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William Elliott Whitmore, classe 1978, americano nativo di Lee County nell'Iowa, è un bluesman bianco con all'attivo diversi albums:
“Field Songs” è per l'esattezza il settimo. Il disco, molto ben illustrato e dalla splendida copertina rurale, si apre con suoni di uccelli e un malinconico banjo ad accompagnare la voce di William, ruvida e partecipe, alle ricerca dell'antico e glorioso sound del Mississippi River.
William pur avendo alle spalle più di dieci anni di carriera musicale lavora tutt'ora con la famiglia nella sua isolata fattoria, allevando cavalli: una volta era intento a tagliare la legna quando fu avvertito che la compagnia discografica lo cercava al telefono(!).
“Field Songs” parla di lavoro agricolo, battelli a vapore e di morte, è dalla parte dei nativi americani, con la vita nei campi come ancora di salvezza dalle comodità odierne: è un disco molto raccolto ed intimista, con scarni accompagnamenti strumentali.
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Dovendo trovare dei paralleli citeremmo
“Nebraska” di
Bruce Springsteen, un suono debitore della più tipiche american roots , anche se
folk protest music rende meglio l'idea. L'uniformità del lavoro non fa preferire un brano ad un altro: l’invito é ad ascoltarlo nel suo insieme senza pregiudizi di sorta. Whitmore non è il nuovo Bob Dylan, nè un nuovo menestrello, soltanto un onesto e sincero interprete di una musica che pensavamo ormai dimenticata nel cassetto. Per promuovere questo ultimo lavoro si è imbarcato in un tour acustico, che le cronache narrano completamente sold-out, in compagnia niente di meno che con il frontman dei Soundgarden Chris Cornell, e probabilmente la sua presenza e la dimensione live farà accrescere il valore di queste canzoni campagnole.
Ricardo Martillos
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EVERYTHING GETS GONE
DON'T NEED IT LIVE
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