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REVOLVER ha compiuto quest’anno quarant’anni: fu pubblicato in Inghilterra il 5 agosto 1966, tre giorni dopo in America e questo è un buon motivo per parlarne, anche se si corre il rischio di dire cose trite e datate, trattandosi di uno degli album più noti e commentati nella storia della musica popolare.
The Beatles, nel 1966, erano già baronetti, per meriti artistici e commerciali.
Erano il complesso più famoso e acclamato, conosciuto nell’intero Pianeta, persino in Paesi dove la censura era più soffocante.
In quell’anno visitarono l’India.
Secondo la Storia comunemente accettata, da quel viaggio uscirono mutati e illuminati, nonché ispirati.
In realtà, l’unico fra i Beatles a subire una seria influenza dalla cultura indiana fu
George Harrison ed anche lui ci mise un po’ prima di cominciare a comporre musiche e arrangiamenti orientaleggianti, cosa che, per fortuna, fece in maniera abbastanza parsimoniosa.
Io mi limiterei a dire che quel viaggio fece bene ai quattro di Liverpool.
Gli consentì di allargare la propria visuale, acquisire nuove sonorità e, soprattutto, di distaccarsi dal mondo musicale a sufficienza per poterlo guardare e interpretare meglio.
Si è detto, proprio riguardo a questo disco, che vi sono tracce di idee di altri musicisti, in particolare dei
Byrds e dei
Beach Boys. L’osservazione, se non proprio da contestare nelle radici, va precisata.
Il Beat, ormai, mostrava la corda.
Non si poteva continuare a proporre pezzi basati su pochi, semplici, giri di chitarra accompagnata da basso e batteria. La realtà era in evoluzione. Il nuovo, però, non era ancora ben definito.
I Beatles avevano, dalla loro, uno straordinario talento compositivo ma questo non basta a creare della musica di successo, soprattutto se si è al top e si vuole mantenere la posizione. La Storia racconta che i
Fab dividevano la popolarità con i
Rolling Stones, ma questa è pura fantasia.
Per universalità di consensi ed intensità di entusiasmo i Beatles erano in una posizione mai più assunta da nessuno.
Gli
Stones, più che dei rivali, erano dei colleghi intenti a coltivare altre aree di vita musicale, direi quasi altri orari.
Quando gli impiegati timbravano il cartellino d’uscita e le sirene delle fabbriche liberavano la propria forza lavoro, quando le persone erano libere di prendersi cura di sé stesse, quello era il momento degli Stones, in un mondo ancora non snervato e virtualizzato dai media.
Gli Stones si rivolgevano alle viscere e alle passioni di un pubblico adulto, qua
ndo questo chiedeva qualcosa di forte, che alimentasse i flussi vitali.
I Beatles, che erano presenti anche in questi momenti, occupavano invece l’intera giornata, dalla colazione al lavoro e fino alla ninna nanna.
Erano amati dai ragazzi, ma anche dalle mamme e dai papà.
Degli Stones si è detto.
Degli altri, gli emergenti, nel 1966 dovevano ancora tutti mangiare pane duro prima di impensierire i Nostri.
Certo, c’erano i
Beach Boys ma con
Pet Sounds (pubblicato il 16 maggio 1966) avevano dato il canto del cigno.
E c’era Bob Dylan. Quello rappresentava un problema.
Il cantautore americano era impegnato, colto, ispirato e amato dagli intellettuali. Fin qui, poco male.
Il fatto, però, è che aveva pubblicato tre album molto pericolosi per la leadership dei Beatles, delle riuscite fusioni di folk e rock elettrico.
Mi riferisco a
Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited ( 1965) ed al doppio vinile
Blonde on blonde che precedette nel 1966 (fu pubblicato lo stesso giorno di Pet Sounds) di tre mesi circa la pubblicazione di Revolver.
Quel che è peggio, alcune sue canzoni erano entrate nel repertorio di tanti interpreti famosi.
La Bambina triste di Dylan non poteva vantare le centinaia di interpretazioni di
Yesterday, però si sentiva molto e ovunque.
Dylan, inoltre, dava luogo a molteplici tentativi di imitazione e finanche plagio, il che era indice di carisma, oltre che di popolarità, a tutti i livelli, anche i più commerciali e leggeri.
Basti pensare a
“Pietre”, la canzoncina portata da
Antoine al Festival di Sanremo, la quale altro non era se non una versione scanzonata di “
Rainy day women nos.12&35”.
Per i Beatles, Dylan era il problema.
Quel che seppero fare, al loro livello cioè al top, fu di valutare il nuovo, l’onda emergente, nel suo complesso, ponendosene a cavallo e facendosi portare.
Non orecchiarono gli altri, ma ascoltarono ed elaborarono le tendenze più interessanti, rifinendo, completando e finendo col precedere tutti.
Non c’è nulla di più foriero di successo che l’arrivare un attimo prima degli altri nel dire quel che tutti hanno sulla bocca.
Tecnicamente, se si può usare il termine, cosa fecero?
Si badi bene che è davvero appropriata l’osservazione di chi ha parlato di u
n album costruito a tavolino, cioè pianificato per uno scopo.
Questo atteggiamento accompagnerà il quartetto, in effetti, almeno fino all’esaurimento del periodo psichedelico ed in maniera molto evidente per l’orecchio allenato.
Non per niente
Frank Zappa dedicherà ai Beatles uno dei suoi primi lavori meglio riusciti, la parodia di Sergent Pepper’s intitolata
“We’re only in it for the money”.
Tornando ai Beatles: all’epoca di Revolver questi non avevano il tempo di aspettare che maturasse il pezzo capolavoro.
L’album in esame, infatti, non contiene nessun pezzo fra i primi dieci e, per quanto mi riguarda, neanche fra i primi venti nella produzione dei Fab. Contiene, però, quattordici ottimi brani, tutti arrangiati ed eseguiti al meglio e con l’uso appropriatissimo di nuove sonorità. Lennon & soci si diedero un tema.
Pensarono di fare dei bozzetti, dei quadretti situazionali nella tradizione britannica, con degli intermezzi.
I più giovani possono pensare al teatro di Mr. Bean, giusto per capire il concetto.
C’è l’uomo delle tasse (
Taxman), quello che non riesce a trovare più amore negli occhi dell’amata (
For no one) ed una allegra brigata di sommergibilisti (
Yellow submarine).
Idee semplici, usate e svolte nei testi e nelle musiche in maniera, qualcuno direbbe, impressionistica, con l’oculato uso di suoni onomatopeici.
I Beatles avevano un pubblico mondiale e dovevano essere comprensibili anche da chi non conosceva la lingua inglese.
Ora, si potrebbe pensare che la bozzettistica di Revolver sia una forma disimpegnata di espressione musicale volta a fini commerciali. Niente è più lontano dalla verità di questo concetto.
Come aveva spiegato lo psicanalista Jung, l’arte di disegnare quadretti, situazioni e scenette affonda nell’esigenza di esprimere gli archetipi, che sono il fondamento della cultura umana.
In Inghilterra Jung non era e non è un personaggio della Cultura di cui parlano i dotti per darsi un att
eggiamento.
Al contrario, il suo insegnamento è entrato nella cultura del popolo britannico, tanto da ispirare centinaia di artisti i quali tendono coscientemente al situazionismo.
Quella di
Revolver, quindi, fu un’operazione di Alta Cultura, per lo scopo perseguito e per il risultato ottenuto.
In effetti Revolver risulta essere un capolavoro per la leggerezza e la naturalezza con la quale i quattro svolsero il compitino auto-assegnatosi.
Si pensi a
Yellow Submarine.
Esistevano le ballate marinare ed i Beatles, ispirandosi ad esse, produssero un pezzo che è il modello ideale del genere.
Ci vorrà il miglior Neil Young, in evidente voglia di emulazione, per produrre un altro pezzo archetipico di simile livello.
Mi riferisco a
Crippled Creek Ferry da
After the gold rush, ma siamo nel 1971.
Tornando al 1966, la concorrenza, compreso Dylan, dovrà aspettare ancora parecchio per scalzarli, senza dimenticare di ringraziare la signora Lennon, la quale è sempre nei pensieri dei fan del marito.
E non nei migliori.