è anche quello di affidare a un non-cantante come il giapponese Damo Suzuki le parti vocali, sia quelle cantate, come nell’iniziale Paperhouse che quelle salmodianti come nel brano Oh yeah che sovrastano la ritmica da convoglio ferroviario di Liebezeit o come ancora quelle urlate e vocalizzate come nella lunga Peking O dove il nipponico gorgheggia strozzatamente sottolineato da un piano elettrico che rigurgita brevi accordi free (eccolo qui un po’ di jazz!) slegati e sincopati.
E se la canzone più ‘canzone’ la troviamo in chiusura dell’album nei quasi sette minuti della mielosa e arpeggiata Bring me coffee or tea punteggiata da piccoli svisi sottili di chitarra acustica che sottolineano il canto di Damo Suzuki, a smentire di colpo quanto detto prima sull’orecchiabilità dei Can, l’album straborda nella terza facciata (abbiate pazienza, questo è un viaggio vinilico) con la micidiale suite Aumgn (17:22) dove davvero la sperimentazione sale in cattedra bacchettando sulle dita ogni armonia conosciuta prima in un coacervo di rumori e suoni dominati dalla voce liturgica e sepolcrale di Suzuki che salmodia cavernosa da un improbabile oltretomba. Suite in cui il chitarrista Michael Karoli (morirà purtroppo nel 2001 a soli cinquantatre anni) si ricorda di quando imbracciava il banjo in piccoli club fumosi e lo estrae dalla sua polverosa custodia insieme a un vecchio violino (entrambi non accreditati in copertina) svisando insieme ai suoi sodali, nessuno escluso, che tra bassi pulsanti, chitarre sottili, vocalità cartoonesche e organi rumoristi e giocattolosi dettano le coordinate armoniche di questo concept sonoro, fino a che Jaki Liebezeit (sempre lui) dopo il lontano latrare di un cane se lo prende al guinzaglio conducendo la danza tribale fino alla conclusione del brano.
C’è anche da sottolineare che come in “Yeti” degli Amon Duul, anche in questo straordinario album la divisione in brani è solo un principio indicativo poiché tra una sezione musicale e l’altra la separazione è pressocché inesistente così come nell’altra suite Halleluwah (Part 1 - Part 2) (18.32) che vede ancora una volta la batteria ‘circolare’ di Liebezeit (ancora lui) splendida e instancabile protagonista a supportare l’ottimo chitarrismo longilineo e sfuggente di Karoli e le parti cantate di Suzuki.
Prima di “Tago Mago” i Can ci avevano allietato soprattutto con il primo album "Monster Movie" (1969) nel quale la lunga, mitica e seminale Yoo doo right (e mi piace segnalare la bella e insospettabile cover degli americani Thin white rope sull’album “Sack full of silver” del 1990) già gettava le basi di un minimalismo velvetiano che ritroviamo in diversi momenti di questo doppio album e che ancora, oltre ad altre opere di buon livello, troveremo nell’altro capolavoro "Future Days" del 1973. Nell’ascoltare in solitudine la magnifica, cantilenante e ripetitiva Mushroom, uno dei vertici di questo "Tago Mago" che termina con un paio di tuoni e uno scroscio di pioggia, si ha la certezza che la boscosa ricerca di funghi sia stata proficua; di quali funghi e di quali effetti essi abbiano avuto sulla composizione e l’esecuzione di quest’opera imprescindibile per chi desidera una pur minima conoscenza della musica alternativa teutonica non è dato sapere; prendiamola così: struggente, immaginifica, debordante, e poi scivolante, gustosa e saporita come un magico champignon sulla pizza mille stagioni del rock tedesco.
Maurizio Pupi Bracali
1 commento:
ricordo anche il brano metamars dei flaming lips (mi pare sia su in a priest driven ambulance) che di fatto è la cover di mushroom col testo cambiato
Posta un commento