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Chi c’era ha intuito dalle prime magiche note di
Eight miles high che stava partecipando a un evento destinato a incidersi indelebile nella mente e nell’anima. David Crosby e Graham Nash trafiggono il cuore degli astanti con una triade da sogno che affianca
Wasted on the way e
Long time gone al già citato capolavoro dell’epopea Byrds.
Una grande amicizia la loro, un meraviglioso compendio di estremi. Crosby: calore e sussulti di un anima visionaria e geniale. Nash: adorabile menestrello dalla coscienza politica immacolata e refrattaria a ogni compromesso. Con Stills e Young diedero voce e forza ai sogni di almeno due generazioni, forse tre, che il 30 ottobre del 2011 si sono ritrovate ritrovando i loro amici e compagni di sempre. In splendida forma (Crosby sfoggia una potenza
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vocale che non aveva nemmeno a vent’anni) e con una band straordinaria che vede l’ottimo James Raymond,il figlio ritrovato di David, alle tastiere e ai cori; Steve Di Stanislao alla batteria; Kevin Mc Cormick al basso (dice Graham: “
lo abbiamo rubato a Jackson Browne e per questo secolo non glielo restituiremo”); e un eccelso Shane Fontayne alla chitarra, pronto a tessere ora sublimi arazzi armonici, ora lancinanti ed evocativi assoli, devastanti nella loro superba eleganza. ”
We love to make music!” esclama Nash prima di
Just a song before I go e la gioia di suonare e di esserci è evidente, la magia del momento è palpabile. Crosby rende omaggio a Marc Cohn con una
Old soldier che vede Nash all’armonica e
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presenta con giustificato orgoglio il figlio James (“
non è per questo che ha avuto il lavoro” sottolinea ridendo Graham), autore dei nuovi brani.
Don’t dig here e
They want it all reggono benissimo il confronto con i classici, ma dopo l’immortale
Almost cut my hair ecco esplodere violenta, acida, caleidoscopica una
Deja vu da estasi onirica. Una fortuna e un piacere senza prezzo averla potuta vivere e sentire cosi.
Guinnevere (splendida) e
Our house accompagnata dal coro festante del pubblico precedono l’ennesima perla della serata. David la introduce ricordando di averla scritta quando era molto giovane (“
a 5 o 6 anni… le parole sono molto semplici…”) e di non averla suonata dal vivo per circa quattro lustri in attesa della band giusta.
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Eccola allora la band ed ecco noi scoprirci i fortunati destinati a gustare il capolavoro
Laughing, estratto dall’immenso
“If I could only remember my name”, in un teatro ormai straripante di emozioni e gioia pura. Ma non è finita. Sul palco restano i due moschettieri con Shane Fontayne per una
Blackbird da Giardino dell’Eden. Il confine è superato: siamo nel mito, una sera da consegnare alla storia della musica popolare.
In my dreams, il medley
Orleans/Cathedral, Military madness, Wooden ships… fino al bis corale e catartico di
Teach your children: palco e platea uniti in un abbraccio gioioso e commosso. Una sera da ricordare e da raccontare.
Maurizio Galasso
Foto 2 e 3 di Maurizio Galasso
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