L'Europa: Ian Carr & Nucleus
Dopo aver trattato delle origini del Jazz-Rock negli Stati Uniti, e di qualcosa di non proprio 'canonico, è ora di tornare nella vecchia Europa, per interessarci di alcuni gruppi e musicisti che, nel loro periodo di maggior fulgore creativo, non hanno avuto alcunchè da invidiare agli acclamati artisti statunitensi. Partiamo da un personaggio chiave di quella scena: il trombettista e scrittore Ian Carr, purtroppo scomparso di recente, attivo fin dal 1961 e titolare di una notevole produzione discografica jazz, in particolare con il Carr-Rendell Quintet, a cui dava il nome assieme al sassofonista Don Rendell. Nel 1969 fonda i Nucleus, sposando la causa del jazz-rock, che, come abbiamo visto, a quell'epoca iniziava la sua epopea.
Il gruppo è rimasto attivo fino al 1989, pubblicando una ventina di dischi, ma ha avuto il suo momento d'oro in particolare con i primi tre lavori, “Elastic Rock”, “We'll Talk About It Later” e “Solar Plexus”.
La prima formazione era composta, oltre che da Carr, dal tastierista Karl Jenkins, anche impiegato all'oboe e al sax baritono, dal sassofonista e flautista neozelandese Brian Smith, dal chitarrista Chris Spedding, stimatissimo session-man, dal bassista Jeff Clyne e dal batterista John Marshall, poi nei Soft Machine. Il gruppo proponeva un'interpretazione estremamente personale del jazz-rock, forse più vicina al jazz, anche di ascolto impegnativo, in cui spiccano la chitarra mai distorta di Chris Spedding e l'oboe di Karl Jenkins.
Nei due album seguenti, alla formazione si aggiunsero i trombettisti Kenny Wheeler, un grande del jazz, in particolare di quello improvvisato, Harry Beckett, musicista di grande versatilità, in grado di spaziare tra il free jazz e il drum'n'bass, ed altri musicisti. Per esemplificare il suono raffinato e 'notturno' dei Nucleus, consiglio questo estratto da “Elastic Rock”, chiamato Torrid Zone, questo dissonante, splendido Medley: 1916-Persephone's Jive , tratto dall'album “Hemispheres”, uscito nel 2006, ma registrato dal vivo tra il '70 e il '71, Changing Times, dal terzo album “Solar Plexus”, che inizia con uno splendido tema retto dalla sezione fiati e prosegue con vari assolo di qualità e, per finire con uno dei classici della band, Song For The Bearded Lady, da “The Pretty Redhead”, uno dei tanti dischi dal vivo usciti molti anni dopo la registrazione, che infatti risale al 1971 (il pezzo è su “We'll Talk About It Later”). Chi avrà la pazienza di continuare a leggere le prossime puntate di questo special sul jazz-rock, troverà qualcosa di più di qualche assonanza tra questo pezzo e Hazard Profile dei Soft Machine.
Devo confessare di essere un grande fan dei Nucleus (si sarà capito dalla quantità di aggettivi), e spero di fare proseliti!
John McLaughlin, Mahavishnu Orchestra
Sempre nel 1969, esce il primo album ascritto a un personaggio che è stato estesamente citato nella prima puntata di questa retrospettiva. Sto parlando del chitarrista John McLaughlin, un virtuoso del suo strumento, un altro dei protagonisti della stagione di cui ci stiamo occupando, e il disco in questione è “Extrapolation”.
Si tratta di un lavoro le cui atmosfere (sarà il clima delle isole britanniche!) si avvicinano a quelle dei Nucleus, nel quale oltre al bassista Brian Odgers e al batterista Tony Oxley, suona (e si sente!) il prodigioso sassofonista John Surman, il cui orientamento free rende l'ascolto tanto stimolante quanto non estremamente intuitivo. Ho reperito, per dare l'idea di cosa stamo parlando, questa Binky's Beam, nella quale il possente sax baritono di Surman la fa da padrone. L'anno dopo esce un altro album, “Where Fortune Smiles”, non originariamente a nome di John McLaughlin, ma di tutta la band, composta da Dave Holland al contrabbasso, Stu Martin alla batteria, Karl Berger al vibrafono e ancora dai due 'soci McLaughlin e Surman. Onestamente, il disco ha più a che fare con il free jazz che non con il jazz rock: i pezzi lasciano ampio spazio alle lunghe improvvisazioni dei solisti. Sarà un po' fuori tema, ma vi consiglio di dare un'ascolto a questa Glancing Backwards, per prepararci all'incipiente stagione della Mahavishnu Orchestra. Nel 1970 uscirà un altro ottimo album 'sperimentale' di McLaughlin, "Devotion" (Douglas Records, settembre 1970) in compagnia di una formazione di 'colore', Billy Rich al basso, Buddy Miles alla batteria e soprattutto Larry Young all'organo: il lavoro, dalle atmosfere torride ed avvolgenti, vira decisamente verso atmosfere jazz-rock ed addirittura 'psichedeliche' (Dragon Song). Potremmo definirlo il disco più 'hendrixiano' di John McLaughlin: i cromatismi 'caldi' dell'organo di Larry Young si amalgamano 'perfidamente' alle penetranti escursioni wah-wah/distorte dell'avventurosa chitarra di McLaughlin. Un disco che conserva oggi inalterato un grande fascino! (Marbles) McLauglin, non dimentichiamolo, aveva collaborato con Jimi Hendrix poco prima che dipartisse: furono anche pubblicati alcuni nastri incisi dai due agli studi Record Plant di New York il 25 Marzo 1969 (anche con la dicitura "Nine To Universe" - Polydor) in compagnia di Dave Holland al basso e Buddy Miles alla batteria.
Detto che il nome esotico Mahavishnu Orchestra (pare significhi 'compassione, potere e giustizia divina') deriva dalla adesione del nostro John alla setta del guru indiano Sri Chinmoy, parliamo di musica. Il gruppo si formò nei primissimi anni '70 e comprendeva all'inizio, oltre ovviamente a McLaughlin alla chitarra elettrica e acustica, Billy Cobham alla batteria, Rick Laird al basso elettrico, Jan Hammer alle tastiere e Jerry Goodman (ex Flock) al violino. Va detto che McLaughlin aveva in mente un gruppo che comprendesse il violino, e aveva come prima scelta per lo strumento Jean Luc Ponty, collaboratore di Frank Zappa e virtuoso nonché innovatore dello strumento, ma la collaborazione si concretizzò solo più tardi.
Con questa formazione la band licenziò due album in studio, “The Inner Mounting Flame” e “Birds Of Fire” e uno dal vivo, (“Between Nothingness And Eternity”, tra il 1971 e il 1973. In questi è evidente il peculiare stile del gruppo, che coniugava il suono fortemente elettrificato di chiara influenza rock, i ritmi pluricomposti che rivelavano l'interesse del leader per la musica indiana e certo funk, e influenze armoniche provenienti dalla musica classica. Da notare è l'uso, da parte di McLaughlin di una chitarra a doppio manico (uno a 6 e uno a 12 corde). Un buon esempio di quanto sopra detto, e anche della superlativa qualità degli strumentisti, possiamo trovarlo in questa One World, un'esecuzione dal vivo di un pezzo da "Birds Of Fire” e in questa You Know, You Know, da “The Inner Mounting Flame”, che denuncia qualche influenza progressive (d'altronde, era l'epoca).
A questo punto la prima formazione della Mahavishnu collassa, sotto i colpi del formidabile ego del suo leader, il quale procede ad una totale rifondazione del gruppo, nel quale finalmente riesce ad includere il violinista Jean Luc Ponty, oltre a Gayle Moran alla voce e alle tastiere, Ralphe Armstrong al basso e Narada Michael Walden alla batteria. È interessante notare come lo stesso McLaughlin abbia identificato questa come la 'vera' Mahavishnu Orchestra.
Nel 1974 esce quindi “Apocalypse”, al quale partecipa la London Symphony Orchestra, e, l'anno dopo, “Visions Of The Emerald Beyond”. Nuovi cambi nella formazione (via Gayle Moran e Jean Luc Ponty, dentro solo il tastierista Stu Goldberg) per l'album del 1976 “Inner Worlds”, canto del cigno della Mahavishnu Orchestra.
Personalmente ritengo che la creatività del nostro fosse già in fase ampiamente calante dopo i primi tre dischi, sostituita da un'overdose di prosopopea. Non volendo però cassare questa produzione senza proporvene neanche un estratto, vi segnalo Eternity's Breath, (titolo quanto mai modesto) che rimane comunque un dignitoso esempio di quella che stava iniziando a chiamarsi 'fusion' invece di jazz-rock.
Infine, da non tralasciare assolutamente é il disco che John McLaughlin incise nel 1972 (Columbia) con Carlos Santana: "Love Devotion Surrender". Accomunati dalle medesime aspirazioni spirituali i due chitarristi realizzano (in compagnia di Larry Young, Ian Hammer, Buddy Miles) un lavoro ispiratissimo, molto influenzato dalla spiritualità jazz 'totalizzante' di John Coltrane, di cui reinterpretano attraverso lunghissime 'metafisiche' improvvisazioni incrociate ben due brani: A Love Supreme e Naima. (The Life Divine)
Jean Luc Ponty
A questo punto, dopo averlo citato ampiamente, ci tocca occuparci di Jean Luc Ponty, violinista francese con ottimi studi classici, convertito per scelta al jazz e a musiche meno 'colte. L'artista vanta collaborazioni con una folla di personaggi importanti, tanto per dire John Lewis (Modern Jazz Quartet), Stephane Grappelli, George Duke. L'incontro fatale è però con Frank Zappa, che lo arruola prima nelle Mothers Of Invention e poi in alcuni dei suoi acclamati album solisti a cavallo tra i '60 e i '70, tra cui è d'obbligo citare almeno “Hot Rats” (1969, Reprise), da alcuni ritenuto, assieme a “Bitches Brew” di Miles Davis, origine stessa del jazz-rock. Personalmente non sono di questo avviso, non per scarsa stima del vecchio Frank, che, anzi, idolatro, ma perchè non ritengo che la musica di Zappa possa essere confinata in un genere ben preciso.
Perciò non mi sono addentrato nell'illustrazione della sua produzione, nemmeno di quella più vicina all'argomento di questo articolo. E anche perchè ci vorrebbe un articolo non basterebbe! Tuttavia non posso non evidenziare almeno una composizione e, non volendo essere banale e piazzare la solita (sacrosanta, peraltro) Peaches En Regalia, scelgo It Must Be A Camel.
Ma torniamo a Ponty: la sua più interessante produzione solista si dispiega tra il 1972 e il 1978. Il 1972 è l'anno del paradigmatico “King Kong – Jean Luc Ponty Plays The Music Of Frank Zappa”, uscito per l'ortodossa Blue Note, suonato con una specie di big band di cui fanno parte personaggi del calibro, appunto, di Frank Zappa (chitarra, of course), George Duke (tastiere), Buell Neidlinger (basso), Ian Underwood e Ernie Watts (sassofoni). Il risultato è notevole, ancora molto vicino al jazz. Tutte le composizioni sono di Zappa, che spesso funge anche da direttore d'orchestra. Propongo la 'title track', che trovo fantastica: King Kong.
Il nostro è un lavoratore indefesso, quindi, oltre a partecipare a vari progetti con altri artisti, dà alle stampe, tra il '74 e il '79, “Upon The Wings Of Music”, “Aurora”, “Imaginary Voyage”, “Enigmatic Ocean”, “Cosmic Messenger” e “Live”. Non si tratta di una serie di capolavori imperdibili, sinceramente. Il suono ricorda abbastanza da vicino la Mahavishnu Orchestra, e spesso ne condivide i difetti: la magniloquenza, la tendenza a voler fare sfoggio della propria, indiscutibile, perizia, purtroppo non sorretta dall'originalità dell'ispirazione. Da “Aurora”, ho scelto Aurora Part 2, con un bell'assolo del bassista Tom Fowler, e, da “Enigmatic Ocean”, la title track. Si tratta di una versione piuttosto recente, non ho trovato granchè di originale, ed è un peccato, perchè del gruppo che incise il disco faceva parte il sensazionale chitarrista Allan Holdsworth. Ma di lui ci occuperemo a breve, e nel farlo so di addentrarmi in un ginepraio.
Luca Sanna
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