martedì 8 febbraio 2011

TUXEDOMOON : "Half Mute" (1980, Ralph) "Desire" (1981, Ralph) - '70 Early Tuxedomoon : Mutanti da San Francisco

Immaginate la sala da ballo de "Il Gattopardo" popolata degli scheletri della Danse Macabre. In un angolo del salone un’orchestra che suona note intagliate nel ghiaccio, sputando aria gelida sui brandelli di macramè, sui divani broccati, sulle radiche di noce, sugli specchi e sui lampadari di ambra e cristallo. Sembrano venire da un altro pianeta.
O forse da un po’ più vicino, dalla Luna. Fanno musica da camera pensando a quelle del Castello di Elisabetta Bàthory, su a Cachtice. Nei salotti perbene dell’Old Europa, all’ epoca, non li conosce ancora nessuno anche se il gruppo (che in realtà viene da San Francisco, e non dai crateri lunari) ha più di un riferimento con certa musica elettronica europea di stampo krauto. E difatti lì finiranno, dopo pochissimi mesi. Prima a Rotterdam, quindi a Bruxelles. A musicare balletti, pièce teatrali, set d’ avanguardia, mostre d’ arte e altri dischi. Tutti assieme, divisi, in duo, in trio. Molti belli, qualcuno brutto. Altri inutili. Ma sono i primi anni, come accade quasi sempre, quelli per cui vale la pena spendere tutto. Piccoli capolavori sospesi tra decadentismo, avanguardia, jazz ed elettronica.

"Half Mute"
“Half Mute” è la prima compiuta sintesi espressionista tra gli studi di musica elettronica che Blaine L. Reininger e Steven Brown stanno seguendo con profitto al City Collage di San Francisco e le avanguardie free jazz e la pre-wave di Brian Eno, Roxy Music, John Cale, Kraftwerk e David Bowie con cui ammazzano i loro pomeriggi mentre i loro coetanei scendono in strada a sventrare carcasse di auto e pisciare dalla ringhiera del Golden Gate Bridge.
Un disco che oggi soffre il peso degli anni ma che all’epoca, all’alba degli anni Ottanta e dopo le brucianti escoriazioni del punk, suonava come un delirante, illogico assalto alla musica contemporanea. “Half Mute” rappresentava allora un nuovo modo di essere ostili, utilizzando a proprio favore gli elementi della musica colta e cameristica ma ricontestualizzandola dentro le cornici inox delle nuove avanguardie giovanili. Con distacco, freddezza e imperturbabile cinismo.
Una rappresentazione moderna, una Biennale di arredamento musicale.
“Half Mute” è, oggi come allora, un disco che non scalda. “Half Mute” è una tormenta di neve sintetica, come quella delle riprese del Dottor Zivago.
Agghiaccianti canzoni come 59 to 1, Loneliness o 7 Years sembrano suonate da un reparto della Schutzstaffeln. Senza l’ ombra di un sorriso, senza nessuna concessione al gioco. Il preludio alle ambientazioni meno raccapriccianti del secondo disco sono raffigurate dalla tromba che si stende sopra il basso sferico di Fifth Column, il pop meccanico di What Use?, il violino che batte le ali come una falena dentro Volo Vivace, e il convulsivo cigolio meccanico di KM/Seeding the clouds.
La band porta il disco sui palchi del Vecchio Continente mostrandosi permeabile alle drammatizzazioni del ballo contemporaneo e del teatro di avanguardia con cui viene in contatto e a cui ruba nuovi elementi che elaborerà nel secondo album.

"Desire"
La musica che abita “Desire" è una musica da ballo che annienta il movimento, che ti strangola. Ma lo fa con l’ eleganza di un elastico da papillon.
Ha queste curve discendenti come quelle di East e Again che debbono suonare un po’ come il rumore dell’ acqua dentro le orecchie di chi sta decidendo di affogare dentro il Danubio blu. C’ è quest’ aria di frac sporcati di tamarindo e succo di pera che si muovono dentro il vortice del valzer annoiato di Jinx.
Ci sono i loro cadaveri che gemono su Victims of the dance. C’ è il retrobottega da emporio cinese di Music # 1.
C’è la musica algida da Spazio 1999 di Incubus e In the name of the talent. C’è il siparietto da film muto di Holiday for Plywood. E c’è l’ elettronica nera della title track, fitta come la pioggia dell’ ultimo fotogramma di Blade Runner. Piove, dentro la musica dei Tuxedomoon, come sugli zigomi di Roy Batty. E i nostri cuori ne raccolgono. Come grondaie sotto cieli di piombo. E di silicio.

Franco “Lys” Dimauro



Prima di "Half Mute"
Pinheads on the move / Joeboy...(the electronic ghost)
(7", 1978, Tidal Wave Rec. and Time Release Rec.)











I primi incerti, trafelati, confusi, balbettii meta-punk di Blaine L. Reininger (keyboards, violin) Steven Brown (keyboards, saxes & other instruments), Peter Principle (bass, synth) e Winston Tong (vocal); trafficano già con drum-machine ed electronics, gli stupri jazz e free-jazz sono ancora lontanissimi: nel 1977 'La luna in Frac' nasce ai piedi del Golden Gate Bridge .


"No Tears" (1978, Time Release Rec.):
New Machine, Litebulb Overkill, Nite & Day, No Tears


Prima delle codificate fredde geometrie di "Half Mute": gli spasmi notturni, il robotico post-punk senza speranza di No Tears: "...no tears for the creatures of the night". Le glaciali disquisizioni di New Machine sulla tomba disadorna della 'freakerie' S. Francisco anni '60. I primi esercizi 'cameristici' su ritmi artificiali di Litebulb Overkill. L'esasperato, paradossale omaggio cibernetico a Cole Porter di Nite And Day, estremo epitaffio delle utopie, vanificate da nuove allucinazioni suburbane.


The Stranger/Love - No Hope  (
7", 1979, Time Release Rec.)






"Scream With A View" 
(
12", 1979, Tuxedo Moon Rec.)
Nervous Guys, Where Interests Lie, Special Treatment For The Family Man, Midnite Stroll

Ancora qualche vestigia di ribellismo 'punk' nei rantoli vocali di Where Interests Lie (una chitarra che assedia i sensi!) soffocati dai ritmi sintetici. Special Treatment For The Family Man é resa incondizionata, sax 'umanoide' (Steven Brown)/macchine supplicanti, pietà reclamata, fragilità esistenziale strappata all'intimità.
Di lì a poco firmano per la Ralph Records (l'etichetta dei Residents) ed incidono "Half Mute".
Wally Boffoli




Tuxedomoon
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WILD PALMS – “Until Spring” (2011, One Little Indian/Goodfellas)


Siamo alle solite. Ancora revival anni '80!?
Ancora una volta un disco che si rifà alle sonorità della vecchia amata new wave. Qualcuno si emozionerà ascoltando l'intero disco e qualcuno forse arriverà a stento alla quarta traccia. Il disco in questione è "Until Spring" di Wild Palms, l'ennesimo esordio discografico di una delle tante formazioni inglesi nate negli ultimi anni. La band si compone di quattro elementi: Lou Hill, Darrell Hawkins, Bobby Krilic e Gareth Jones. I più attenti avranno già notato il nome di quest'ultimo. Gareth Jones è anche il produttore della band e in passato ha lavorato e prodotto album per i Grizzly Bear, Depeche Mode, These New Puritans, John Foxx e Wire. Non è l'ultimo arrivato insomma.
Il fatto che poi sia uno dei componenti della band gioca a vantaggio dei Wild Palms.

"Until Spring" è un album godibile, sospeso tra un post-punk abbastanza patinato e un pop romantico dove la strumentazione dei quattro musicisti si fonde in un tutt'uno formando una sorta di muro del suono. La batteria di James Parish picchia duro in Caretaker, To The Lighthouse e per quasi l'intero album. La chitarra di Darrell Hawkins s’impone all’attenzione in brani come Draw In Light, Pale Fire, The (Never-Ceasing-Ever-Increasing) Cavalcade.
La voce di Lou Hill è evocativa in Delight In Temptation, Pale Fire e To The Lighthouse. Il disco uscirà ufficialmente il prossimo marzo e solo allora sapremo quanta fortuna avrà questo lavoro dei Wild Palms. Non ci resta che attendere fino a primavera.
Michele Passavanti

OH NO OH MY: “People Problems” (2011, Koenig/Molleux/Goodfellas)

Secondo lavoro a 5 anni di distanza dal debutto per la band texana che si allontana dal twee pop solare che aveva caratterizzato l’opera d’esordio per innestare sulle melodie pop elementi inquietanti e contraddittori. Esemplare la breve So I took you che procede sommessa, dapprima con la chitarra acustica e poi col piano e il violino, come racconto d’amore per interrompersi bruscamente con la rivelazione che il protagonista ha appena sgozzato la ragazza, o Not the one che inizia con la lettura di un rapporto della polizia; del resto il titolo dell’album è chiaro, qui si parla dei problemi della gente.
Ma non sono solo i testi a turbare l’apparente spensieratezza delle canzoni, è anche l’acida voce di Greg Barkley che assume spesso sentori lontani di angoscia e di tensione e la grande varietà degli strumenti - i quattro sono tutti polistrumentisti- che contribuisce a sottolineare i vari momenti delle canzoni rendendole ricche di sfumature e di suggestioni e spostandone spesso l’atmosfera verso toni struggenti e amari; a questo esito contribuisce una produzione molto accurata che dosa con equilibrio l’uso di archi, elettronica d’antan, tastiere, chitarra acustica.
Certo nel disco si potranno trovare molte influenze, innanzitutto i Belle & Sebastian per il modo di costruire le melodie: ad esempio nell’iniziale Walking to me, ma anche la Beta Band per l’uso discreto dei sintetizzatori o gli Eels nel modo di cantare di Barkley in No time for talk o in Brians.
In conclusione un buon disco che indica una interessante possibile evoluzione del pop della band texana, con alcune canzoni ben riuscite e che potrà soddisfare gli appassionati di un pop che sappia conciliare l’inconciliabile: la solarità della melodia con l’oscurità dell’animo umano; su questa strada altri si sono mossi in questi anni con ben altra originalità, due nomi su tutti: gli Eels e il mai troppo rimpianto Mark Linkous aka Sparklehorse.

Ignazio Gulotta

lunedì 7 febbraio 2011

GREG ALLMAN : “Low Country Blues” (Jan. 18 2011, Rounder Records)


Buone notizie: Il buon vecchio Gregg (63 anni) è ancora tra noi, vivo e vegeto; e torna in studio dopo ben 14 anni di assenza ("Searching for Semplicity" - 1997, 550 Music). Questo suo nuovo lavoro coglie quasi di sorpresa, anche perché della sua Allman Brothers Band (con il grande Warren Haynes dei Gov’t & Mule) negli ultimi tempi si era sentito parlare poco: molti live nel primo decennio 2000, “Hittin’ The Note” l’ultimo album in studio (2003, Peach/Sanctuary).
A dargli una mano un decano come T. Bone Burnett, produttore sempre intelligente e rispettoso delle peculiarità degli artisti con cui lavora.

Low Country Blues
"Low Country Blues" è eloquente sin dal titolo, perciò se il vostro hobby preferito è la ricerca dell’hype o del maudit
a tutti i costi nel rock, potete anche smettere di leggere questa recensione e volare verso altri lidi! Come se ‘selvaggio’ e ‘sporco’ non possa essere un artista che suona da più di 40 anni un genere irreprensibile come il ‘southern rock’, mai arresosi mai alle lusinghe di un mercato a stelle e strisce volubile quanto deleterio.
Gregg Allman è uno stagionato old ‘hero’ che ha scritto insieme al più famoso fratello maggiore Duane (morto presto, troppo presto: nel 1971, a 25 anni in un maledetto incidente motociclistico) una pagina leggendaria del rock – blues americano come "At Fillmore East" (1971, Capricorn), ma senza di lui tante altre a dignitosissime.
“Low Country Blues” è una full-immersion di Gregg nelle sue radici di sempre: blues, country e soul; in questi 12 brani dimostra di essere ancora uno dei più grandi cantanti soul e blues del rock contemporaneo. Tantissimi classici della tradizione (11 oscure cover, giura Hal Horowitz su AllMusic), di artisti come B.B. King (Please Accept My Love) e Bobby ‘Blue’ Band (Blind Man) reinterpretati con quel ‘tired and wolfy feeling ‘ vocale che lo rende unico, organo e piano (i suoi amori di sempre) in grande spolvero: un illustre collega, David Fricke, sul titolato Rolling Stone ha elogiato l’"austera e coscienziosa produzione antica" del disco.
Ascoltate le variazioni jazzy e soul/gospel (con tanto di cori femminili e horns) sul tema blues dell’appassionante terna Tears Tears Tears (Amos Milburn), My Love Is Your Love (Magic Sam Maghett), Checking On My Baby (Otis Rush), con Allman coadiuvato dall’ottimo chitarrista Doyle Bramhall 2 , che si produce in alcuni ‘solo’ davvero vibranti, e dalla leggenda Dr. John – ospite d’onore - al piano.
Se volete risalire ancor di più alle radici dovete ‘farvi’ assolutamente la toccante cover acustica di Devil Got My Woman, un classico di Skip James: puro ‘dirty Delta Blues’. Ed ancora: una stravolta Rolling Stone e la saccheggiatissima I Can’t Be Satisfied, ambedue di Muddy Waters, il country di Floating Bridge (Sleepy John Estes) e I’ll Believe I’ll Go Back Home (tradizionale).
Non ci basta ancora: ottima e grintosa la resa di Little By Little (Junior Wells), toccante quella di Blind Man del grande Bobby ‘Blue’ Bland, leggermente inferiore forse all’indimenticabile versione live di Steve Winwood nel “Last Exit” dei Traffic. Unico brano autografo (a 4 mani con Warren Haynes) Just Another Riderseguito ideale – forse qualcuno dirà - dell’indimenticata, epica Midnight Rider ("Idlewild South", 1970, Mercury)? Il mood è quello, e a me piace tanto pensare di sì!
Wally Boffoli
GreggAllmanOfficialWebsite

JAZZ-ROCK - "A Story - Second Part": Ian Carr & Nucleus, John McLaughlin & Mahavishnu Orchestra, Jean Luc Ponty

First Part

L'Europa: Ian Carr & Nucleus

Dopo aver trattato delle origini del Jazz-Rock negli Stati Uniti, e di qualcosa di non proprio 'canonico, è ora di tornare nella vecchia Europa, per interessarci di alcuni gruppi e musicisti che, nel loro periodo di maggior fulgore creativo, non hanno avuto alcunchè da invidiare agli acclamati artisti statunitensi. Partiamo da un personaggio chiave di quella scena: il trombettista e scrittore Ian Carr, purtroppo scomparso di recente, attivo fin dal 1961 e titolare di una notevole produzione discografica jazz, in particolare con il Carr-Rendell Quintet, a cui dava il nome assieme al sassofonista Don Rendell. Nel 1969 fonda i Nucleus, sposando la causa del jazz-rock, che, come abbiamo visto, a quell'epoca iniziava la sua epopea.
Il gruppo è rimasto attivo fino al 1989, pubblicando una ventina di dischi, ma ha avuto il suo momento d'oro in particolare con i primi tre lavori, “Elastic Rock”, “We'll Talk About It Later” e “Solar Plexus”.
La prima formazione era composta, oltre che da Carr, dal tastierista Karl Jenkins, anche impiegato all'oboe e al sax baritono, dal sassofonista e flautista neozelandese Brian Smith, dal chitarrista Chris Spedding, stimatissimo session-man, dal bassista Jeff Clyne e dal batterista John Marshall, poi nei Soft Machine. Il gruppo proponeva un'interpretazione estremamente personale del jazz-rock, forse più vicina al jazz, anche di ascolto impegnativo, in cui spiccano la chitarra mai distorta di Chris Spedding e l'oboe di Karl Jenkins.
Nei due album seguenti, alla formazione si aggiunsero i trombettisti Kenny Wheeler, un grande del jazz, in particolare di quello improvvisato, Harry Beckett, musicista di grande versatilità, in grado di spaziare tra il free jazz e il drum'n'bass, ed altri musicisti. Per esemplificare il suono raffinato e 'notturno' dei Nucleus, consiglio questo estratto da “Elastic Rock”, chiamato Torrid Zone, questo dissonante, splendido Medley: 1916-Persephone's Jive , tratto dall'album “Hemispheres”, uscito nel 2006, ma registrato dal vivo tra il '70 e il '71, Changing Times, dal terzo album “Solar Plexus”, che inizia con uno splendido tema retto dalla sezione fiati e prosegue con vari assolo di qualità e, per finire con uno dei classici della band, Song For The Bearded Lady, da “The Pretty Redhead”, uno dei tanti dischi dal vivo usciti molti anni dopo la registrazione, che infatti risale al 1971 (il pezzo è su “We'll Talk About It Later”). Chi avrà la pazienza di continuare a leggere le prossime puntate di questo special sul jazz-rock, troverà qualcosa di più di qualche assonanza tra questo pezzo e Hazard Profile dei Soft Machine.
Devo confessare di essere un grande fan dei Nucleus (si sarà capito dalla quantità di aggettivi), e spero di fare proseliti!

John McLaughlin, Mahavishnu Orchestra
Sempre nel 1969, esce il primo album ascritto a un personaggio che è stato estesamente citato nella prima puntata di questa retrospettiva. Sto parlando del chitarrista John McLaughlin, un virtuoso del suo strumento, un altro dei protagonisti della stagione di cui ci stiamo occupando, e il disco in questione è “Extrapolation”.
Si tratta di un lavoro le cui atmosfere (sarà il clima delle isole britanniche!) si avvicinano a quelle dei Nucleus, nel quale oltre al bassista Brian Odgers e al batterista Tony Oxley, suona (e si sente!) il prodigioso sassofonista John Surman, il cui orientamento free rende l'ascolto tanto stimolante quanto non estremamente intuitivo. Ho reperito, per dare l'idea di cosa stamo parlando, questa Binky's Beam, nella quale il possente sax baritono di Surman la fa da padrone. L'anno dopo esce un altro album, “Where Fortune Smiles”, non originariamente a nome di John McLaughlin, ma di tutta la band, composta da Dave Holland al contrabbasso, Stu Martin alla batteria, Karl Berger al vibrafono e ancora dai due 'soci McLaughlin e Surman. Onestamente, il disco ha più a che fare con il free jazz che non con il jazz rock: i pezzi lasciano ampio spazio alle lunghe improvvisazioni dei solisti. Sarà un po' fuori tema, ma vi consiglio di dare un'ascolto a questa Glancing Backwards, per prepararci all'incipiente stagione della Mahavishnu Orchestra. Nel 1970 uscirà un altro ottimo album 'sperimentale' di McLaughlin, "Devotion" (Douglas Records, settembre 1970) in compagnia di una formazione di 'colore', Billy Rich al basso, Buddy Miles alla batteria e soprattutto Larry Young all'organo: il lavoro, dalle atmosfere torride ed avvolgenti, vira decisamente verso atmosfere jazz-rock ed addirittura 'psichedeliche' (Dragon Song). Potremmo definirlo il disco più 'hendrixiano' di John McLaughlin: i cromatismi 'caldi' dell'organo di Larry Young si amalgamano 'perfidamente' alle penetranti escursioni wah-wah/distorte dell'avventurosa chitarra di McLaughlin. Un disco che conserva oggi inalterato un grande fascino! (Marbles) McLauglin, non dimentichiamolo, aveva collaborato con Jimi Hendrix poco prima che dipartisse: furono anche pubblicati alcuni nastri incisi dai due agli studi Record Plant di New York il 25 Marzo 1969 (anche con la dicitura "Nine To Universe" - Polydor) in compagnia di Dave Holland al basso e Buddy Miles alla batteria.
Detto che il nome esotico Mahavishnu Orchestra (pare significhi 'compassione, potere e giustizia divina') deriva dalla adesione del nostro John alla setta del guru indiano Sri Chinmoy, parliamo di musica. Il gruppo si formò nei primissimi anni '70 e comprendeva all'inizio, oltre ovviamente a McLaughlin alla chitarra elettrica e acustica, Billy Cobham alla batteria, Rick Laird al basso elettrico, Jan Hammer alle tastiere e Jerry Goodman (ex Flock) al violino. Va detto che McLaughlin aveva in mente un gruppo che comprendesse il violino, e aveva come prima scelta per lo strumento Jean Luc Ponty, collaboratore di Frank Zappa e virtuoso nonché innovatore dello strumento, ma la collaborazione si concretizzò solo più tardi.
Con questa formazione la band licenziò due album in studio, “The Inner Mounting Flame” e “Birds Of Fire” e uno dal vivo, (“Between Nothingness And Eternity”, tra il 1971 e il 1973. In questi è evidente il peculiare stile del gruppo, che coniugava il suono fortemente elettrificato di chiara influenza rock, i ritmi pluricomposti che rivelavano l'interesse del leader per la musica indiana e certo funk, e influenze armoniche provenienti dalla musica classica. Da notare è l'uso, da parte di McLaughlin di una chitarra a doppio manico (uno a 6 e uno a 12 corde). Un buon esempio di quanto sopra detto, e anche della superlativa qualità degli strumentisti, possiamo trovarlo in questa One World, un'esecuzione dal vivo di un pezzo da "Birds Of Fire” e in questa You Know, You Know, da “The Inner Mounting Flame”, che denuncia qualche influenza progressive (d'altronde, era l'epoca).
A questo punto la prima formazione della Mahavishnu collassa, sotto i colpi del formidabile ego del suo leader, il quale procede ad una totale rifondazione del gruppo, nel quale finalmente riesce ad includere il violinista Jean Luc Ponty, oltre a Gayle Moran alla voce e alle tastiere, Ralphe Armstrong al basso e Narada Michael Walden alla batteria. È interessante notare come lo stesso McLaughlin abbia identificato questa come la 'vera' Mahavishnu Orchestra.
Nel 1974 esce quindi “Apocalypse”, al quale partecipa la London Symphony Orchestra, e, l'anno dopo, “Visions Of The Emerald Beyond”. Nuovi cambi nella formazione (via Gayle Moran e Jean Luc Ponty, dentro solo il tastierista Stu Goldberg) per l'album del 1976 “Inner Worlds”, canto del cigno della Mahavishnu Orchestra.
Personalmente ritengo che la creatività del nostro fosse già in fase ampiamente calante dopo i primi tre dischi, sostituita da un'overdose di prosopopea. Non volendo però cassare questa produzione senza proporvene neanche un estratto, vi segnalo Eternity's Breath, (titolo quanto mai modesto) che rimane comunque un dignitoso esempio di quella che stava iniziando a chiamarsi 'fusion' invece di jazz-rock.
Infine, da non tralasciare assolutamente é il disco che John McLaughlin incise nel 1972 (Columbia) con Carlos Santana: "Love Devotion Surrender". Accomunati dalle medesime aspirazioni spirituali i due chitarristi realizzano (in compagnia di Larry Young, Ian Hammer, Buddy Miles) un lavoro ispiratissimo, molto influenzato dalla spiritualità jazz 'totalizzante' di John Coltrane, di cui reinterpretano attraverso lunghissime 'metafisiche' improvvisazioni incrociate ben due brani: A Love Supreme e Naima. (The Life Divine)


Jean Luc Ponty
A questo punto, dopo averlo citato ampiamente, ci tocca occuparci di Jean Luc Ponty, violinista francese con ottimi studi classici, convertito per scelta al jazz e a musiche meno 'colte. L'artista vanta collaborazioni con una folla di personaggi importanti, tanto per dire John Lewis (Modern Jazz Quartet), Stephane Grappelli, George Duke. L'incontro fatale è però con Frank Zappa, che lo arruola prima nelle Mothers Of Invention e poi in alcuni dei suoi acclamati album solisti a cavallo tra i '60 e i '70, tra cui è d'obbligo citare almeno “Hot Rats” (1969, Reprise), da alcuni ritenuto, assieme a “Bitches Brew” di Miles Davis, origine stessa del jazz-rock. Personalmente non sono di questo avviso, non per scarsa stima del vecchio Frank, che, anzi, idolatro, ma perchè non ritengo che la musica di Zappa possa essere confinata in un genere ben preciso.
Perciò non mi sono addentrato nell'illustrazione della sua produzione, nemmeno di quella più vicina all'argomento di questo articolo. E anche perchè ci vorrebbe un articolo non basterebbe! Tuttavia non posso non evidenziare almeno una composizione e, non volendo essere banale e piazzare la solita (sacrosanta, peraltro) Peaches En Regalia, scelgo It Must Be A Camel.
Ma torniamo a Ponty: la sua più interessante produzione solista si dispiega tra il 1972 e il 1978. Il 1972 è l'anno del paradigmatico “King Kong – Jean Luc Ponty Plays The Music Of Frank Zappa”, uscito per l'ortodossa Blue Note, suonato con una specie di big band di cui fanno parte personaggi del calibro, appunto, di Frank Zappa (chitarra, of course), George Duke (tastiere), Buell Neidlinger (basso), Ian Underwood e Ernie Watts (sassofoni). Il risultato è notevole, ancora molto vicino al jazz. Tutte le composizioni sono di Zappa, che spesso funge anche da direttore d'orchestra. Propongo la 'title track', che trovo fantastica: King Kong.
Il nostro è un lavoratore indefesso, quindi, oltre a partecipare a vari progetti con altri artisti, dà alle stampe, tra il '74 e il '79, “Upon The Wings Of Music”, “Aurora”, “Imaginary Voyage”, “Enigmatic Ocean”, “Cosmic Messenger e “Live”. Non si tratta di una serie di capolavori imperdibili, sinceramente. Il suono ricorda abbastanza da vicino la Mahavishnu Orchestra, e spesso ne condivide i difetti: la magniloquenza, la tendenza a voler fare sfoggio della propria, indiscutibile, perizia, purtroppo non sorretta dall'originalità dell'ispirazione. Da “Aurora”, ho scelto Aurora Part 2, con un bell'assolo del bassista Tom Fowler, e, da “Enigmatic Ocean”, la title track. Si tratta di una versione piuttosto recente, non ho trovato granchè di originale, ed è un peccato, perchè del gruppo che incise il disco faceva parte il sensazionale chitarrista Allan Holdsworth. Ma di lui ci occuperemo a breve, e nel farlo so di addentrarmi in un ginepraio.
Luca Sanna

domenica 6 febbraio 2011

MusicBox cambia denominazione e diventa DISTORSIONI

MusicBox ha cambiato denominazione ed e' diventato DISTORSIONI. Resta invariato al momento l'indirizzo internet http://musicbx.blogspot.com/, mentre cambia la pagina su Facebook, che diventa quella di DSTN - Distorsioni Signal-To-Noise Club . La vecchia pagina MB - Fan Club musicbox al momento resta visibile ma non piu' attiva.
DISTORSIONI e la nuova pagina su Facebook DSTN Club  riprenderanno gli aggiornamenti e potranno ospitare contributi a partire da martedi' 8 febbraio
Grazie a tutte e tutti coloro che hanno supportato MusicBox e che vorranno ancora supportare DISTORSIONI e la pagina DSTN Club.

Da MusicBox a Distorsioni

Eccoci giunti a rendere effettiva la nuova denominazione del nostro amato (si spera!) rock magazine, frutto di una elaborata e appassionata discussione tra coloro che contribuiscono a dargli vita. 
MusicBox non era più, ormai, adatto a identificarlo ‘BENE’, anche se tanti lettori a quel nome sono ormai affezionati. Ma qualcuno di loro ci ha pero' anche fatto riflettere sul fatto che per più di un motivo, ma soprattutto per focalizzare meglio la direzione da percorrere, una nuova denominazione, meno vaga e usata, era necessaria. 
Sarebbe stato facile costruirla abbinando qualcosa d'altro al termine “rock”: ma facendo così non si sarebbe resa giustizia alla variegata natura musicale dei contenuti del web magazine, che gia' nella precedente dicitura veniva richiamata con quel “e altri innamoramenti musicali”
Questo resta essenzialmente un web magazine di rock, ma come avete potuto constatare negli ultimi mesi, il suo raggio d’azione si e' ampliato e i suoi appetiti musicali (e non solo) sono aumentati ‘mangiando’, man mano che nuovi “chef” si sono aggiunti alla sua cucina. Serviva quindi un nome chiaro e forte, nella nostra lingua e non necessariamente “piacevole”, che stigmatizzasse le nostre inquiete “torsioni” di tronco, testa ed anima: guardando sì “avanti”, ma anche alle tante epifanie rock/musicali passate e seminali, ai fenomeni artistici trasversali e non ben etichettabili, a una molteplicità di “suoni” che possono nobilitare e “motivare” la nostra permanenza in questo mondo. 
Ecco perché “DISTORSIONI - WEB MAGAZINE DI ROCK E ALTRI SUONI”. BENVENUTI!
Wally Boffoli e i collaboratori di Distorsioni

P.S. Un  ringraziamento particolare va' a Antonino Varsallana, nostro grafico di riferimento, che ci aiutati  in questo cambiamento realizzando la  testata  di DISTORSIONI e  il logo  di DSTN Club  per Facebook

La pagina su Facebook MB Fan Club - musicbox cessa di funzionare e viene sostituita da "DSTN - DiSTorsioNi Signal-To-Noise Club"

Wikipedia definisce il Signal-To-Noise come "una grandezza numerica che mette in relazione la potenza del segnale utile rispetto a quella del rumore in un qualsiasi sistema di acquisizione, elaborazione o trasmissione dell'informazione". Il rapporto segnale-rumore, quindi, indica anche quanto il suono origininario e' disturbato dalle distorsioni che introduce il mezzo che lo diffonde. Ma le distorsioni e i disturbi sono anche una qualita' del suono medesimo: Distorsioni diffonde i suoni creati da altri introducendovi, per definizione (e non solo) rumore. Distorsioni Signal-To-Noise Club su Facebook e' uno strumento per misurarne il livello, con la partecipazione di tutti.

JAZZ-ROCK - "A Story - Third Part": Soft Machine, Gong, Brand X

First Part

Second Part

Soft Machine

La questione Soft Machine é controversa quant'altre mai. Per evitare problemi, dico subito che lasceremo da parte il periodo iniziale del gruppo, quello, per capirci, fino al seminale doppio LP “Third”, che la critica giudica di maggior valore. La scelta è dovuta non certo al mancato apprezzamento per quei lavori, ma perchè quei Soft Machine in quei primi due albums suonavano qualcosa che non ha niente da spartire con l'argomento che stiamo trattando e furono proprio le divergenze musicali tra Robert Wyatt e gli altri membri del gruppo a provocarne l'abbandono, dopo la registrazione di “Fourth”, nel 1971. La felicissima vena creativa di Robert Wyatt partorisce comunque in "Third" un' incredibile composizione di quasi 20 minuti che occupa un'intera facciata dell'allora vinile, Moon In June, composta sviluppando dei demos che Wyatt aveva realizzato con il produttore Giorgio Gomelsky agli inizi del 1967. Si tratta di un' 'opera' che sfugge ad etichette castranti, e che 'sfrutta' strumentalmente alcuni stilemi del jazz-rock solo per estrinsecare una vena 'visionaria' e 'psichedelica' assimilabile senza riserve all'estetica del 'Canterbury sound'. In "Third" compare per la prima volta ai saxes il grandissimo Elton Dean.
"Fourth", inciso con una formazione composta, oltre che da Wyatt, alla batteria, da Mike Ratledge alle tastiere, Hugh Hopper al basso e Elton Dean ai sassofoni, non comprende alcuna composizione del geniale batterista, già dimissionario dal gruppo, ma ci propone brani lunghi ed articolati, che risentono ancora del suono dei 'vecchi' Soft Machine. Sentite questa versione live, registrata nel 1971, di Teeth.
L'album seguente, “Fifth” (1972), vede la sostituzione di Wyatt con Phil Howard e John Marshall, rispettivamente nei primi tre pezzi e nei secondi tre, e vira verso un più ortodosso stile jazz, sia pure con sonorità elettriche influenzate da reminiscenze free, di cui è testimone questa As If.
Il disco seguente, “Sixth” (1973) viene votato miglior LP jazz dell'anno nella classifica di Melody Maker, periodico all'epoca assai influente, e si presenta con una copertina piuttosto vistosa. John Marshall diventa il batterista stabile e il sassofonista Elton Dean viene sostituito da Karl Jenkins, reduce dalla militanza nei Nucleus, che fornisce, oltre al suono stridulo e spiazzante del suo oboe, anche un significativo apporto nella composizione dei pezzi. Vi propongo 37 & 1/2, in cui è presente, appunto, un assolo di tale strumento.
La direzione presa dal gruppo è ormai piuttosto chiara, e i dischi che seguono non la modificano più di tanto, pur mantenendo un sempre alto livello qualitativo e un suono riconoscibile, come per questo pezzo da “Seven” (1974), intitolato Day' Eye.
Il disco seguente, “Bundles” (1975) ci mostra la funambolica abilità del neoassunto chitarrista Allan Holdsworth, uno che ha ispirato personaggi come Eddie Van Halen, Joe Satriani, John Petrucci e che sua maestà Frank Zappa ha definito 'uno dei più interessanti ragazzi alla chitarra del pianeta'. Proveniente da esperienze musicali di tutt'altra fatta (rock, progressive) egli è in grado di modificare parecchio il sound compassato del gruppo, come accade in questo lungo pezzo, di cui mi limito a proporvi le prime due parti, registrate al festival di Montreux nel luglio 1974: Hazard Profile Part 1 e Part 2.
Quanto accade dopo l'uscita di “Bundles” non aggiunge più nulla a quanto di buono i Soft Machine ci avevano fatto sentire in precedenza. L'intenzione di limitare questo articolo a quella che possiamo chiamare ''età dell'oro del jazz rock, mi sconsiglia di spingermi temporalmente fino al 2004, anno di formazione della Soft Machine Legacy, con molti dei membri originale della band, ma posso assicurarvi che non si tratta affatto di un'operazione nostalgica, anzi. Se ne avrò l'opportunità tratteremo l'argomento.

Gong

È adesso il momento di occuparci di un altro gruppo che ha iniziato la propria fulgida carriera producendo musica piuttosto diversa dal jazz-rock. In qualche modo i Gong hanno infatti una storia parallela a quella dei Soft Machine, oltre ad avere in comune uno dei membri fondatori, Daevid Allen, stralunato chitarrista e cantante, nonché inventore di tutta la mitologia alla base della famosa trilogia chiamata “Radio Gnome Trilogy”, la loro opera più conosciuta. La presenza di Allen mantiene il timone musicale del gruppo in una direzione psichedelica e onirica, fino al suo abbandono prima di un concerto a Cheltenham (dichiarò che un “muro di forza” gli impediva di salire sul palco).
A quel punto le redini del gruppo vengono prese dall'unico superstite della band originale, il sassofonista e flautista francese Didier Malherbe e dal batterista suo connazionale Pierre Moerlen.
Nel 1976 esce Gazeuse!”, (negli Stati Uniti con il titolo “Expresso”). La formazione, oltre che dai due sopra citati, è composta dal solito Allan Holdsworth alla chitarra, da Benoit Moerlen al vibrafono, Mireille Bauer ancora al vibrafono, alla marimba e al glockenspiel, Francis Moze al piano e al basso e Mino Cinelu alle percussioni. Come si può notare da Expresso il disco è piacevole, suonato in modo egregio, ma non è certo una pietra miliare. Tale giudizio si può estendere senza troppi patemi alla produzione degli anni seguenti. Mi piace citare Heavy Tune, dal disco “Expresso 2, del 1978, perchè alla chitarra compare un mito misconosciuto del rock, il reduce dei Rolling Stones (e forse il miglior chitarrista che ne abbia fatto parte) Mick Taylor. Personalmente ho avuto l'occasione di vederli proprio in questa formazione, a Torino, senza purtroppo rimanere eccessivamente impressionato.

Brand X

Prima di trasferirci sulla nostra penisola per occuparci di alcuni dei nostri talenti, interessiamoci ancora di un gruppo britannico, i Brand X, attivi dal 1976 al 1980 e in seguito per un paio di album negli anni '90, nei quali ha militato il batterista Phil Collins, meglio noto per le sue gesta nei Genesis e come solista. Glissiamo su queste ultime esperienze, e restiamo sul tema: i nostri, nel 1976 pubblicano il primo LP “Unorthodox Behaviour “, in quartetto, con Collins alla batteria, John Goodsall alla chitarra, Robin Lumley alle tastiere e il grande Percy Jones al basso. Le sonorità della band non mancano di originalità, c'è molto funk, ma soprattutto spicca la stupefacente abilità di Jones, al quale Les Claypool dei Primus dovrebbe pagare le royalties. Provate ad ascoltarlo con attenzione nel pezzo che vi propongo: Boorn Ugly .
Il disco seguente è del 1977 e si chiama “Moroccan Roll”. A Phil Collins, spesso occupato in altre faccende, si affianca l'ottimo Morris Pert, per il resto le cose non cambiano chissà quanto, come dimostra questo pezzo tratto dallo show di John Peel alla BBC, chiamato Malaga Virgin.

Luca Sanna