hanno scalciato e scalpitato senza sosta in queste quattro decadi, affermando la loro splendida essenzialità rock & roll, blues a tratti quasi punkoide, insofferente della perfezione e delle studiate elaborazioni in studio dei monumenti che li avevano preceduti a cavallo tra la fine dei ’60 ed il primo biennio ‘70: "Beggars Banquet", "Let It Bleed", "Sticky Fingers". L’episodio più fosco e soffocante dell’eccletticissimo “Exile on main street” è Ventilator Blues: ma non stiamo parlando delle seminali dodici battute che gli Stones avevano rivisitato con assatanata frequenza nei primissimi album dei ’60, registrando tra le pareti dei Chess Studios di Chicago dove l’urban blues si era materializzato; in questi 3:24 le radici apprese dai padri di colore americani sono subdolamente, lentamente masticate, ridotte in poltiglia, sputate e servite con sadica cattiveria, perniciosamente arricchite da un criminale tasso di cianuro. Le fatidiche dodici battute cui il titolo rimanda sono scomparse, rimpiazzate da una cadenza percussiva/strumentale marziale, morbosa, che inizia a colpire subito con la slide introduttiva e perentoria di Mick Taylor, e non lascerà tregua all’ascoltatore sino alla fine. Ma leggiamo cosa scrive Bill Janovitz a questo proposito e dell’atmosfera in cui fu registrato Ventilator Blues, nel suo straordinario saggio ‘Exile on Main St.’ (2005) (2010, il Saggiatore), diviso nella seconda parte in altrettanti capitoli quanti i brani del disco:
“Fu Mick Taylor a concepire la frase insistente di chitarra slide che continua in un loop oppressivo per tutta questa canzone claustrofobica, schiacciando l’ascoltatore con le spalle al muro, come se fosse in una delle stanze senza finestre nell’umido scantinato (della villa francese ) di Nellcote, il titolo è ispirato proprio a quell’ambientazione. Gli Stones hanno fatto “Ventilator Blues” (afferma Andy Johns) perché quelle fessure dello scantinato raffigurate su una fotografia in Exile era l’unica aria che entrava là sotto. Tutto ribolliva. Le chitarre si scordavano continuamente per il caldo”.
Il senso di oppressione che Ventilator Blues trasmette è prodotto anche dal disordinato e caotico affastellarsi degli strumenti, tra cui una vigorosa sezione fiati ed il piano martellante di Nicky Hopkins, splendido e creativo strumentista che appare in tanti importanti dischi rock di quel periodo, e che aveva già collaborato con gli Stones in Beggars Banquet e Let It Bleed, producendosi in alcuni tra i più creativi soli della storia del rock. Sempre Bill Janovitz:
“Il pianoforte di Hopkins accresce una tensione già paurosa, iniziando con una parte calma, crescendo negli spazi lasciati dal riff di chitarra con uno stile nervoso e martellante, fatto di terzine veloci con la mano destra. Hopkins suona come se fosse posseduto, inserendo figure incredibilmente veloci nel complicato groove funky tenuto da Keith Richards e Charlie Watts. I fiati crescono dinamicamente, come un camion che strombazza il clacson venendo giù a rotta di collo per una strada di montagna”.
Le condizioni dello scantinato della villa francese di Nellcote, dove Ventilator Blues fu creato dagli Stones - rigettato dalle loro meningi luciferine come un cancro letale, una creatura aliena cresciuta sfuggendo a qualsiasi controllo ed anticorpo - non erano certo ottimali, producendo degli occasionali incidenti di percorso; dice Keith Richards:
“Su Ventilator Blues c’era qualche strano rumore, era saltata una valvola o qualcosa del genere. Se qualcosa andava storto o si rompeva cercavamo di dimenticarcene. Lo lasciavamo stare e tornavamo il giorno dopo sperando che si fosse aggiustato. Oppure gli davamo un bel calcio”
Ventilator Blues è lo sfogo più micidiale e viscerale di un profondo malessere esistenziale che aveva investito la band, ‘esiliatasi’ volontariamente in Francia anche per sfuggire al pressante fisco inglese: paradosso vuole però che l’atmosfera creatasi nella villa durante la lavorazione del disco tutto fosse meno che idilliaca, e questo in Ventilator Blues è percepibilissimo anche nei versi sulfurei, frustrati/frustranti, ‘paint it black’ senza remissione di peccati:
“A Nellcote si era raggiunto un discreto livello di paranoia, alimentato da eventi concreti, come il furto di preziosissime chitarre, o la presenza di squallidi spacciatori sempre pronti a tirar fuori la loro merce. Il consumo di droga all’interno del gruppo poteva solo acuire i sospetti, la mancanza di fiducia. Questa tensione si riflette nell’arrangiamento stesso della song, nel quale la band rimane sullo stesso accordo per un bel pezzo finché poi qualcosa cede – ‘No matter where you are / everybody’s gonna need some kind of ventilator’ (Non importa dove ci si trovi / tutti avranno bisogno di qualche ventilatore). La voce carica di testosterone di Mick Jagger sputa fuori versi come ‘Woman’s cussin’ you can hear her scream / sounds like murder in the first degree’ (Una donna impreca la puoi sentire urlare / sembra un omicidio aggravato); ‘When you’re trapped and circled and no second chance / code of livin’ is your gun in hand’ (Quando sei intrappolato ed accerchiato e non hai una seconda possibilità / e la regola di vita è avere la pistola in mano). Alla fine della canzone Jagger scaglia una provocazione, una sfida: ‘Whatcha gonna do about it? Watcha gonna do? Gonna fight it?’ (E allora che farai? Che farai? Lotterai?), mentre il gruppo martella sulla frase ripetuta portando a conclusione il brano”
Wally Boffoli
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