mercoledì 9 marzo 2011

PUNK - IDOL LIPS: “Scene Repulisti” (2011 Nerdsound Records-White Zoo records)

Ritornano gli Idol Lips dopo “Too Much For The City” buon disco d’esordio che piacque molto a noi fans dei mai dimenticati Dead Boys e Heartbreakers. Nel frattempo ci fu la defezione del cantante, il gruppo decise di proseguire ugualmente,e Tony Volume il chitarrista si prese la briga di cantare. Il risultato fu ottimo, e la conferma l’ho avuta vedendoli dal vivo e soprattutto sentendo questo nuovo lavoro. Si chiama “Scene Repulisti”: non riesco piu’ a toglierlo dal mio player cd, anzi mi sono fatto pure una versione mp3 da ascoltare sul mio ipod. 10 pezzi fatti apposta per far uscire l’anima piu’ degenere che c’è in voi. Gia’ dalla prima track si respira un’aria malsana con la killer application, Down By L.u.v, pezzone glam con tanto di coretti transex che a me piacciono molto. Hey Baby, che non sfigurerebbe in un album dei Turbonegro e D.t.k., sporco r’n’r stradaiolo.
I Don’t Want You Around
altro pezzo killer, dove si incontrano Johnny Thunders e gli Stooges periodo “Raw Power”. Una pausa, (si fà per dire) con Soul Power, e qui aleggia nell’aria l’iguana periodo “Kill City”, e si continua con Desperate e Rockin’ On A Rock, 2 buone tracks ma è con You Gotta Choose che come canterebbero i Turbonegro, 'i got erection'. Pezzo punk rock con influenze glam e un ritornello che fischierete all’infinito. Infine More Than Fun, lento nell’andatura ma cattivo e pesante nel contenuto, e I Gotta Gun sporco al punto giusto. Insomma una bomba di disco e se siete appassionati del genere non dovete farvelo sfuggire.
Piccola nota: questa è la versione cd, uscirà tra breve anche una versione vinile per la White Zoo Records.

Marco Colasanti

My spaceIdolLips

SHORT REVIEWS – SEXSAINTS “Brain Up” (2011, autoprodotto) - Il giovane Punk capitolino -

Da oggi la capitale è in balia di un manipolo di manigoldi. I SexSaints danno alle stampe un e.p. d'esordio al fulmicotone.“Brain Up” (che potete ascoltare integralmente alla fine dell'articolo) un cd stracolmo di rabbia adolescenziale, violento come un film gore giapponese e veloce e pericoloso come un treno senza guida.
Figli illeggitimi dei Circle Jerks e Discharge, con una spruzzatina di Motorhead il tutto concentrato in 8 tracce che complessivamente arrivano a una decina di minuti scarsi. Ma sono dieci minuti che lasciano il segno. Visti recentemente dal vivo questi quattro giovanissimi non fanno che confermare la mia buona impressione. Hardcore punk vecchia scuola, potente e senza compromessi.

Testo e Foto di Marco Colasanti

Brain Up

goodbye Tommy
love is out/brain up
bring it all back

down the drain
the wrong side
blame/self distruction
destroy your scene
just dead

MySpaceSexSaints

LIVE REPORT: “Zombie Zombie” (28/02/2011, Roma, Circolo degli Artisti)


C’è grande attesa per l’evento Zombie Zombie a Roma. Arriva direttamente da Parigi una delle più interessanti proposte electro-psych del momento, che fonde le sonorità elettroniche con la psichedelia più visionaria. Etienne Jaumet (tastiere e synth) e Cosmic Neman (batteria e percussioni) presentano il loro “Zombie Zombie plays John Carpenter” (2010, Versatile Records), un intrigante e apprezzatissimo lavoro.






“Zombie Zombie plays John Carpenter è un progetto nel quale il duo francese recupera e interpreta le sonorità horror minimali del grande regista newyorkese John Carpenter (noto per essere anche l’autore delle colonne sonore dei sui film), diventato famoso per “Assault On Precinct 13” (1976), “Halloween” (1978), “Escape from New York” (1981), “The thing” (1982), “They Live” (1988).





Zombie Zombie: Il Concerto

Arrivo al Circolo degli Artisti verso le 22.15, giusto in tempo per apprezzare la brava Mushy (Mushy), sperimentatrice sonora che ci conquista con la sua elettronica blues, malinconica e decadente, molto evocativa. La sala è ormai piena e verso le 23 gli Zombie Zombie iniziano a suonare Assault On Precinct 13, un vero e proprio salto nel passato che ci fa rivivere la musica synth degli anni ’80 e le allucinate atmosfere horror di quegli stessi anni. Probabilmente anche Etienne Jaumet come me, nei primi anni ’80 ancora ragazzo, metteva da parte quei pochi soldi che gli permettevano di andare al cinema a vedere i film di John Carpenter, George Romero, David Cronenberg, Ridley Scott, Ken Russell, film che dietro la facciata di una fantascienza horror, più o meno convenzionale, nascondevano in realtà forti messaggi di contestazione politica. Etienne Jaumet dà l’impressione di essere un ragazzone che ha deciso di rimanere tale.
Con un paio di occhialoni vintage dalla montatura spessa, lo vediamo circondato da macchinari di vario tipo, tra synth, tastiere, apparecchiature old style e marchingegni vari, mentre verifica costantemente che i suoni prodotti dalle sue strumentazioni si annodino perfettamente nella trama del tessuto sonoro.
Cosmic Neman, di contro, picchia senza sosta i tamburi per creare un muraglia di battiti e di percussioni, sino a ridursi, a fine concerto, ad un uomo praticamente sfinito. Con Escape from L.A. ed Halloween, gli Zombie Zombie confermano che la loro non è una semplice celebrazione nostalgica delle colonne sonore del grande regista newyorkese, ma una rilettura appassionata capace di esaltare lo spirito psichedelico di quei viaggi horror, dilatandoli in una sorta di trance ipnotica che cattura e trascina. L’intreccio tra synth/tastiere e batteria/percussioni funziona, funziona davvero bene. Il pubblico mostra di gradire.
Con The thing (il pezzo più significativo dell’album, non a caso scritto da Ennio Morricone) il gioco si fa davvero duro e le atmosfere psichedeliche si intrecciano in una trama sempre più avvolgente ed incalzante, che fa aumentare enormemente il pathos nell’attesa di un evento spaventoso che potrebbe accadere da un momento all’altro. Etienne Jaumet mostra inoltre di saper suonare anche il sassofono e lo utilizza per inserire variazioni più sperimentali e personali al tema, mentre Cosmic Neman, in una pausa defatigante, si diverte a giocare con il Theremin, incitando il pubblico a ballare un coinvolgente trip. Con Escape from New York, ultimo brano della serata, i nostri amici parigini recuperano le sonorità retrò della versione originaria di Carpenter e le inseriscono in una sequenza beat martellante, per molti aspetti minimale, in una tensione via via crescente. Il pubblico applaude lungamente. Questo “Zombie Zombie plays John Carpenter” è certamente una grande narrazione, una evocazione allucinata ed amplificata delle inquietudini della nostra modernità.
Ed a pensarci bene, cos’è “The thing” di John Carpenter se non tutto questo? Una narrazione che gli Zombie Zombie hanno dimostrato di saper raccontare in un modo davvero magnifico.

Articolo e Foto di Felice Marotta

THE MYSTAKEN, "Sweet Lies" (Aprile 2010, Grabaciones De Impacto)

A volte avere tutti gli assi nella manica non garantisce nulla. Lo sanno gli australiani Mystaken, il cui album di debutto “Sweet Lies” sembra non aver lasciato traccia del suo passaggio, nonostante porti la firma di due personaggi d'eccezione dell'aussie rock come Dom Mariani (The Stems) e John Nolan (Bored!, Powred Monkeys), nonostante l'artwork sia curato da Rick Chesshire e nonostante sia un gran bel disco.
Il quartetto di Melbourne produce un robusto rock'n'roll che vira verso l'hard rock in Trash, brano che vede Nolan alla chitarra, la psicadelia nella strumentale B. B. and S., il power pop in Red Telephone e il punk rock in Innuendo e Kisses.
A volte suadente e sognante, a volte decisa e potente, la voce di Maria Sokratis si sposa quasi alla perfezione con le melodie. Probabilmente, si sarebbe potuto fare a meno di accenni a quello stile di canto 90s, vedi Kat Bjelland o Sparks/Gardner, che rendono a volte la voce troppo forzata. L'esperta chitarra di Mariani produce il pezzo migliore dell'album, You better go now, un leggero power pop sospeso tra echi di 60s pop.
Chicca finale, una sensualissima cover dell'intramontabile Strychnine.
I dischi che riescono a non essere mai uguale a sé stessi hanno sempre una marcia in più ed è tempo che questa piccola gemma esca allo scoperto.
Crizia Giansalvo

GaragePunkHideoutTheMystaken
Grabaciones De Impacto

ITALIAN ROCK CONNECTION - Italian '70 Progressive: "IL BALLETTO DI BRONZO"

Il Balletto Di Bronzo

Il Balletto di Bronzo è una storica formazione del Progressive rock italiano che realizzò due ottimi album nei primissimi anni 70. Il gruppo si forma a Napoli verso la fine degli anni ‘60 con la denominazioni di Battitori Selvaggi e la prima formazione del gruppo comprende Raffele Cascone (chitarra), Michele Cupaiolo (basso), Marco Cecioni (voce) e Gianni Stinga (batteria). Il complesso non incise nulla a livello discografico e muta successivamente nome in Balletto di Bronzo ingaggiando il chitarrista Lino Ajello proveniente dai Volti di Pietra, altro complesso napoletano senza incisioni discografiche all’attivo. Con questa formazione riescono ad avere il primo contratto discografico per la ARC e danno alle stampe
il loro primo 45 giri, Neve Calda/Cominciò per gioco”, edito nel 1969.
La prima facciata è un trascinante brano rock che troverà poi posto nel successivo album e all’interno del brano si colgono già i primi vagiti progressivi che esploderanno poi in "Ys". Il pezzo godrà anche di una versione in lingua spagnola. La seconda traccia è meno esplosiva, più ragionata, con maggiori influenze Beat e richiami anche al Blues e alla Psichedelia. Un accenno particolare va alla chitarra di Cascone, che regala al brano partiture psichedeliche. Questo brano non sarà mai inciso su un 33 giri. L’anno seguente, nel 1970, il Balletto pubblica il loro secondo 45 giri, “Sì, mama mama/Meditazione”, opposto per la collocazione dei brani: la prima facciata non verrà mai pubblicata su album, mentre il retro finirà su "Sirio 2222". Le due canzoni sono qualitativamente inferiori rispetto al 7” d’esordio, in quanto il suono è parecchio ammorbidito e c’è una maggiore propensione alla forma canzone e alla melodia.

Sirio 2222

Sempre nello stesso anno viene dato alle stampe per la RCA il loro primo 33 giri, “Sirio 2222”. L’album è un efficace miscuglio di Hard Rock e suoni propriamente britannici; la traccia d’apertura, Un posto è un inizio estremamente chiaro per l’ascoltatore: solido riff chitarristico e ritmica coinvolgente. Anche la sesta traccia dell’album, Girotondo, ha sonorità molto ruvide, con un suono molto squadrato e un suono zeppeliniano. Missione Sirio 2222 è forse il motivo che meglio esprime e sintetizza il suono del gruppo: è una composizione di quasi 10 minuti e ha un inizio acustico con arpeggi delicati e tranquilli. Dal secondo minuto comincia il brano vero è proprio, dove emergono suoni più progressivi e passaggi più tirati. L’atmosfera cambia faccia e intorno al minuto numero quattro c’è una parte molto Rock, seguita da un assolo di batteria che fa da spartiacque: dapprima, infatti, vi è nuovamente una parte più tesa, seguita da una chiusura simmetrica a quella che era la parte iniziale del brano. Incantesimo è a mio parere l’altro apice dell’album: chitarra hendrixiana, batteria squadrata e un suono molto sporco. Altro punto a favore sono i lamenti distorti della chitarra, quasi a voler imitare Jimi Hendrix in If 6 was 9, con i dovuti paragoni s’intende. Le rimanenti tracce lasciano poco spazio al commerciale e sono tutte dei riusciti miscugli di Rock e momenti più tranquilli. L’album non ebbe il successo sperato e nel 1971 e Cecioni e Cupaiolo abbandonano il gruppo per il mancato rinnovo di contratto da parte della RCA. I musicisti che li sostituiscono sono Vito Manzari (basso), proveniente da Quelle strane cose che , e Gianni Leone (voce, tastiere) proveniente dai Città Frontale. Il gruppo per poco tempo suonò con una formazione a cinque, ma l’esperimento non si concretizzò.

Ys

Nel 1972 la formazione cambia etichetta, la Polydor, e pubblica quello che è il loro capolavoro, "Ys".
L’album è composto da cinque brani, ai quali verrà aggiunto La tua casa comoda nell'ultima stampa in cd. Ys è un concept album tra i più riusciti dischi del Progressive Rock: narra la storia dell’ultimo uomo sopravvissuto sulla terra, che compie tre incontri durante il suo disperato viaggio alla ricerca di altri essere umani a cui deve raccontare la verità, prima di inabissarsi nel buio più profondo come fece l’antica isola di Ys, inghiottita dalle acque marine. Il suono dell’album risente fortemente delle atmosfere delle tastiere di Leone e il risultato è un sorprendente agglomerato di dark, atmosfere oscure, suoni tetri e complessi, che si combinano ottimamente con le robuste chitarre di Ajello.
Il lavoro inizia con Introduzione (part 1) (part 2), ampio brano di 15 minuti che spazia verso molteplici atmosfere. L’inizio è quasi spettrale, con un coro di voci dissonanti ad aprire la composizione; immediatamente si aggiunge l’organo e una voce che declama liriche inquietanti. Il motivo è una sorprendente fusione di giochi tastieristici, suoni sintetizzati, liriche apocalittiche e una batteria ottimamente presente. Effetti sonori, cambi di tempo, colpi di scena e un’ottima qualità sonora generano un forte coinvolgimento emotivo nell’ascoltatore che non può fare altro che ascoltare ammaliato l’album. Una traccia molto complessa e variegata quindi, che si può collocare tra i brani di maggior pregio del Prog Italiano. Primo incontro è il naturale seguito di Introduzione e ha un portentoso gioco di rullate, organo e partiture di chitarra nella parte centrale.
La seconda facciata ha inizio con Secondo incontro, altro brano pregevole con atmosfere epiche, liriche intense e una trascinante sezione musicale. Come per le altre canzoni è la predominanza di chitarre e tastiere a imperare e a rendere caratteristico il suono dell’album. Terzo incontro inizia con un ipnotico giro di basso, a cui seguono tastiere che si fanno via via più jazzate, seguite da giochi di Moog e liriche seducenti. La traccia finale, Epilogo ha inizio con un avvincente gioco progressivo di organo, basso e batteria. Sono molteplici le atmosfere che si respirano e all’interno regna una certa inquietudine: suoni foschi, pathos e suggestione portano l’ascoltatore alla conclusione dell’album, che termina simmetricamente al suo inizio.

Ys porta molta notorietà al gruppo, che diventa uno dei più richiesti nel periodo delle manifestazioni concertistiche dei festival Pop e partecipa prima al secondo trofeo Davoli Pop di Reggio Emilia, suonando nel palasport e giungendo secondo, e successivamente all’importante Be In di Napoli, presentato dall’onnipresente Eddie Ponti. Il Balletto in seguito inizia a lavorare per il terzo album, ma alcune incomprensioni fra i vari membri del gruppo portano alla rottura del progetto e il fatidico terzo disco non vedrà mai la luce. Il gruppo, ormai ridotto ai soli Leone e Stinga, realizza però un ultimo 45 giri, “La tua casa comoda/Donna Vittoria”, pubblicato per doveri contrattuali nel 1973 e successivamente si scioglie. Gianni Leone iniziò quindi una carriera solista con lo pseudonimo di Leonero, pubblicando due ellepi con le influenze musicali che verso la fine del decennio arrivavano dalla Gran Bretagna, "Vero" nel 1977 e "Monitor" nel 1980. Successivamente, nel 1990, uscì un’interessante raccolta con inediti e rarità intitolata “Il re del castello”. Al suo interno c’erano sette brani composti nel periodo 1969-1970, fra i quali canzoni scartate e mai pubblicate e due versioni in spagnolo. Sempre in tema di curiosità segnalo anche l’esistenza di una versione in lingua inglese di Ys, che venne solo abbozzata all’epoca e mai completata; tuttavia è stata comunque pubblicata nel 1992 dalla Mellow Record su cd.
Sempre Leone, sul finire degli anni ’90, riforma il gruppo per una serie ci concerti dal vivo e nel 1999 decide di pubblicare un live album contenente anche nuove registrazioni pubblicate per l’occasione. Da diversi anni il Balletto di Bronzo, come tutto il Rock Progressivo Italiano, gode di una seconda giovinezza e Ys è stato ristampato nel 2010 per la raccolta Progressive Italia distribuita dalla Universal.

Massimiliano Bruno

Il Balletto Di Bronzo- Meditazione
balletto di bronzo spanish

Discografia Il Balletto di Bronzo

Albums:
Sirio 2222 (1970, RCA)
YS (1972, Polydor)
Il Re Del Castello (1990)
Ys - English Version - (1992, Mellow Record)
Ys ristampa (2010, Progressive Italia/Universal)

martedì 8 marzo 2011

VISIONI DAL FUTURO: "DUBSTEP" ('Hyperdub label', Kode9, Burial, Scuba, Vex’d)

Nel panorama delle espressioni musicali contemporanee un ruolo altrettanto importante del rock lo svolgono le musiche elettroniche. Tra queste uno dei filoni più interessanti è quello del "Dubstep". Si tratta di musica molto lenta, spettrale, con bassi profondissimi, batteria elettronica in battuta bassissima e con voci ed altre parti strumentali con pura funzione di contorno. É una musica molto evocativa, apocalittica, da fine del mondo. Il Dubstep si può considerare la continuazione del primo trip hop, quello dei gruppi di Bristol (Massive Attack, Tricky, Portishead), reso ancora più estremo e catacombale. Le prime incisioni del genere arrivano nel 2005 per l'etichetta Hyperdub, fondata qualche anno prima come webzine da Steve Goodman, che incide anche dischi come Kode9 in coppia con Stephen Samuel Gordon alias The Spaceape. “Memories of the future” (2006) il loro disco più importante. Brani come Black sun mantengono i ritmi spezzati della jungle ma abbinandoli con atmosfere di tregenda, 2 far gone è minimale e ripetitiva. La solenne 9 samurai è più nelle coordinate del genere.
Le opere più interessanti dell'etichetta Hyperdub sono quelle di Burial, soprattutto “Untrue”(2007). Burial, giovanissimo, è uno dei personaggi più misteriosi del mondo della musica. Non si conoscono l'identità ed il suo volto, non rilascia interviste ma solo brevi dichiarazioni attraverso il libretto dei dischi. Brani come Untrue, percussioni ritmate, voci lontane e ondate di tastiere descrivono un mondo in rovina. Endorphine con le sue voci infantili o Near Dark, appena più ritmata, sono ancora più inquietanti. Altri capisaldi del genere sono “A mutual antipathy“ (2008) di Scuba, alias Paul Rose e “Cloudseed” di Vex'd, ossia Jamie Teasdale e Rony Porter, uscito nel 2010 ma contenente registrazioni dell'inverno 2006/7. Un titolo come Systematic decline di Scuba è già programmatico per chiarire la visione del mondo degli artisti Dubstep. La musica di Scuba, strumentale, è però meno deprimente e più melodica rispetto a Burial, vedi Disorder o Poppies, sempre però in battuta bassa e suoni plumbei.
Vex'd sono senz'altro i più originali del lotto. Ascoltate il loro remix del Quartetto No° 2 di Prokofiev, trasformato in rumorismo quasi puro. Incubi tecnologici come Killing floor o Heart space con la voce sottile di Anneeka, avvicinabile ai primi Portishead ma molto più radicale, non sono certo consigliabili per un picnic o una festa scolastica, ma hanno un innegabile fascino perverso.
Altre uscite interessanti, tra le più recenti, “Consolamentum (qui a sinistra) di Richard A. Ingram, leader dei postrockers Oceanside e “Voices of Dust” (qui sotto a sinistra) dei Demdike Stare (Sean Canty e Miles Whittaker). Con loro si sfiorano l'industrial e la musica atonale: Forest of evil piacerebbe ai fans di David Lynch, Bardo Thodol ha inserti etnici, Rain and shame evoca fantasmi.
Tutto sommato il Dubstep è la nuova incarnazione di quell'anima gotica, o dark, che permea tutta la musica inglese, dai Black Sabbath alla musica industriale passando per il post punk: si mantengono i tempi lenti e il predominio del basso, con suoni campionati al posto delle chitarre o dei sintetizzatori. Dominano le atmosfere plumbee, da periferia industriale depressa, una rappresentazione del mondo come nella fantascienza più pessimista. Potremmo dire che il Dubstep è la perfetta rappresentazione artistica/musicale dell' “idea di futuro come minaccia”, secondo la formula dello psicoanalista Miguel Benasayag. Però ha un suo fascino morboso, quello di un horror in bianco e nero, o di una performance di arte contemporanea. Musica non per tutti, che richiede un ascolto attento, la più rappresentativo dei tempi in cui viviamo.

Alfredo Sgarlato

"Dubstep" Discografia Essenziale:

Kode9 : “Memories of the future" (2006)
Burial: “Untrue”(Hyperdub, 2007)
Scuba: “A mutual antipathy“ (2008)
Vex'd: “Cloudseed” (2010)
Richard A. Ingram: “Consolamentum”
Demdike Stare: "Voices of Dust”

lunedì 7 marzo 2011

SHOEGAZE: "Origine e fine (?) di un genere" - My Bloody Valentine, The Jesus And Mary Chain, Ride, Slowdive ...

Le origini e la storia dello Shoegaze

Curioso destino quello di un genere musicale di essere definito dall’atteggiamento immobile tenuto dai musicisti i quali rimanevano in tale posizione osservando il pavimento della scena (o piuttosto le proprie scarpe) mentre suonavano, giustificando in tal modo, del tutto inconsapevolmente, il termine che ne è derivato: “Shoegaze”. A questo proposito, onde non generalizzare eccessivamente, vanno fatte un paio di precisazioni. A coniare inizialmente il termine con cui venne poi identificato il genere musicale in questione fu la rivista britannica “Sounds”, seguita a ruota da numerose altre riviste di settore. Il termine esatto adoperato in tale occasione fu ‘shoegazer’ riferito per l’appunto a colui o coloro che adombravano sulla scena quella postura caratteristica volta a 'guardare le scarpe'. Solo in seguito tale parola, nella parlata quotidiana venne troncata e divenne ‘shoegaze’ o ‘shoegazing’ con il significato non tanto di colui che 'guarda le scarpe' ma di genere riferito a coloro che volgevano lo sguardo in basso, sul pavimento.
In realtà dunque, lo shoegaze non si riduceva evidentemente ad un aspetto puramente scenografico o “spettacolare” ma divenne piuttosto una definizione identificativa di una ben precisa espressione sonora fino ad allora mai manifestatasi apertamente con queste caratteristiche. E questa precisazione è indispensabile per sgombrare il campo da molte e talvolta opportune obiezioni che si potrebbero fare sulla genesi reale del genere shoegaze. La storia della musica è un campo disseminato di molti semi ed è spesso assai difficile conferire una patente di originalità ad un frutto maturo senza correre il rischio di dimenticare tutti i frutti maturati precedentemente verso cui si rimane in una qualche misura debitori.
Tuttavia, non volendo in questa sede approfondire una disamina sulle origini del genere shoegaze che ci porterebbe assai lontano con il rischio peraltro fondato di giungere a conclusioni opinabili, ritengo più utile rimanere nel tracciato universalmente riconosciuto nel fissare le origini di questo particolare genere musicale pur non disdegnando un paio di veloci considerazioni personali (peraltro condivise da più parti).
Lo shoegaze databile intorno alla fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 fu in origine un’espressione musicale tipicamente britannica e identificata come una variante del rock alternativo. A voler essere pignoli, molta critica posteriore ha fortemente messo in dubbio l’esistenza stessa di un genere shoegaze, quasi si trattasse di un’ 'invenzione' senza alcuna sostanziale connotazione di novità, ascrivibile soltanto a certa stampa che con compiacimento (ogni novità vale pur sempre qualche copia venduta in più) coglieva ogni possibilità per suscitare curiosità attorno a nuovi movimenti e musicisti. La definizione data al genere ebbe tuttavia successo e questo nonostante risultasse assai poco gradita agli stessi protagonisti. Le caratteristiche più evidenti e identificative dello shoegaze comprendevano una manipolazione in special modo delle chitarre fino a creare quel tipico muro di suoni che costituisce una delle particolarità del genere e che per l’appunto induceva i musicisti coinvolti ad un controllo costante degli effetti che ne scaturivano da cui l’esigenza di volgere lo sguardo verso il basso. Suoni che sfociavano in distorsioni, riverberi, improvvisi scivolamenti nel silenzio e lenta 'ricostruzione' del muro sonoro quasi si trattasse di suoni appesi ad un orizzonte lontano, nuvole gonfie di pioggia, stratificazioni avvolte dalla nebbia con le voci degli interpreti dai toni spesso sognanti, evocativi e quasi privi di consistenza pur se in un percorso musicale che si trascinava in avanti come un drappo infinito. Il tutto teso a 'riformare' quasi la consuetudine di trovare nelle note melodie frutto di accordi tradizionali, ormai del tutto assenti.
Lo shoegaze ha avuto in fondo una vita brevissima che si può quantificare in non più di 3-4 anni e tuttavia ha dato il via alla nascita di un numero incredibile di bands ma anche di varianti del genere fino a 'contaminare lo slow-core, la musica ambient, persino la space music e il rock in generale in tutte le sue espressioni posteriori. Numerose bands shoegaze sono nate lontano dalla patria di origine, negli Stati Uniti, in Oriente, in Italia a dimostrazione del fatto che il genere ebbe la capacità di identificare in sé vocazioni e desideri che affascinarono molti, lasciando una vivida traccia del proprio passaggio fino ai nostri giorni.


My Bloody Valentine, "Isn't Anything"

Volendo identificare in questa breve ricognizione dello shoegaze un punto di partenza e quindi una band-un disco ritengo che si possa facilmente convenire che gli autentici pionieri del genere furono i My Bloody Valentine con il loro primo album dal titolo “Isn’t Anything” (1988, Creation). Un album complesso, probabilmente non di facile presa, ricco di architetture spesso distanti fra loro ma è tra questi solchi che il mondo dell’epoca ha visto nascere un suono nuovo tanto da conferire ai My Bloody Valentine il ruolo di iniziatori del genere shoegaze. Un esempio evidente è rappresentato da questi due brani tratti dall’album (Nothing Much to Lose - All I Need) nel quale lo shoegaze delle origini trova la sua piena realizzazione. E il brano successivo Lose My Breath vede i My Bloody Valentine prefigurare tutte le caratteristiche peculiari di un genere che ben presto vedrà lo shoegaze approdare in territori avvolti da una luce sfocata, perennemente avvolti da una nebbia impenetrabile in cui solo il suono sembra concedere una possibilità alla vita.


The Jesus and Mary Chain, "Psychocandy"

Ammesso e non concesso che i Bloody Valentine abbiano ottenuto a ragione la palma di ‘fondatori’ del genere shoegaze non si può assolutamente tacere il fatto che ancor prima del loro album suddetto, già nel 1985 esordiva una band scozzese, The Jesus and Mary Chain dei fratelli William e Jim Reid con un album, “Psychodandy” (1985, Blanco Y Negro) che va considerato una pietra miliare per le innovazioni che ne sono derivate e per aver tracciato, senza dubbio alcuno, la via maestra dello shoegaze.
Atmosfere eteree, paesaggi sognanti, sovrapposizioni melodiche a feedback e un gran numero di distorsioni sono le caratteristiche peculiari di un sound completamente virato verso un percorso fino ad allora ignoto e che indusse a considerare gli strumenti (e la chitarra in primo luogo) come fonte di suoni ben lontani dalla tradizionale costruzione armonica sebbene un evidente debito in tal senso vada pagato a band come i Velvet Underground ma ecco che rischieremmo di fare un percorso a ritroso nella storia della musica.
Il brano di apertura di “Psychodandy” era Just like honey che fin dall’attacco è un perfetto, magnifico esempio di shoegaze con i componenti della band che hanno già lo sguardo rivolto verso il basso, concentrato sugli strumenti. Album che non è affatto esagerato definire leggendario .
You trip me up
Never understand
Cut dead
Taste of Cindy
Sowing Seeds
My little underground
Something's Wrong



Cocteau Twins, "Head Over Heels"

Una citazione va fatta anche per un’altra band fondamentale che merita indubbiamente un posto nel novero del movimento shoegaze per quanto non ascrivibile a questo genere: i Cocteau Twins. Questa band scozzese, formatasi nel 1979 e quindi molto prima che il movimento shoegaze prendesse piede, aveva già elaborato toni e sonorità che possono considerarsi antesignani del genere. Il secondo album della band in particolare (priva ormai del batterista Will Heggie), dal titolo “Head over heels” (1983, 4AD) vede Elizabeth Fraser protagonista di un simbolico trapasso dalla dark wave ad atmosfere quanto mai rarefatte con il connubio fondamentale dei muri sonori apportati dalla chitarra di Robin Guthrie. Un album emozionante che contiene già evidenti le impronte del genere shoegaze in divenire nelle sue espressioni più malinconiche ed intimiste ma anche e soprattutto nell’approccio sonoro di Robin Guthrie.
Sugar Hiccup
In Our Angelhood
Five Ten Fiftyfold
The Tinderbox (Of a Heart)


Quale che ne sia l’origine autentica, il genere shoegaze ha catalizzato da subito su di sè un grandissimo interesse e numerosissime bands si sono affacciate da allora sulla scena, con risultati più o meno degni di nota. Inutile dire che solo nominare quelle più rappresentative richiederebbe un lungo capitolo appositamente dedicato. In questa sede dunque, per puro diletto ma certo di stuzzicare comunque la curiosità dei neofiti per un approccio al genere trattato, mi limito a citare un paio di album da cui propongo interessanti estratti.


Ride, "Nowhere"

Il primo album in questione è “Nowhere” dei Ride (1990, Creation). Originari di Oxford, i Ride sono stati inizialmente fra i rappresentanti più interessanti della scena shoegaze britannica per passare poi, dopo alterne vicende, a percorrere strade ben diverse. L’album in questione, che costituisce il debutto discografico della band, rimane ad ogni modo fra i capisaldi e certamente uno dei più distintivi del genere shoegaze. Val la pena sottolineare a questo punto che All Music Guide ha definito “Nowhere” fra i più importanti in assoluto nella storia dello shoegaze.
Seagull
Kaleidoscope
In a different place
Polar bear
Dreams burn down
Decay
Paralysed
Vapour trail




Slowdive,“Just for a day”, "Souvlaki"

Fra le mille bands che hanno lasciato una traccia indelebile nel panorama dello shoegaze non ci si può esimere dal citare ancora gli Slowdive (quella che personalmente ho amato di più) che incarnavano anche nel nome tutte le caratteristiche del genere. I primi due album della band sono fra i “punti cardinali” dello shoegaze, da più parti considerati fra i più belli in assoluto, e hanno lasciato una traccia profonda in molte bands che ne hanno seguito le orme. Gli Slowdive si formarono nel 1989 e pubblicarono il loro primo album "Just for a Day" nel 1991 per la Creation Records, ormai alle soglie della parabola discendente dello shoegaze. La band chiuse il suo percorso artistico nel 1995 con il suo terzo ed ultimo album che è stato a lungo al centro di una controversia circa le coordinate stilistiche adottate dalla band in quell’ultima occasione. Da quella magnifica esperienza nacquero poi i Mojave3. Ma questa è già un’altra storia.
Spanish air
Celia’s dream
Catch the breeze
Ballad of sister blue
Brighter
The sadman
Primal

Ed ecco un’ampia presentazione del successivo album degli Slowdive, “Souvlaki” (1993, Creation), senza dubbio il loro lavoro più maturo e convincente che vede addirittura la presenza di Brian Eno in un paio di brani alle tastiere oltre che in veste di produttore dell’album. Il disco ebbe anche una sua versione per il mercato statunitense. Paragonati agli stessi My Bloody Valentine o ai Cocteau Twins gli Slowdive riuscirono a toccare con “Souvlaki” uno dei vertici assoluti dell’esperienza shoegaze. Brani come Machine Gun (con la voce eterea e sognante di Rachel Goswell e un muro sonoro da mettere i brividi), la brevissima Here she comes (con l’inconfondibile voce di Neil Halstead e le tastiere di Brian Eno) o la straordinaria Souvlaki space station e When the sun hits sono vere e proprie gemme del firmamento shoegaze, ormai parte della storia della musica.
Allison
40 days
Sing
Altogether
Melon yellow
Dagger


My Bloody Valentine, "Loveless"

Con le date e le determinazioni cronologiche si rischia di prendere sempre dei sonori abbagli, specie se l’argomento è quello di una storia della musica. Non va di certo diversamente con la necessità di stabilire la fine del genere shoegaze propriamente detto, senza tenere conto di tutte le derivazioni e le influenze posteriori. In linea di massima però lo shoegaze trova il suo punto d’arrivo nel secondo, straordinario, sofferto album degli irlandesi My Bloody Valentine che dopo aver dato l’avvio al genere, simbolicamente ne determinarono anche la “fine”. “Loveless” (1991, Creation) dato alle stampe alla fine del 1991 costituisce il raggiungimento dell’espressione massima del genere tanto da essere universalmente riconosciuto come l’album nr. 1 dello shoegaze e fra i più grandi della musica in generale. Un album avvolto da un’aura di leggenda, con una certosina ricerca di soluzioni sonore innovative, incisioni interminabili, snervanti sessioni di registrazione, difficoltà di ogni genere, non ultime quelle economiche per gli elevati costi di produzione e realizzazione del disco. Un album che, a prescindere dal genere di riferimento, tutti gli amanti della musica dovrebbero aver ascoltato nella vita almeno una volta. Il disco iniziava con questo brano, Only shallow, sintesi perfetta del genere shoegaze in uno stato di grazia.
To Here Knows When
When you sleep
I only said
Come in alone
Sometimes
Blown a wish
Soon


La fine (?) dello Shoegaze

La parabola del genere "shoegaze" chiudeva così il suo breve percorso dopo un fiorire di bands che avevano dominato le pagine della stampa specializzata e le classifiche indie per almeno tre-quattro anni. Quasi nessuna di queste bands ebbe modo di approdare al mercato USA e quindi di prolungare nel tempo il proprio percorso artistico e, nella maggior parte dei casi, vennero semplicemente spazzate via dall’arrivo del “grunge” e del britpop in Gran Bretagna. Molti gruppi si sciolsero, altri si avviarono su altre strade. Ma questa in fondo è sola una mezza verità. In realtà lo shoegaze rimase ben vivo sotto la cenere e continuò a dare vita ad esperimenti di derivazione che andarono sconfinando in generi assimilabili. Ne venne fuori così un costante, continuo sviluppo del genere che seppure lontano dalle caratteristiche “pure” delle origini ha continuato a mantenere una cifra stilistica comune che è giunta fino ai tempi nostri e che è riconoscibile in un numero impressionante di bands!
Certamente ne riparleremo.

Roberto Melfi


SHOEGAZING Selection by Federico Porta e Marco Colasanti: Fifteen Shoegazing Songs