Lasciatemi iniziare questa retrospettiva sui Thin White Rope affermando, senza tema di smentita, d'essere in presenza di una delle più grandi band della storia del rock e, contestualmente, tra le più colpevolmente misconosciute dell'intero firmamento, quantunque essi non abbiano mai cercato la ribalta, e anzi l'abbiano evitata con cura maniacale. Allora, l'operazione di tratteggiamento della loro augusta carriera ha del numinoso, poiché attiene a una sorta di recupero della loro opera dal mare magnum dell'oblio, in cui sono attratte come in un “Maelstrom” ferale anche le cose più grandi.
La loro storia di rock-band affonda le radici, malaticce anzichenò, in quel mirifico movimento cultural-musicale che ricevette la denominazione di Paisley Underground, termine coniato, pare, da Mike Guercio dei Three O'Clock, riecheggiante il nome di una nota linea alternativa di abbigliamento nella California degli anni '60. Movimento che ebbe come punti di riferimento musicale i magnifici Dream Syndicate di Steve Wynn, i Rain Parade di David Roback, i notevoli Green On Red, solo per fare alcuni nomi eccellenti, da cui, però, i Thin White Rope si premurarono di staccarsi quasi subito, quasi a voler stigmatizzare la loro volontà recisa di sfuggire a qualsiasi affiliazione, a qualsiasi, pur virtuoso, contesto più ampio di riferimento, che non la loro nuda e cruda creatività, non già per un gioco narcisistico di autoreferenzialità, ma solo per affermare, senza possibilità che essa venisse a essere corrotta o inficiata da impropri accostamenti di stile, una loro genuina, autentica originalità. Proprio il distacco dei Thin White Rope dalla suddetta scena californiana, che intanto cominciava a regalare un certo successo ai musicisti attorno a essa orbitanti, la dice lunga sul rapporto tra la band e l'establishment, sempre improntato a grande ripulsa verso il concetto di ricerca del successo, e verso la consequenziale rinuncia alla propria inalienabile autenticità creativa. La vicenda “terrena” dei Thin White Rope ha inizio nel 1984, quando il giovane Guy Kyser arriva a Davis, California, dopo un soggiorno nel deserto del Mojave, per iscriversi presso la locale università al corso di Geologia. Qui, incontra, e mai incontro fu più folgorante in ordine agli esiti di cui narreremo, Joe Becker, tra l'altro leader degli Alternative Learning. La loro amicizia fa germogliare anche un notevole sodalizio artistico che confluirà nel progetto Lazy Boys, insieme a Scott Miller, fido scudiero del summenzionato Becker. Siamo nel 1981. La band si esibisce dal vivo più volte nella prossima città di Sacramento e a San Francisco, riscuotendo una certa attenzione dagli addetti ai lavori. Nasce il primo nucleo di brani che poi confluirà nel grande repertorio dei Thin White Rope, Down in the desert, Disney girl su tutti. Nel 1982, Scott Miller lascia la band, presto seguito da Joe Becker (il quale tornerà, novello figliol prodigo, nel 1984) per andare a fondare i Game Theory. A Miller subentra Roger Kunkel. Potremmo definire questa fase artistica di Kyser e soci come un periodo di grande incubazione sonora di tutti i temi che verranno poi sviluppati ex integro entro l'alveo dell'esaltante e febbricosa esperienza dei Thin White Rope. Le loro esibizioni live di allora, soprattutto nei dintorni di Sacramento, pubs e pizzerie dai nomi più improbabili e deliranti ne sono proscenio adeguato: palesano un impasto di suoni ruvidi e abrasivi, cui fa da accompagnamento la voce “desertica” e ustoria di Kyser, una potente e singolare miscellanea di generi musicali che vanno dalle staffilate di matrice psichedelica al “western sound” di ascendenza morriconiana, venature di country, e blues scarnificato e dolente, rasoiate di garage-punk, rinviante a immagini di immense distese desertiche transverberate da un sole rovente e impietoso. Immagini che ben s'abbinano allo stile di vita cui subito assurge Guy Kyser, il quale vive, moderno anacoreta, in un motel ai margini del deserto californiano solcato, come da un vomere metafisico, dai binari della ferrovia. Ci vien facile pensare che, come nei migliori racconti di Carver, l'ipotesi che da quelle parti potesse transitare un treno purchessia si rivelasse del tutto illusoria! La band si compone di Guy Kyser, Roger Kunkel, Steven Tesluk e Frank French, già batterista dei True West. Il nome definitivamente adottato dalla band straripa nel “surreale”: Thin White Rope, dalla metafora esplicitamente sessuale (“la sottile corda bianca”, ovvero il percorso del liquido seminale...) estrapolata dal “Pasto Nudo” dell'incommensurabile William Burroughs. Siamo nel 1984, e ha inizio la leggenda della “guitar-band” più importante degli ultimi trent'anni.
Everybody's Been Burned
Exploring the Axis: il deserto come luogo dell'anima
Il 1985 è l'anno in cui vede la luce il primo album “Exploring the axis” (Frontier Records). Più che un tentativo di esplorazione nei desolati deserti del rock, con atmosfere come di raggi fiammeggianti su vaste distese di sabbia, o sequele di suoni artiglianti entro un concetto di rovente attraversamento di sterpaglie immaginarie, è l'urlo espressionistico tendente al nulla, significato dalla voce ustoria di Kyser, dalle chitarre avvinghiate in un cimento mortale, in un groviglio di gemiti elettrici, a impregnare di esalazioni sulfuree questo disco. Ci limiteremo qui a tratteggiarne i segmenti sonori più significativi, ai fini di una più agile fruizione delle nostre riflessioni. L'iniziale Down in the desert, sembra ribadire la “naturale” filiazione del gruppo da un'idea di deserto come categoria dello spirito, una pura immagine del nulla acquattata tra gli interstizi dell'anima martoriata e dolente. Il tappeto percussivo, al limite della nevrosi, la voce percorsa da vene di autentico delirio di Kyser, rendono il brano emblematico della cifra stilistica della band Disney girl ha l'andamento di flessuosa melanconia di una nenia psichedelica, una passeggiata per voce e chitarra distorta lunga la linea ferrata della mente, sommersa da un discreto strato di sabbia. Mentre, la traccia di una vertiginosa cavalcata, sotto i dardi infuocati di un sole estivo meridiano, ha la seconda parte di Soundtrack, con un crescendo frenetico dell'impasto tra le chitarre e la sezione ritmica, insospettabile solo ad ascoltarne il quieto preludiare. Un clangore obliquo, invece, come l'incedere sferragliante di un fatiscente convoglio lungo i binari morti della mente, ha la prodigiosa Dead grammas on a train, sorta di exemplum di un abbozzo di viaggio immaginario senza direzione né meta apparenti, scandito dal flettersi elastico delle chitarre come da un treno in movimento, in territori da Far West. La frammentata linea melodica di Eleven denota l'affioramento del suono, ruvidamente graffiante, dalle profondità del terreno, un crepitio come di argilla secca sotto i piedi. Altro brano rinviante a immagini e atmosfere da “Old West”, sulla scorta di suggestioni filmico-musicali (Leone-Morricone), è certamente The real west, in cui la voce cantilenante di Kyser e le chitarre straccamente caracollanti, unite a un pulsare sonnolento della batteria dell'ottimo Becker, fanno da cornice ideale alla sensazione di un lento e pigro incedere del suono verso distese aride fiancheggiate da alti costoni rocciosi.
Una linea di febbre sonora sembra, invece, percorrere la title-track, specie di ninna nanna sussurrata a fior di labbra, salvo a spezzarsi in acuto e abrasivo lamento nel finale, ad uso dei rettili di un deserto immaginario.
La strumentale Roger's tongue col suo rustico sound da psych-country, chiude degnamente l'album, forse il più acido in assoluto dell'intera produzione dei Thin White Rope, esordio tra i più folgoranti della storia del rock.
Dead Grammas on a Train
Moonhead: scendono le tenebre
Archiviato, con un discreto successo di critica, il loro primo lavoro, i Thin White Rope, si cimentano nella difficile impresa di confermarsi a quei livelli, con un disco dalle caratteristiche affatto differenti dal precedente, "Moonhead" (Frontier, 1986). Il suono si fa, infatti, più meditato, più consapevolmente maturo, sebbene spogliato di quella carica di acida energia, di quella atmosfera di ardenza desertica, di quella febbricosa, “sottile linea rossa”, fatta di arcane incandescenze, di obliquo percorso magmatico, di orografia desolata lambita da lingue di fiamma. Il disco, bellissimo, interiorizza ancor più, se possibile, e circolarmente, la cupa tendenza di Kyser & company di scivolamento negli abissi della refrattarietà verso il mondo, della camminata ipnotica negli impervi territori del rock, ora più che mai gremiti di spettri interiori. Ne risulta un affascinante lavoro di ricerca di un'interiorità straziata, ai limiti dell'urlo ripiegante su se stesso, di escavazione lucida e spietata nel proprio Io dolente, in cui le chitarre, soprattutto, fungono da distorta punta metallica che penetra il duro tessuto del suono come un vomere soprannaturale. Delirio febbrile che già si respira sin dal primo brano, l'epocale Not your fault, dove la ruvida voce malata di Kyser si accompagna alle chitarre come un'ombra venefica; brandelli di pena circolare brucianti e autoconsumantisi in se stessi, immolati sul sacro suolo del rock.
“Wire animals” ricalca a grandi linee il mood del brano precedente, con l'aggiunta di un tappeto percussivo ai limiti dell'ossessione, su cui la voce al bitume di Kyser disegna nastri di suoni spezzati, e i brevi scatti delle “sei corde” sono come nervose rasoiate su un inerte velluto scuro.
Brano di portata notevole è certo Take it home, successivamente riproposta in altra edizione in chiave “long version”, sorta di cavalcata delirante nelle distese aride della mente, dilaniata da incubi elettrici. Alla quieta ma cupa litania, in chiave squisitamente folk e di acustica del vuoto di Thing, fa seguito la spettacolare title-track, sorta di reiterata nenia elettrica ai limiti della paranoia espressiva, in cui il pulsare iterativo del basso dà il tono della catastrofe imminente all'intero telaio sonoro. Come di assoluto rilievo psichedelico ritornante al nulla delle origini è Wet heart, di una lentezza calibrata su temi e inserti sepolcrali e ferali. Mother ne ricalca le orme in ordine a carica compulsiva e di pura devianza vocale, ad approccio funereo e spettralmente scivolante nell'ombra.
Nervosa e tirata alquanto, con un rincorrersi vertiginoso delle due chitarre e un cavernoso esito della sezione ritmica, è invece, “Come around”, mentre If those tears, ripropone l'andamento da allucinata traversata del deserto, con la lamentosa linea chitarristica a farla da padrona, e la voce di Guy Kyser a scavare solchi in un terreno immaginario tra sé e il mondo. Altro brano di estremo rilievo è la finale (almeno, nell'edizione classica, depauperata di aggiunte e bonus-tracks, quali appariranno in ampliate proposte, specie su cd; le variazioni di track-list, tra le diverse edizioni saranno invero numerose) Crawl piss freeze, specie di favola “noir” in chiave di “horror psichedelico” suggellata dal suono, ancora una volta, ustionante delle chitarre di Kyser e Kunkel e dalla voce come promanante da insondabili abissi del leader indiscusso. In definitiva, un album di superiore maturità e finezza stilistica rispetto al precedente, ma senza quella carica di obliqua energia dirompente che contraddistingueva “Exploring the axis”.
Wire Animals
Bottom Feeders, Red Sun, In the Spanish cave
Nell'autunno del 1987 esce “Bottom feeders”(tra l'altro, nella versione in cd accorpato a “Exploring the axis”), Ep di notevole impatto, presto seguito dall'altro, “Red sun”. Brani come Macy's window, o la monumentale e strepitosa cover dei leggendari Suicide di Alan Vega e Martin Rev, (dal loro primo, immortale album), Rocket U.S.A., o ancora la stupenda Red sun, sono solamente i prodromi di quell'immenso capolavoro che è “(Captain Long Brown finger) In the Spanish cave“, vetta stilistica e contenutistica dei Thin White Rope, dove ogni brano è assurto a classico del rock, in senso assoluto. In questo torno di tempo, è il 1988, il prode Tesluk, ottimo bassista, viene rimpiazzato da John Von Feldt, meno lineare ma di tecnica più complessa e compiuta invero. L'album si apre con una spettacolare Mr. Limpet dall'incipit follemente country scandito dal ritmo indiavolato e incalzante della sezione ritmica, su cui si innesta come una lama lunga e spietata la voce luciferina di Guy Kyser. Prosegue con Timing, sorta di escursione nelle lunari lande dell'interiorità malata dei Nostri. It's ok, evidenzia ancora una volta, se ve fosse bisogno, la portata realmente diabolica della voce, qui quasi salmodiante, di Kyser, accompagnata come in un corteo funebre da basso e batteria, modulati su cadenze sepolcrali, e dal liquido lamento delle chitarre che ne chiude come con una pietra tombale il percorso. Segue, in un'inusuale cadenza di taglio orientaleggiante, con un breve intermezzo di chitarre usate alla stregua quasi di sitar, la bella Ahr-Skidar che fa da preludio alla barocca architettura rock della splendida Red Sun, significata sommamente dall'impiego, nel finale, addirittura della tromba. Munich Eunich è il corto preambolo a una rasoiata chitarristica in distorsione, che fa da viatico alla indemoniata Elsie crashed the party, in cui esce palesemente allo scoperto la vena inoppugnabilmente garage-punk della band. Ritmo incalzante su una base di fiamme ruggenti. Molto più classica nell'approccio risulta, invece, la potente e ottimamente strutturata Ring, dall'impatto ritmico rotondo e senza sbavature, col consueto ricamo vocale del grande Kyser. Ammiccante a un'atmosfera da “vecchio West”, con inserti palesemente morriconiani, è certamente Astronomy, qua e là punteggiata da picchiettature classicamente country. Brano nell'insieme gradevole.
La quieta ouverture di Wand, con successivo innalzamento del ritmo, in un crescendo di intreccio chitarristico dove il duo Kyser-Kunkel furoreggia incontrastato, prelude al quieto epilogo del disco, con la rilassata melodia di July, quasi a voler sancire una riconquistata serenità compositiva, dopo tanta copia di fiammeggiante materia sanguigna e irredenta irrequietudine. Grande disco, questo, di ormai raggiunta maturità espressiva e dalla cifra stilistico-contenutistica di altissimo livello. Un classico imprescindibile della storia del rock.
Red Sun
Sack Full of Silver: l'intimismo ritrovato
Dopo un vertiginoso tourbillon di live-tours, durante il quale la band si esibisce persino in Unione Sovietica, a Mosca (col loro concerto trasmesso addirittura in diretta, sul primo canale russo!), tra 1988 e 1989, i Thin White Rope tornano in studio, stavolta sotto la robusta egida di una major, la Bmg, che, su licenza Frontier, s'occupa dell'edizione di “Sack full of silver”, nel 1990. La line-up del gruppo patisce l'ennesimo mutamento, con Matthew Abourezk al posto del batterista Joe Becker, e l'affiancamento di Steve Siegrist, al basso, al prode Von Feldt, al fine di conferire al sound della band un maggiore ventaglio di soluzioni ritmiche. Caratteristica precipua di quest'album è, innanzitutto, il fatto che esso sia stato concepito quasi interamente in maniera itinerante, tra un tour e l'altro, il che non significa che il disco appaia in tutto o in parte eterogeneo nell'impianto stilistico e contenutistico. Anzi, si tratta di un album nel quale a spiccare è l'ormai raggiunta e solidissima maturità compositiva di Kyser e compagni.
Tuttavia, esso segna una svolta ulteriore nell'appartata ma esaltante carriera dei Thin White Rope, trattandosi di un disco che vira decisamente verso soluzioni diremmo più intimistiche se non proprio decisamente “cantautoriali”, con canzoni ben costruite, con una salda architettura di rock on the road a costituirne l'ideale cornice sonora. Si apre con una spettacolosa Hidden lands, dove la voce abrasiva di Kyser, mitigata appena dal tenore complessivo dell'insieme, recita una parte preponderante, degnamente irrorata dalla deviata ma quieta fiamma della chitarra di Kunkel. Altri brani di maggior pregnanza dell'album sono, certamente, la grande cover di You doo right dei leggendari Can, grazie a cui il brano della band di Colonia si tramuta in un'allucinata ballata country-rock dai contorni inquietanti; Americana, che segna, sia pur estemporaneamente, un ritorno alle sonorità aspre e acidule dei dischi precedenti, con voce al bitume e chitarre in fiammeggiante distorsione entro un tappeto ritmico di pura alienazione psichedelica; e ancora, Ghost, nomen omen, ballad spettrale e inquietante anzichenò. La nenia evocativa e permeata d'un certo qual velo malinconico, di Triangle song, brano concepito durante il soggiorno della band a Mosca, in cui a una cadenza dolente e crepuscolare della voce di Kyser s'affianca il suono liquescente delle chitarre, modulate sul tema dell'abbandono a sensazioni di incipiente mestizia; prodigioso è l'impianto, strutturalmente potente, del miglior brano, almeno a parere di chi scrive, dell'intero lavoro, Diesel man, sorta di psichedelica escursione nei territori dell'oblio e del lento fuoco devastatore di sonorità all'acido fenico: quietamente potente, lucida lama di fiamma nel molle costato del rock, gremita di scie di luce purpurea rilasciata dal suono bruciato delle chitarre, brano memorabile che fa da pagina propedeutica al segmento di chiusura, On the floe, nel quale s'avverte un'atmosfera di riconquistata armonia compositiva, un brano dal tono lieve e meditato, grazie alla voce deliquescente di Guy Kyser e al morbido incedere arpeggiante delle chitarre, salvo un opportuno quanto sapiente innalzamento di ritmo nel finale, a decretarne la definitiva bellezza. Un disco, nel complesso, di grande livello, ancora, ma che già lascia intravedere i sintomi del prossimo crepuscolo della band, prima del loro definitivo epicedio.
You Doo Right
Gli ultimi fuochi
Facciamo solo un cenno al mini lp della band “Squatter's rights” (Frontier, 1991), per rimarcarne la vocazione di prezioso contenitore di covers: Caravan di Duke Ellington, Roadrunner di Bo Diddley, e, tra le altre, la “hendrixiana” May this be love, la lirica I Knew I'd Want You dal primissimo album dei Byrds. Nel frattempo, però, dopo estenuanti tournée e miriadi di concerti dal vivo, e a causa della sensibile diminuzione di vendite e pubblico presente ai loro concerti, s'insinua all'interno della band un clima di insostenibile tensione. La forte personalità di Kyser, sempre più proclive ad avocare a sé il lavoro compositivo (emblematico in tal senso è il ritiro del leader in un solitario motel, ai margini del deserto californiano, per completare in perfetta solitudine l'album “The Ruby sea”, all'insaputa degli altri membri del gruppo), fa esplodere la tensione in seno alla band, sino a determinarne un lenta ma inesorabile progressione verso lo scioglimento.
Prima, però, vede la luce il disco, “The Ruby Sea”, (Frontier/Bmg, 1991). Un disco non esaltante, diciamolo subito, certamente l'anello più debole, a livello compositivo, della loro pur augusta carriera.
Esso risente delle tensioni tra i membri della band e della mancata condivisione del lavoro compositivo tra Kyser, da un lato, e gli altri musicisti, dall'altro, a cui s'è aggiunto, nel frattempo, un nuovo bassista, Stooert Odom.
Il disco si apre, tuttavia, con una title-track di ottimo livello, in cui la voce ben nota di Kyser duetta con la chitarra in maniera impeccabile, conferendo al pezzo un ritmo incalzante di grande matrice rock. Fa seguito un altro brano di notevole impatto, Tina and Glen, dove da subito, nell'incipit, la chitarra di Kunkel recupera a furia di sferzate country-oriented, un po' dello splendore dei migliori momenti dei Thin White Rope,. Struggente, ma permeata d'un velo di assoluta malinconia, appare, invece, Puppet dog, specie di nenia funebre aleggiante, grazie al lieve arpeggio della chitarra e alla voce crepuscolare di Kyser, come su un'immensa distesa desertica di cui non s'intraveda la fine. Altro inserto marcatamente country è rappresentato da Bartender's rag, episodio non certo esaltante a livello di composizione e struttura armonica, mentre il livello torna a innalzarsi con Midwest flower, con un tono decisamente sopra le righe delle chitarre, e la voce vetrosa di Kyser che impera satanicamente all'interno del brano, conferendogli un'aura di pura devianza luciferina. Tra gli altri brani, il cui impianto complessivo resta buono, invero, pur depauperato di quella carica di poetico e acido delirio compositivo riscontrabile negli altri dischi, si segnalano: il sognante The Lady vanishes, in cui a un primo approccio di delicati arpeggi di chitarra, tale da creare un clima sonoro di soffuso chiarore aurorale, subentra un lieve innalzarsi delle cadenze, ma senza mai abbandonare il tono di complessiva tristezza melodica dell'insieme. Sulla stessa scia, di appena accennata melanconia, si dispiega Up to midnight, episodio certo trascurabile, invero, di un album che s'adagia, mestamente, su canoni di lento ma inesorabile scivolamento nell'abisso della aurea mediocritas; Hunter's moon, invece, rappresenta un tentativo, quasi riuscito, di riportare il livello del disco su basi di grande dignità compositiva, con l'ossessivo tappeto ritmico a far da contrappunto al tono deviato e graffiante delle chitarre, in un viaggio allucinato come nei meandri di una psiche in dissoluzione progressiva. Con il tema melodico struggente di Christmas skies, un lento appressamento allo spirare del disco, e la voce di Kyser, finalmente risciacquata in una soluzione di soda caustica e dunque tornata agli abituali livelli, in The fish song assistiamo a un ultimo sussulto di grande rock tuffato nelle acque della più genuina tradizione psichedelica, prima che il breve frammento di The clown song, modulato in tenui atmosfere di melodia vesperale, ponga fine a quello che sarà l'ultimo album realizzato in studio della grande band americana. Ci rimane il tempo per citare l'uscita, contestualmente all'annuncio dello scioglimento della band, di un meraviglioso disco live registrato a Gent, in Belgio, nel 1993, “The one that gone away”(Frontier), nel quale figurano due covers irreperibili altrove: Wreck of the Ol' 97 e Silver machine dei leggendari Hawkwind, i padri dello space-rock; epitome entusiasmante di uno dei percorsi più esaltanti nell'intera storia del rock, sebbene serpeggiante, con modulazioni “carsiche”, in territori di desolata configurazione desertica, ad uso esclusivo di aficionados irredimibili e di sparuti e allibiti rettili di passaggio.
Delle due compilazioni di brani dei Thin White Rope, uscite, ovviamente, postume allo scioglimento della band, “When worlds collide”, Birdcage, 1994, e “Spoor”, Frontier, 1994 (in cui sarà fatto confluire l'intero Ep “Red Sun”), diamo solo notizia rapidissima, in quanto quasi irrilevanti nella preziosa discografia di una delle bands più importanti degli ultimi trent'anni; romantica, commovente accolita di piccoli e grandi iconoclasti della grande Opera al Nero del rock.
Some Velvet Morning
Rocco Sapuppo
Discografia (# Consigliato da DISTORSIONI)
Album in studio:
# 1985 - Exploring the Axis (Zippo-Demon/Frontier)
# 1987 - Moonhead (Demon/Frontier)
# 1988 - (Captain Long Brown Finger) In the Spanish Cave (Demon/Frontier)
1990 - Sack Full of Silver (Frontier/Bmg)
1991 - The Ruby Sea (Frontier/Bmg)
Album dal vivo
1993 - The One That Got Away (Frontier)
Raccolte
1994 - When Worlds Collide (Birdcage)
1995 - Spoor (Frontier)
EP
1987 - Bottom Feeders (Frontier)
1988 - Red Sun ( Demon)
1991 - Squatter's Rights (Frontier)
Thin White Rope on My Space
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