Qualcuno storcerà il naso. Prendere in esame un unico album di Klaus Schulze che non sia il pluriosannato "Irrlicht" (1972) o l’altrettanto premiato da pubblico e critica "Cyborg" dell’anno successivo, per molti potrebbe sfiorare il sacrilegio, ma poiché nel mio innato anticonformismo acquariano mi piacciono le sfide, la scelta è caduta su "Blackdance" album del 1974, scelta affatto casuale ma dettata da motivi ben precisi; il primo dei quali è che quell’apprezzato esordio del nostro corriere cosmico è una composizione per orchestra, mentre io ho preferito occuparmi dello Schulze solitario e impegnato dietro i suoi marchingegni e macchinari sonori, poi perché lo spirito che aleggia in questa danza oscura è quello della maturità e della “rivalità” coi Tangerine Dream (anche "Phaedra" di cui mi sono già occupato è del 1974), gruppo dal quale Schulze divenne un fuoriuscito dopo avervi militato, e poi perché in questo album c’è anche un po’ d’Italia che non fa mai male.
Quindi, naso storto o meno, il

Bisogna però dire che dove il “vero” minimalismo svetta come un candido monte innevato coi suoi massimi esponenti tra i quali i più conosciuti Philip Glass e Michael Nyman (quest’ultimo pare anche inventore del termine), quello di Schulze forse annacquato dalle prospettive rock che permeavano i tempi, perde la sua patina di musica colta sciogliendosi in situazioni acquose più da mezza collina turistica che da vetta inviolata. Se Schulze, come transfuga dai Tangerine Dream, abbia avuto problemi personali o di ego col resto del gruppo non ci è dato sapere, sembrerebbe però l’ipotesi più accreditata visto che la musica che produce il nostro è identica a quella dei suoi ex sodali, cosa che fa pensare che il motivo dell’abbandono non fu una divergenza musicale ma di altro genere. "Blackdance" infatti, quasi come Phaedra, consta di una suite sulla seconda facciata e di due lunghi brani sulla prima così come da long playing dell’epoca. Voice of syn è la suite dove l’ultima paroletta del titolo, si capisce, è una contrazione di syn..thesizer ed è qui che c’è un po’ d’Italia, nella prima parte, dove un cantante basso (niente a che vedere con la statura ma con la lirica) tale Ernst Walter Siemon, esegue un cupo e

E bisogna calarsi nello spirito del tempo per capire lo sforzo produttivo dell’autore, poiché coi mezzi informatici di adesso e i campionamenti il tutto risulterebbe assai più semplice: basti pensare che io stesso, digiuno di qualsivoglia tecnica strumentale, ho realizzato alcuni anni fa quasi per scherzo un mio cd tutto al computer tentando un Tangerine/Schulze style che ha avuto, inaspettatamente, un’ottima recensione sul mensile Rumore. Ma tant’è, la suite di Schulze scivola via nei suoi ventidue minuti con le sue bordate furiose di synth che si accavallano come onde marine una sull’altra con effetto piacevole sia a un sentire distratto e salottiero che alla propensione ad un ascolto più attento ed impegnato (magari con le cuffie). Ways of changes che apre la prima facciata dell’album è un’altra suite forte dei suoi quasi diciotto minuti; non si discosta molto dal brano trattato precedentemente e rischierei di ripetermi nella

Concludo facendo a meno di descrivere l’ultimo brano dal titolo Some velvet phasing ma, e i lettori non me vogliano per l’ennesima citazione di Phaedra, è impressionante quanto sia identico a quello che chiudeva il disco dei Tangerine Dream; la stessa lentezza, lo stesso pacato vortice di organo trattato, la stessa atmosfera, la stessa fascinazione sonora che per una volta non è un difetto, ma un accostamento di pregevolezza.
Un altro pezzettino d’Italia è anche la citazione in calce alle note di copertina che afferma che tutto l’album è stato suonato con Farfisa-Equipment, copertina che nel suo desolato surrealismo è opera dell’artista tedesco Urs Amann, e che offre allo sguardo un’ardita prospettiva di surreale e siderea fantascientificità che ricorda certe cose di Dalì o di De Chirico o del mio amico Ignazio Roccaforte, che al contrario degli altri due che ci hanno lasciato da tempo, vive in povertà sconosciuto a tutti.
Pupi Bracali
Klaus Schulze The Official Website
1 commento:
Sono pienamente d'accordo con la tua recensione. La performance di Schulze è incredibile!
Ho una domanda per voi: conoscete i General stratocuster? Li ho sentiti ieri per la prima volta, gira su fb questo video http://www.youtube.com/watch?v=QI2XwOYrWDU
Mi piacerebbe avere qualche informazione... grazie mille
Posta un commento