Giunge alquanto in ritardo questo articolo rispetto alla pubblicazione di "Slaves", secondo lavoro di Petrella ad uscire per la propria Spacebone Records, dopo il grandioso omaggio a Sun Ra di "Coming Tomorrow, Part One". In questo nuovo concept-album il trombonista barese esplora le molteplici possibilità che offre
una rilettura del blues mai didascalica o appiattita nel rendere semplicemente omaggio alla tradizione. Al contrario, nel narrare la diaspora africana (ma anche le numerose schiavitù di cui siamo attualmente vittime), Petrella utilizza il blues come tessuto base in grado di sfilacciarsi attraverso le pieghe del tempo, tanto a ritroso quanto capace di proiettarsi in avanti. Fondamentale in questo l'apporto del combo Tubolibre, la cui considerevole cifra tecnica e stilistica rimane costantemente a disposizione delle esigenze narrative. Apre Chains, quasi un intro all'album che richiama in modo esplicito non solo la deportazione degli schiavi sul Nuovo Continente ma suggerisce anche il viaggio della disperazione che in molti al giorno d'oggi intraprendono verso la fortezza Europa; una claustrofobia descritta molto bene dai suoni che rievocano sia l'oscuro clangore delle catene che l'intermittenza di un radar di bordo. La malinconica Baby, Please Don't Go è un blues intrappolato nell'anima in cui la rassegnazione al dolororoso ricordo trattiene le lacrime per farne poi patrimonio e storia da poter tramandare. Arriviamo ad uno dei momenti migliori di tutto il disco: The Forgotten Island, struggente ballata in cui la caratura del quartetto sfiora vette memorabili. Un incedere lento in cui il canto del trombone di Petrella si poggia inzialmente solo su alcuni effetti e sui possenti accordi dellla chitarra di Gabrio Baldacci. E quasi fosse un controcanto proveniente da un altro piano, a metà brano la tromba di Mauro Ottolini stratifica ancor di più lo spessore emotivo che raggiunge però il picco attraverso i perfetti colpi di batteria di Cristiano Calcagnile. E' incredibile quanto questo brano mi ricordi il lavoro discografico dei padri dello slo-core, ovvero i Codeine; la stessa forza scandita da pause e tocchi drammatici e potenti. A seguire troviamo Cypress Grove, altro brano davvero spettacolare. Petrella non manca di omaggiare Skip James, autore della canzone, inserendone nella prima parte la voce (ed anche alcuni frammenti della chitarra) proveniente proprio dalla versione originale. Del blues ruale di partenza rimane l'eco di un passato che ha saputo resistere nel tempo, un’ anima che rivive attraverso una rilettura personale, evocativa e a tratti corrosiva; con un po di equilibrismo, immaginatevi Marc Ribot che se ne va in giro per le strade della New Orleans descritta da Alan Parker in "Angel Heart".
Il viaggio prosegue con le allucinazioni notturne di Foul Shoes Blues, una sorta di introduzione alla successiva Slave. I 22 minuti della title-track si snodano tra espliciti riferimenti hard-rock, noise ed improvvisazione totale fino a giungere ad ancestrali richiami a madre Africa. Richiami però trasfigurati dalla sovrapposizione con l'angoscia che assale chi sottoposto proprio a condizione di schiavitù. Chiude l'album Chronicle, brano firmato da Baldacci (Mr. Rencore ); una breve coda di sola chitarra che sembra provenire da una sala vuota, perchè l'ultimo blues venga suonato non per un pubblico ma in solitudine per la propria anima.
Aldo De Sanctis
Spacebone Records/Slaves
Line-up:
Gianluca Petrella: trombone, fender rhodes, effetti
Mauro Ottolini: sousafono, tromba basso, trombone
Gabrio Baldacci: chitarra elettrica, balalaika
Cristiano Calcagnile: batteria, percussioni, drum TableGuitar
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