sabato 5 marzo 2011

L'ALTRA EUROPA : Elettronica, Chill Out, Alternative Pop, Progressive da un pianeta sconosciuto/ POLONIA 3 - SMOLIK: “4” (2010, Sony/Kayax)

Di Andrzej Smolik ho già avuto modo di scrivere in questa rubrica presentando, brevemente in verità, un cenno sulla produzione artistica ed alcune tracce dei suoi lavori più interessanti. L’occasione per riparlarne, in maniera più dilatata, è data dall’uscita del quarto album di questo talentuoso musicista, compositore, polistrumentista polacco intitolato semplicemente “4”. Andrzej Smolik è considerato oggi fra i maestri nel comporre quel particolare tipo di musica che va a collocarsi nel chill out, nell’ambient senza che peraltro questo riesca a classificare adeguatamente gli orizzonti sonori percorsi da questo artista, che a tutt’oggi non si è risparmiato incursioni in nessun ambito musicale sconfinando con leggiadria tutta personale in territori prevalentemente elettronici, ma anche jazz, folk, rock imprimendo ad ogni occasione il suo marchio distintivo, fatto di una classe eccelsa e di una straordinaria valorizzazione dei suoni e degli artisti che di volta in volta hanno collaborato con lui. Nato in una piccola città sul Baltico, schivo e piuttosto solitario, Smolik ha raggiunto, agli inizi degli anni ’90, la capitale polacca Varsavia praticamente sconosciuto, con l’unico desiderio di poter suonare gli strumenti a lui più congeniali: le tastiere, l’armonica, la fisarmonica. E poiché il talento riesce ancora ad essere talvolta un ottimo lasciapassare, Smolik si ritrovò quasi subito membro di una notissima band polacca, i Wilki, nella quale la sua straordinaria capacità inventiva gli permise di lì a poco di guadagnarsi stima ed attenzione degli ambienti musicali della capitale. L’esperienza con la rock-band Wilki tuttavia non durò a lungo, il gruppo si sciolse e Smolik si ritrovò senza lavoro.
Ciononostante quello fu un momento, come spesso capita in casi simili, fondamentale per lo sviluppo della carriera di Smolik che, incoraggiato e stimolato da noti musicisti polacchi, comprese appieno le sue potenzialità e cominciò a comporre canzoni per i grandi interpreti della scena musicale locale ritrovandosi ben presto a ricoprire il ruolo di produttore ma soprattutto di session man ricercatissimo tanto da finire nei progetti di numerosissime produzioni polacche, tra le quali vale la pena citare i Myslovitz, band di culto polacca di cui ho avuto modo di descrivere ampiamente l’excursus artistico proprio in questa rubrica. La frenetica attività di studio di Smolik e i riconoscimenti sempre più lusinghieri gli hanno valso il plauso di tutta la stampa specializzata, che l’ha eletto fra i più grandi rappresentanti della musica elettronica in Polonia. Pur con una produzione solista complessivamente limitata (solo quattro album a partire dal 2001), la presenza di Smolik nella discografia polacca recente è di assoluto rilievo e basta in questo senso leggere con attenzione il retro delle copertine di molti dischi per trovare facilmente, a vario titolo, il suo nome.

Smolik : "4"
Dopo tre album che hanno lasciato il segno nella musica in Polonia e che gli hanno permesso di ottenere numerosi riconoscimenti, tra i quali quello di miglior compositore dell’anno nel 2003 e nel 2004, Smolik è ritornato sotto i riflettori con il suo quarto album alla fine del 2010. L’esordio è stato fulminante: il disco è balzato immediatamente al vertice della classifica dei dischi più venduti collezionando in poche settimane il disco d’oro. Come già in passato, Andrzej Smolik ha voluto circondarsi di un gran numero di artisti nazionali e non (alcuni già presenti nelle sue precedenti produzioni, come Victor Davies, Mika Urbaniak o Kasia Kurzawska) con la nota curiosa e per la verità assai gradevole della presenza di Emmanuelle Seigner, attrice e cantante francese che molti ricorderanno protagonista delle pellicole del marito Roman Polański.
“4” è un album che calza come un guanto nelle meticolose geometrie elaborate dal musicista polacco e lascia spesso nell’ascoltatore un sapido gusto di suoni sornioni e rilassanti che ridanno ossigeno allo spirito e colore alle giornate più grigie. Ognuna delle dieci tracce del disco ha dunque un interprete diverso (ad eccezione di un unico brano),  cosa che conferisce tuttavia all’album un clima non disomogeneo nel quale prevale il down tempo, la delicatezza vocale e la calda ricchezza melodica. Brani che invitano dunque alla lentezza, alla riflessione e che sembrano suggerire un ascolto ideale alla fine di una giornata, alle soglie del tramonto.
L’invito all’ascolto ho preferito iniziarlo dalla fine dell’album, con il brano L.o.o.t.t. impreziosito da un magnifico video in bianco e nero. Toni leziosi e soavi si inarcano su suoni prevalentemente acustici in cui la voce dell’inglese Kev Fox trova modo di percorrere a suo modo gli orizzonti immaginifici di Smolik. Brano splendido, venato da una malinconia che è ormai la cifra dominante del compositore polacco e che per un attimo mi ha riportato alle sonorità mistiche degli Spain e di Josh Haden di cui Kev Fox sembra ribadire persino il timbro vocale. Una citazione va fatta anche per Forget me not che vede protagonista Emmanuelle Seigner (e nel quale è possibile notare la presenza dello stesso Smolik). Atmosfere sognanti, chitarre acustiche, archi, ottoni che ricreano un clima dal fascino solenne e fortemente permeato da richiami cinematici (non a caso per la realizzazione del video è stato chiamato uno dei più celebri direttori della fotografia al mondo, Paweł Edelman!). Ma ogni singolo brano dell’album, dalla splendida, ciondolante Not always happy magistralmente interpretata da Joao t.de Sousa alla evocativa Pirat song in una partecipata interpretazione di Sqbass aka Radosław Skubaja che richiamerà alla mente a qualcuno l’inconfondibile cifra stilistica di un Chris Rea, è in grado di trasmettere emozione e calore pur nella variegata proposta vocale, strumento plasmato ad arte nel tintinnio, nei vuoti sospesi, nelle brume del tramonto della musica di Smolik. Tutto l’album merita dunque un ascolto non distratto e certamente non si potrà non rilevare il luccichio di piccole pietre preziose che stese come su un tappeto ci indicano la strada per ritrovare il piacere di ascoltare semplicemente della musica nella sua veste più autentica di nutrimento dell’anima. Ultima annotazione : Andrzej Smolik ha appena ricevuto tre nominations ai prestigiosi Fryderyk (sorta di Grammy Award polacco) nelle seguenti categorie: Miglior Album pop dell’anno per “4”, Migliore Produzione musicale dell’anno per l’album “4”, Miglior Compositore dell’anno. Come dire, la definitiva consacrazione di un talento.
Roberto Melfi


V Girl feat. Victor Davies
Memotion feat. Mika Urbaniak
Fades away feat. Natalia Grosiak
Never sing the love songs feat. Kasia Kurzawska
S.O.S. songs feat. Gaba Kulka

SHORT REVIEWS: Glamour Of The Kill, “The Summoning” (2011, Afflicted/Goodfellas)

La scena metalcore sta vivendo uno dei suoi periodi più rosei. Sull’onda di questo successo nel gennaio scorso è stato pubblicato il primo studio album dei britannici Glamour Of The Kill, “The Summoning”, in cui possiamo scoprire tutte le sfaccettature della band. Il disco parte con Malevolent Reign, pezzo unplugged che prepara l’ascoltatore a Feeling Alive, dove si fa notare la particolarmente ben fatta parte finale, che accontenta pure i fan alla ricerca di sonorità più aggressive. Continuando l’ascolto si incontrano buoni pezzi, come World’s End e l’omonima The Summoning e per tutto l’album ci si rende conto del valore della band, che riesce ad accostare molto bene la voce melodica del cantante e sonorità più dure. Purtroppo alla fine ci si scontra con la realtà e cioè che abbiamo sì di fronte un lavoro di buona fattura, ma ciò nonostante resta difficile assimilare, in generale, il lavoro del gruppo. Non tanto per la complessità dei pezzi, quanto per la loro eccessiva somiglianza: soprattutto per quanto riguardo la struttura delle singole tracks, che vedono sempre il solito ritornello punk rock e la solita back voice metal. I Glamour Of The Kill hanno già diviso il palco con band come Metallica e Avenged Sevenfold, a dimostrazione della loro bravura, ma rimangono ancorati a quell'universo metalcore che evolve fin troppo lentamente. Un cd, quindi, di cui è consigliato sicuramente l’ascolto: ma se state cercando un barlume di evoluzione nel genere, questo album non fa per voi.
Francesco Castignani  

venerdì 4 marzo 2011

IL JAZZ SU DISTORSIONI + First 'JAZZ SELECTION' by Marina Mercorillo

Se siete lettori ed amici di DISTORSIONI sapete che, pur trattandosi fondamentalmente di un rock-magazine, ho sempre voluto estenderne lo spettro estetico ed informativo ad altre valide forme espressive musicali; così si giustifica abbondantemente la nuova denominazione scelta e coerentemente con essa il JAZZ godrà presto di più spazio su queste colonne, alcuni suoi periodi temporali/sviluppi stilistici in particolare che mi stanno molto a cuore, come il jazz di Chicago degli anni '70 che fa riferimento all' Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM) (fondata dal compositore/pianista Muhal Richard Abrams ed ancor oggi attivissima: Kalaparush Maurice McIntyre, Anthony Braxton, Don Moye, David Murray, Oliver Lake etc ... ) e la scena radicale europea fiorita sempre tra i '70 e gli '80 dello scorso millennio. Tranci vibranti di storia musicale che ho avuto la fortuna di vivere orgogliosamente in tempo reale pur vivendo nel profondo sud, grazie a tempestive rassegne culturali tenutesi in quegli anni così profondamente 'politici' ed alternativi (quando questo termine aveva ancora un senso!), nei quali anche la musica ed il jazz in particolare avevano connotati pesantemente 'politici', sia che si trattasse di musicisti di colore che avevano fatto loro ed estremizzato i fieri contenuti di affrancamento culturale e sociale del free-jazz e di icone come Ornette Coleman, John Coltrane, Pharoah Sanders, Cecyl Taylor, che di artisti europei impegnati in una lucida e creativa 'anarchizzazione' sonora. Ebbi in quegli anni la possibilità di accostarmi dal vivo ad alcuni illustri esponenti di quelle 'eroiche' scene: parlo di artisti incredibili come Peter Brotzmann, Alex Von Shlippenbach, Hank Bennink, Steve Lacy, Marc Charig, ma anche di validissimi italiani come Gaetano Liguori, Giancarlo Schiaffini e del mio concittadino Roberto Ottaviano.
In tema di Jazz su DISTORSIONI abbiamo già pubblicato, oltre a singole recensioni di novità internazionali nel corso degli anni (Colin Stetson, Alessandra Celletti, Alessandra Celletti-Roedelius, Robert Wyatt with Gilad Atzmon and Ros Stephen, MoonJune Records, Animation, Saalfelden Jazz Festival (2006), Forthyto), articoli su dischi fondamentali come "Bitches Brew" di Miles Davis (e di Davis parleremo senz'altro ancora) ed altri del panorama jazz-rock internazionale, discorso che Luca Sanna sta sviluppando ormai da un pò di tempo, diluendolo in puntate, su Distorsioni. (Wally Boffoli)

(fotografie, in ordine di pubblicazione: Kalaparush Maurice McIntyre, Steve Lacy, Muhal Richard Abrams, Peter Brotzmann)


First 'JAZZ SELECTION' by Marina Mercorillo
Alla vigilia quindi di un mio massiccio 'recupero' di materiale jazz (creativo) dei decenni di cui sopra ed aspettando fiduciosamente altri contributi collaborativi, ho pensato di proporvi in modo molto informale una prima Jazz-Selection (ne seguiranno altre se la rubrica incontrerà il vostro gradimento!) di dieci brani messi gentilmente a disposizione di DISTORSIONI da una mia giovane amica jazzomane (anche), Marina Mercorillo, conosciuta attraverso un social network che tutti voi conoscete benissimo.
Si tratta di brani di artisti 'apparentemente' molto distanti esteticamente, come John Coltrane, Paolo Fresu, Pharoah Sanders, Soft Machine, Joachim Kühn, Chick Corea, Jan Garbarek, brani accomunati da 'arditi' salti cronologici e stilistici; non credo comunque questo possa rappresentare un ostacolo ad una loro fruttuosa, attiva, godibile fruizione da parte vostra: il fil rouge che li attraversa é anche il buon gusto e la passione per il jazz di qualsiasi latitudine della mia (nostra) amica Marina Mercorillo. E vi sembra poco? (Wally Boffoli)




Satmar Rikud - Feldman/Caine/Cohen/Baron (Secrets, 2009)


Paolo Fresu & Raffaele Casarano (TUK Music, 2010)





Miles Davis: Ahmad's Blues (1959)


Improvisation mit Thierry Escaich und dem Jazzpianisten Joachim Kühn (2009)







Soft Machine: Fanfare + All White (1973)


John Coltrane: My Favorite Things (1961)









Alice Coltrane: "Blue Nile" (1970)


Chick Corea & Hiromi Uehara: Spain (2006)






Jan Garbarek & Anouar Brahem: Bahia! (1994)

Pharoah Sanders: The Creator Has a Master Plan 1/3 (1969)





(selezione a cura di Marina Marcorillo)

SHORT REVIEWS - Head of Wantastiquet, “Dead Seas” - Flying Horseman, “Wild Eyes” (2011, Conspiracy Rec./Goodfellas)

In questi ultimi mesi la Conspiracy Records ha realizzato due dischi pregevoli, un po’ ingiustamente ignorati dalla critica italiana.

Head of Wantastiquet, con il suo “Dead Seas”, ci porta in un mondo popolato da cowboy solitari che si accompagano con un banjo nelle loro fredde e solitarie serate invernali. Paul Labrecque, creatore del progetto, ha indubbiamente passato molto tempo sulle montagne del New Hampshire, ma anche nel Western Massachussetts , dove incontro’ Thurston Moore per la cui etichetta incise poi con l’altro suo progetto, Sunburned hand of Man, portato avanti con Chris Corsano e Valerie Webb (e con cui a fine marzo sarà in tour in Italia). Anche se “Dead Seas” prende vita da quelle esperienze profonde, che hanno segnato il percorso musicale e non di Labrecque, in Head of Wantastiquet si rintraccia anche la cupa presenza di un certo primitivismo americano alla Robbie Basho. Return to Agerthi , A curse repeated e la stessa Dead Seas sono I titoli che possono dare lo spunto per indovinare l’atmosfera del disco. La riflessione di Paul Labrecque, non e’ solo autocentrata, ma anche si rivolge al mondo esterno con Mavi Marmara, un richiamo alla strage degli attivisti pacifisti filopalestinesi di “Free Gaza” avvenuto in acque israeliane qualche mese fa. In “Dead Seas” la sua voce e’ sempre in secondo piano rispetto alla musica: una voce sussurrata che sembra venire da un mondo parallelo al nostro, ma che al tempo stesso ci porta lentamente alla deriva in questo immenso “Dead Seas”, dove tutto sembra rimanere immobile ed eterno come questa splendida opera degna di maggior attenzione.


I Flying Horseman sono originari di Antwerp, la stessa citta’ dei dEUS, con I quali dividono un gusto per l’eleganza dei suoni e una certa cinematografia musicale. L’anima del loro ultimo lavoro “Wild Eyes” e’ l’oscuro lato del rock blues di Jon Spencer and the Blues Explosions e dei Birthday Party, echeggiante alle terre newyorkesi dei Velvet Underground. Il lato ruvido del disco e’ inoltre accentuato dalla registrazione live: non c’e’ posto per gli artifizi della post-produzione, quello che sentite e’ il loro vero suono, che arriva diretto al cuore come la pallottola di una Colt 45.
Myriam Bardino
Head of Wantastiquet, live 13.2.2011
Flying Horseman, Bitter storm (live) 
Sunburned hand of Man saranno in tour in Italia: Giovedi 24 Marzo – Spazio 211, Torino - Venerdi 25 Marzo - Mattatoio, Carpi

giovedì 3 marzo 2011

ITALIAN ROCK CONNECTION - GAZ NEVADA: "Dressed To Kill" 12" (1981, Italian Records/Harpo's Music)

Questo mio pezzo sui Gaz Nevada é stato trascritto dal n.12/1981 della mia fanzine cartacea BLACKS/RADIO (wally)

"Dressed To Kill" il nuovo mini-album in vinile dei bolognesi Gaz Nevada, inciso per la bolognese Italian Records di Oderso Rubini é davvero bellissimo. Segue il primo vero lavoro sulla lunga distanza dei Gaz Nevada, "Sick Soundtrack" (1980, Italian Records), che li aveva imposti a pubblico e critica quale band tra le più innovative nel panorama new/no-wave italiano. Il nome della band é stato tratto da un racconto dello scrittore americano Raymond Chandler ("Gas di Nevada" del 1935); il loro suono é ormai originalissimo ed inconfondibile: una riuscitissima sintesi di vari elementi, rockabilly, funky, elettronica. Una delle cose che saltano agli occhi è che pur approntando ritmi meccanici e ipnotici, e facendo uso di accorgimenti di studio, non perdono mai la carica pulsionale e fisica che fa del rock la musica più viscerale di tutte. La voce di Billy Blade (che suona anche il sax e l'organo elettrico) ha sempre avuto cadenze da cantante quasi rockabilly, singhiozzante e fortemente emotiva. Ascoltare per credere in questo nuovo lavoro "Dressed To Kill", ispirato come tutto il disco e l'artwork di Anna Persiani al crimine e alle sue seduzioni, ma anche all'omonimo film di Brian De Palma. In questo brano la forte accentuazione rockabilly di Billy Blade viene bilanciata dai toni malati dell'altro vocalist Andrew Nevada (anche ai sintetizzatori).
Dressed To Kill fu presentata dai Gaz Nevada in anteprima a Bologna durante la loro esibizione del 19 Luglio 1981 alla rassegna new-wave/musica d'avanguardia Electra 1 (recensita nel n. 7 di Blacks/Radio), come anche Frogs On The Phone. Confrontando la versione in studio di questo brano con la registrazione su audiocassetta live all'Electra 1 risulta che dal vivo i Gaz dilatano i brani a dismisura, e nella seconda parte di questo brano usarono uno strano effetto elettronico per chiudere la loro incredibile esibizione bolognese. Frogs On The Phone è un brano interessantissimo, sia nella prima vibrante parte con un maledetto riff di sax dissonante e gli altri strumenti che s'inseriscono uno ad uno, che nella seconda, dilatatissima, dove sull' inquietante effetto elettronico suddetto Andrew Nevada farnetica di vittime ed assassini! Segnali telefonici intermittenti finiscono col rendere il brano un piccolo capolavoro di rock-suspence! Anthony Perkins é fortemente meccanico: si ascoltano i Nevada pronunciare sommessamente strane frasi in italiano; anche qui colpisce subito la voce filtrata e gorgogliante: il sound della band sta diventando sempre più sperimentale, in tutte le accentuazioni più sconvolgenti del termine.
Sulla seconda side una breve versione ipnotica di Going Underground, uno dei loro cavalli di battaglia; quindi D.J., brano dalla brillante struttura ritmica, una delle caratteristiche peculiari del suono del gruppo. Dulcis in fundo When The Music Is Over: confrontarsi con il celebre brano dei Doors è ardua impresa per tutti: i Gaz Nevada ne forniscono una interpretazione sofferta, attualizzando il brano, caricandolo di morbose e penetranti visioni di disperazione metropolitana. Billy Blade sfodera una performance vocale inquietante: siamo dalle parti dei brividi arcani di Alan Vega, ascoltare per credere. Completano la band Robert Squibb alle chitarre e Bat Matic alla batteria.
Wally Boffoli
"Dressed To Kill" tracklist:
- Anthony Perkins 2:11
- Dressed To Kill 3:20
- Frogs On The Phone 4:13
- Going Underground (2) 2:05
- D.J. 3:17
- When The Music Is Over (The Doors) 5:27


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KRAUT ROCK/KOSMISCHE MUSIK - CAN: "Tago Mago" (1971, Spoon Records/United Artists)

E pensare che c’è chi dice che i batteristi sono gli elementi meno importanti nell’ambito di un gruppo rock (come? state dicendo che ho cominciato così anche il pezzo sugli Amon Duul? Ebbene sì, e siccome si dice che repetita juvant!) e allora che dire di Jaki Liebezeit che con il suo drumming ossessivo e costante regge quasi tutta l’ossatura del mitico "Tago Mago" album doppio e pietra angolare della produzione Can e di tanto rock tedesco? Il buon percussionista teutonico, ci dicono le cronache, proviene dal jazz ma se è piuttosto bravo dietro ai tamburi lo è ancor di più a non dare a vedere questa sua inclinazione, poiché di jazz nel suo incedere percussivo secco e squadrato non ce n’è neppure una lontana sfumatura.
Liebezeit in questo storico album si inventa un drumming che io amo definire ‘circolare’, incessante e ripetitivo con soluzione di continuità solo dopo molti minuti di ritmo convulso e totalizzante. C’è da dire che i Can, a fronte dei gruppi tedeschi finora trattati ( Amon Duul, Tangerine Dream, Faust) sono i più ‘normali’. Nelle loro tessiture armoniche si intravede una qualche forma canzone addirittura orecchiabile e cantabile (anche se non proprio da sotto la doccia) ed un certo ordine costituito; per dirla shakespearianamente anche loro in realtà sono un po’ folli, ma nella loro follia c’è comunque un metodo. Il metodo forse proviene dalle frequentazioni colte di Irmin Schmidt (tastiere) e di Holger Czukay (basso) entrambi allievi di Stockhausen, ma più prosaicamente il metodo è anche quello di affidare a un non-cantante come il giapponese Damo Suzuki le parti vocali, sia quelle cantate, come nell’iniziale Paperhouse che quelle salmodianti come nel brano Oh yeah che sovrastano la ritmica da convoglio ferroviario di Liebezeit o come ancora quelle urlate e vocalizzate come nella lunga Peking O dove il nipponico gorgheggia strozzatamente sottolineato da un piano elettrico che rigurgita brevi accordi free (eccolo qui un po’ di jazz!) slegati e sincopati.
E se la canzone più ‘canzone’ la troviamo in chiusura dell’album nei quasi sette minuti della mielosa e arpeggiata Bring me coffee or tea punteggiata da piccoli svisi sottili di chitarra acustica che sottolineano il canto di Damo Suzuki, a smentire di colpo quanto detto prima sull’orecchiabilità dei Can, l’album straborda nella terza facciata (abbiate pazienza, questo è un viaggio vinilico) con la micidiale suite Aumgn (17:22) dove davvero la sperimentazione sale in cattedra bacchettando sulle dita ogni armonia conosciuta prima in un coacervo di rumori e suoni dominati dalla voce liturgica e sepolcrale di Suzuki che salmodia cavernosa da un improbabile oltretomba. Suite in cui il chitarrista Michael Karoli (morirà purtroppo nel 2001 a soli cinquantatre anni) si ricorda di quando imbracciava il banjo in piccoli club fumosi e lo estrae dalla sua polverosa custodia insieme a un vecchio violino (entrambi non accreditati in copertina) svisando insieme ai suoi sodali, nessuno escluso, che tra bassi pulsanti, chitarre sottili, vocalità cartoonesche e organi rumoristi e giocattolosi dettano le coordinate armoniche di questo concept sonoro, fino a che Jaki Liebezeit (sempre lui) dopo il lontano latrare di un cane se lo prende al guinzaglio conducendo la danza tribale fino alla conclusione del brano.
C’è anche da sottolineare che come in “Yeti degli Amon Duul, anche in questo straordinario album la divisione in brani è solo un principio indicativo poiché tra una sezione musicale e l’altra la separazione è pressocché inesistente così come nell’altra suite Halleluwah (Part 1 - Part 2) (18.32) che vede ancora una volta la batteria ‘circolare’ di Liebezeit (ancora lui) splendida e instancabile protagonista a supportare l’ottimo chitarrismo longilineo e sfuggente di Karoli e le parti cantate di Suzuki.
Prima di “Tago Mago” i Can ci avevano allietato soprattutto con il primo album "Monster Movie" (1969) nel quale la lunga, mitica e seminale Yoo doo right (e mi piace segnalare la bella e insospettabile cover degli americani Thin white rope sull’album “Sack full of silver” del 1990) già gettava le basi di un minimalismo velvetiano che ritroviamo in diversi momenti di questo doppio album e che ancora, oltre ad altre opere di buon livello, troveremo nell’altro capolavoro "Future Days" del 1973. Nell’ascoltare in solitudine la magnifica, cantilenante e ripetitiva Mushroom, uno dei vertici di questo "Tago Mago" che termina con un paio di tuoni e uno scroscio di pioggia, si ha la certezza che la boscosa ricerca di funghi sia stata proficua; di quali funghi e di quali effetti essi abbiano avuto sulla composizione e l’esecuzione di quest’opera imprescindibile per chi desidera una pur minima conoscenza della musica alternativa teutonica non è dato sapere; prendiamola così: struggente, immaginifica, debordante, e poi scivolante, gustosa e saporita come un magico champignon sulla pizza mille stagioni del rock tedesco.
Maurizio Pupi Bracali

CanTagoMago

SIMONA GRETCHEN - "Gretchen Pensa Troppo Forte" (2009, Disco Dada Records/Venus)

Premetto che mi risulta difficile rimanere imparziale parlando di Simona Gretchen artista faentina di soli 23 anni, che già da giovanissima figura in varie band locali, punk soprattutto, che le servono come esperienza fino a che, raggiunta una certa maturità espressiva, decide di espandere i propri orizzonti musicali e personali. E' così che inizia a comporre brani prevalentemente acustici, fortemente influenzati dalle grandi artiste maledette del rock, Patti Smith e PJ Harvey su tutte ma anche dalle atmosfere allucinate e distorte dei Csi, e grazie all'interessamento dell'ottima etichetta indie Dada Records di Lorenzo Montanà e Gianluca Lo Presti, dà alle stampe il suo primo disco da solista "Gretchen pensa troppo forte" (2009). La prima cosa da mettere in evidenza di questo giovane talento è che Simona per questo disco ha cambiato il suo cognome in un più inquietante Gretchen, dal personaggio femminile del 'Faust', inoltre è da notare (particolare non da poco) l'uso della lingua italiana sempre ostica in un contesto rock, scelta dettata prevalentemente dalla necessità di far comprendere al meglio i suoi testi introversi e contorti. Il disco si compone di 11 pezzi, 11 perle scintillanti, per un totale di 34 minuti circa di durata, ed è una scoperta sensazionale per la "sonnacchiosa" scena italiana, ricca di altre interpreti altrettanto brave come Tying Tiffany, Meg, Beatrice Antolini, Marta Collica tra le altre; ma qui stiamo parlando di un talento assoluto, un'artista tra le migliori ascoltate nell'ultimo decennio dalle nostre parti. Per questo disco Simona Gretchen rinuncia spesso e volutamente alla batteria, rendendo il suono volutamente scarno, evidenziando ancora di più la sua particolarissima voce, con una strumentazione ridotta all'osso, sostenuta dai fidi Nicola Manzan (Bologna Violenta, Il Teatro Degli Orrori) e Lorenzo Montanà (Tying Tiffany), che l'aiutano in fase di produzione e rumori vari, e i bravi Gianluca Lo Presti (Nevica su Quattropuntozero) e Valentina Grotti.
L'album si apre in maniera disturbante con la maestosa Alpha Ouverture, chitarre abrasive in puro stile Giorgio Canali - CSI, e una voce che sembra provenire da una quarta dimensione, un brano davvero di forte impatto emotivo, con Simona che ripete "come posso porre fine a questa noia più che mortale", quasi un grido disperato e di rifiuto della attuale blank generation.
Davvero molto suggestivo anche il video che accompagna questa song, curato e diretto da Nicola Pederzoli e Marco Tassinari, uno dei più originali visti dalle nostre parti. Le mie Fate è un altra canzone molto intensa, il basso è di Gianluca Lo Presti, "non c’è rischio né passione, non c’è margine d’errore sicurezza mia non piace a chi mi spreme, a chi non duole a chi mi ripete piano: il tempo aiuta … e noi lo aspettiamo!": certe intonazioni di Simona Gretchen  qui sono debitrici della migliore Patti Smith. Segue a ruota la delicata Cera, segnata dal violino del bravo Nicola Manzan: il tutto sembra provenire da certi album prog anni 70' (Saint Just, Celeste), davvero un brano ricco di fascino; “dai, scegline una, non costa, è carina ... vedrai se è poi vuota, dentro, veramente, son di cartapesta, di plastica, ghiaccio ma in serbo per te ho una sorpresa di cera”. Fockus uno dei pezzi forti del disco, anch'esso corredato da un bel video (curato stavolta da Duilio Scalici), riprende le linee armoniche dell'apertura di Alpha Ouverture con chitarre "rubate" alla tabula rasa dei CSI, solo 2 minuti ma di grande forza, con parole che sembrano aghi avvelenati, "hai mai pensato ci siano già abbastanza persone, convinte che l’accettazione abbia a che fare con la fede? (peggio, con la rassegnazione) che guardano alle spalle e mai una volta avanti a loro? che se la morale manca rischiano di sentirsi sole? soggette a presunzione, prescrizione, presupposti e finte malattie, che diano loro un diverso colore in cerca di una dignità ulteriore": davvero uno specchio perfetto della società moderna.
Due apprendisti è in puro stile cantautoriale, ancora il violino di Nicola decora il tutto, qui vengono fuori le influenze dei grandi maestri italiani del passato, mi viene in mente il primo De Andrè e le parole srotolate "del mio stregone apprendista ho trovato un presente la domanda che assilla quando cade un sipario".
A ruota arriva Bianca In Fondo al Mare, forse il brano melodicamente più intenso, quello che al primo ascolto rimane impresso anche all'ascoltatore più distratto, prima un omaggio al Faber della "Buona Novella", "ricordami di santificare le feste, il padre e la madre, la terra su cui poggio i piedi" seguito da un refrain molto accattivante e bellissimo, "e ripeterà il mio nome, lo ripeterà nel mare, lo ripeterà più a fondo, mi ripeterà nel sole, mi ripeterà nel sale, mi ripeterà fin tanto che io ne abbia sete o fame", di certo una delle canzoni che più hanno lasciato il segno nel decennio appena trascorso.
O Nostre Pelli, solo voce e piano inizialmente, "l’ironia in come si presenta, è il sorriso di chi mi paga e compra, liberate le parole, trafiggete le calunnie e frodi, rivolgete voci e occhi all’illusione"; poi entrano di nuovo le chitarre angoscianti, malate e Simona. grida con voce al vetriolo "o nostre pelli vecchie e fuochi spenti, come un fuoco che brucia e non si vuole spegnere".
La successiva Vuota è un'incantevole ninna-nanna dolceamara , "sente il peso del suo corpo, teme il buio e stanca dorme, nasconde, nasconde i semi del rimorso e poi si sveglia vuota", a cui fa seguito Simpatia per B.C., di cui ignoro la dedica, in ogni caso una delle song dell'album che preferisco, con la sua bella chitarra fluida e quasi psichedelica, "imparerai a riconoscere il distacco e poi sarà solo un segreto e poi sarà più nulla, e come ieri non mi riconosco, e come ieri non so se ho perso": un altra amara riflessione della brava Simona sulla vacuità del presente. Ieri è un altro malinconico affresco della generazione anni zero, "sei stato tu a minar la convinzione, che il bravo attore non reciti mai, sei proprio tu che mi getti nel dubbio l’abisso che ormai è dentro un po’ a tutti noi, mi hai detto: lo stomaco mi stringe i secondi, mentre la conclusiva Non Trovo Più Le Chiavi è uno splendido reading punteggiato dal bel piano di Valentina Grotti: ancora parole pesanti come macigni, “io sono la proiezione, solo tu mi puoi cacciare e una volta, in effetti, abbiamo pregato, ginocchia nude a terra e schiene piegate, le teste chine, le porte chiuse a chiave, abbiamo chiesto scusa e, molto umilmente, supplicato i nostri corpi di arrendersi o smettere di scioperare” e chiude degnamente questo sorprendente e magnifico album di debutto di Simona Gretchen.
Il disco a giudizio di chi scrive è quanto di meglio sia uscito ultimamente in Italia, innalzando Simona Gretchen tra le migliori interpreti della nuova leva cantautorale degli Anni Zero: rubo il titolo dall'omonima doppia eccellente raccolta voluta dal Club Tenco e dal Mei (Meeting Etichette Indipendenti), nella quale figura tra le  36 ottime proposte di giovani artisti anche la nostra songwriter faentina con il bel pezzo Krieg.
Per questo 2011 poi è prevista l'uscita di un 7" pollici, anche se mi piace chiamarlo 45 giri visto che verrà stampato in vinile in edizione limitata da distribuire ai fan più affezionati, a quelli che le vogliono bene aggiungo io; il disco conterrà l'inedito Venti e Tre e una particolare rendition del classico dei Velvet Underground Venus in Furs: davvero un singolo da tenere d'occhio e che noi di Distorsioni vi proporremo quanto prima.
Ricardo Martillos

Discografia :
"Gretchen pensa troppo forte"
(2009, Disco Dada Records; distribuito da Venus);
"Krieg" (2010; da "La leva cantautorale degli anni Zero", doppio cd; edizioni Ala Bianca, distribuito da Warner);
"Venti e tre" (2011; co-produzione Disco Dada Records/Trovarobato) - 7'', in uscita a maggio 2011; edizione limitata; contiene l'inedito omonimo e la cover di Venus in furs dei Velvet Underground

SIMONA GRETCHEN’S OFFICIAL SITE

mercoledì 2 marzo 2011

SHORT REVIEWS - "Two Bit Dezperados" (2010, Jeetkune Rec./Audioglobe)

Bel cerchietto argentato di garage- beat con molto blues ed aperture di folk rock italico, ideale per i piovosi pomeriggi. Riff semplici, classici, ben assemblati, suonati con naturalezza e passione da un duo sardo-portoghese (Tommaso ed Angela) più membri dei garagers sardi The Rippers, con la voce principale affidata a Sandra (beat-girl brasiliana): il cantato é in inglese, con due brani in portoghese e uno di sapore beat in italiano (Ballare e suonare con te fra i pezzi più accattivanti proposti, ottimo per un garage party). Le coordinate sono quelle di certi Detroit Cobras disintossicati: siamo su un versante e mood garage non solo per la voce, ma per il suono in generale.
Fra i brani (11) emergono Mexi com ela pezzo introdotto dal farfisa, dal ritmo che deraglia nella psichedelica coda. Anne, it’s gonna rain apre al folk. Eu prefiro è di nuovo 'wild party'. I won’stay è un cavernoso garage psyco- blues. Get lost è trascinante, paludoso punk blues.
Lucifer marche chiude il disco con un sensuale blues.

Sdh

Two Bit Dezperados Live
Alive/Dead - Live 2010
Pretty Girl

TwoBitDezperadosMySpace

THE WARLOCKS - "Ombre e nebbia" - La Nuova Psichedelia Americana


















Addentriamoci in quella frangia rock neo-psichedelica di provenienza prettamente americana già trattata su queste pagine con Brian Jonestown Massacre e Black Angels (Phosphene Dream). Questa volta con una band proveniente da Los Angeles e il cui leader, Bobby Hecksher, proprio nel gruppo di Anton Newcombe si era fatto le ossa dopo l’apprendistato come bassista nell’album “Stereopathetic Soulmanure” di Beck. Nel 1999 insieme agli altri due BJM, Jeff Levitz e Bobby Martinez forma il primo assetto dei Warlocks con cui darà la luce all’ omonimo EP di 6 canzoni che verranno in parte riproposte nel successivo album “Rise and Fall” (Caveman Rock) (Bomp! Records 2001) a sua volta stampato in due versioni, UK e US con lista dei brani leggermente differente. A fare ordine in questo primo periodo ci penserà l’antologia “Rise and Fall, EP and Rarities”, (Zap Banana/Cargo Records, 2010) che raccoglierà comodamente il tutto in un doppio CD, comprendente anche materiale inedito. Nel vorticoso caleidoscopio del loro suono vengono risucchiati oltre ai Velvet Underground, la psichedelia dei 13th Floor Elevators e dei primi Pink Floyd, lo space-rock degli Hawkwind, i muri di chitarre alla Jesus & Mary Chain, il tutto colorato di tastierine vintage e irrobustito da una sezione ritmica comprendente due bassi e due batterie. Anticipato da “Phoenix EP” (Birdman Records, 2002) in cui oltre a Baby Blue, compaiono tre inediti e una untitled track di 34 minuti, è la volta di “Phoenix Album" (Birdman Records 2002) più immediato rispetto ai primi lavori, complici canzoni “a presa rapida” come Shake the dope out, Baby blue, Hurricane heart attack. Quest’ultima vede la partecipazione di Sonic Boom degli Spacemen 3. Nell’ insieme meno intento a divagazioni cosmiche rispetto al lavoro precedente, più ricercato nelle melodie vocali che si librano su tappeti di chitarre fuzzate, in questo album The Warlocks acquistano un’identità più “pop” sebbene acido e dopato, tanto che sarà la Mute Records ad occuparsi della versione europea di questo titolo, e a pubblicare il loro successivo “Surgery (Mute Records,2005). Nonostante l’ottimo lavoro di produzione col chiaro intento da parte della Mute di farne una band di indie-rock, la “ripulita” è solo apparente e il risultato è decisamente troppo aspro e oscuro per essere di buon auspicio alle casse dell’etichetta. Il cantato di Hecksher che si contorce tra il malinconico e il disperato, riaprendo le ferite del Robert Smith di “Disintegration”, il tempo scandito pesantemente ed incessantemente dalle due batterie, le chitarre capaci di creare una cappa di nebbia densa e impenetrabile fanno di questo album il loro primo vero riscatto dai loro riferimenti del passato dando forma ad un carattere più personale e contemporaneo. L’introduttiva Come save us avvolgente e implorante, l’ingannevole e catartica It’s like surgery che lascia intravedere uno spiraglio di luce, le successive ballads di Gipsy nightmare e Angels in heaven, angels in hell riecheggianti gli anni ’50, in particolare la seconda che ha il sapore di un brano concepito a quattro mani tra Phil Spector e Kevin Shields e che è un po’ il retrogusto di questo intero album. Nel frattempo all’interno del gruppo si susseguono frequenti cambi di line-up dovuti anche a problemi di droghe il cui uso a quanto pare non si limita alla sola ricerca di ispirazione. Sfoltito l’ensemble a cinque elementi ed un solo batterista, con Heckscher unico superstite della formazione originale, esce “Heavy Deavy Skull Lover”(Tee Pee Records,2007). L’orbita più rock’n’roll degli esordi è ormai distante, e la sua spinta si è affievolita; meno spediti ma più fluttuanti e decisi a proseguire il viaggio in direzione opposta al sole per addentrarsi nelle più remote oscurità. Fanno invece marcia indietro per quanto riguarda l’etichetta accasandosi con l’ indipendente Tee Pee Records. L’aspetto più sofferente della loro musica viene qui dilatato in un’introspezione allucinata, che scorge un universo interiore palpitante, intriso di paranoia. Amore riflesso nella morte. Zombi amanti, protagonisti di una poesia decadente e di un romanticismo gotico crudelmente spietato. L’iniziazione di The valley of death, che apre l’album in questione focalizza subito il paesaggio a cui, di seguito, gli 11 minuti della monumentale Moving mountains, fanno da cornice definendo il panorama dinnanzi. So Paranoid, Zombie like lovers, Dreamless days tra gli incubi e le angosce che lo abitano fino alla conclusiva Death, I hear you walking in cui la morte finora sublimata viene invocata nella sua accezione liberatoria. Un album malato. Di quelle malattie che lasciano il segno e in cui il sistema immunitario viene messo a dura prova. Superata la convalescenza, con l’ormai consueta cadenza biennale è la volta di “Mirror Explodes” (Tee Pee Records,2009). Red camera è il brano che apre questa nuova sequenza di 8 tracce, e che sulle prime potrebbe ricondurli ad uno dei classici brani in Heckscher-style, ma nel contesto dell’album si evidenzia una propensione verso la struttura a libera improvvisazione più accentuata rispetto ai lavori precedenti. Qui in termini di sonorità emergono prepotentemente i riferimenti shoegaze dei fratelli Reid, Spacemen 3, Loop. Il tutto riflesso su uno specchio sonoro molto più ampio, deflagrante in uno stato di sospensione eterea. Standing between the lovers of hell, ricorda una Venere in pelliccia ecologica, Frequency meltdown ripercorre la rotta astrale dei Neu di Fur Immer, Static Eyes ha gli stessi ingredienti della ricetta perfetta di Spacemen 3, The midnight sun splende della luce riflessa di “Loveless” dei My Bloody Valentine. Un lavoro che se paragonato a “Heavy Deavy Skull Lover” è più apprezzabile nella forma, ma non sembra avere gli stessi contenuti. Potrebbe essere interpretato come un riepilogo degli “appunti” presi finora, una pausa per contemplare il percorso compiuto, ma ad ogni modo lascia intendere che loro di cose da dire ne hanno ancora molte. Il viaggio dell’astronave Warlocks non ha ancora terminato il suo viaggio; sta a loro decidere in quale direzione proseguire: se di ritorno verso casa o verso nuovi inesplorati microcosmi mentali.

Federico Porta

The Warlocks Discography

Rise and Fall (Bomp! Records, 2001)
Phoenix Album (Birdman Records, 2002)
Surgery (Mute Records, 2005)
Heavy Deavy Skull Lover (Tee Pee Records, 2007)
Mirror Explodes (Tee Pee Records, 2009
)


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