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sabato 14 maggio 2011

VALENTINA GRAVILI: “La balena nel Tamigi” (2011, autoprod.)

Valentina Gravili,  dopo aver vinto nel 2001 il Premio Ciampi col primo album “Alle ragazze nulla accade per caso”, ottimamente accolto dalla critica, ha scelto di autoprodurre il nuovo, “La balena nel Tamigi” e di renderlo scaricabile gratuitamente sul suo sito oppure  venderlo ai propri concerti. Il disco è prodotto da un nome importante, Amerigo Verardi, ex membro di una band che ho amato moltissimo, gli Allison Run e poi dei Lula, oltrechè responsabile della produzione, tra gli altri, dei Virginiana Miller e soprattutto dei primi due album dei Baustelle. Questo precedente ha fatto sì che Valentina sia stata paragonata alla band di Montepulciano, ma la maggiore somiglianza con  quest'ultima la si può trovare nell'ironia presente nei testi più che nello stile musicale. Il primo brano, Avvenne ad un tratto, inizia con una romantica parte di archi, ma subito il ritmo si fa veloce e il pezzo assume armonie folkeggianti. L'uomo del bonsai è un brano d'atmosfera con chitarre e tastiere molto liquide e una spizzicata di tromba. Nel finale appare anche un sax. La title track, ritmata e impreziosita da chitarre effettate a tratti vagamente shoegaze e da un organo anni '60, si ispira a uno strano fatto di cronaca ma parla delle persone che non riescono a trovare il proprio posto nel mondo, tema ricorrente nei testi di Valentina. Nena alterna momenti quasi progressive, con flauto e chitarra arpeggiata e altri lounge con tastiere dissonanti: qui siamo vicini ai brani più affascinanti de “La moda del lento” dei Baustelle. Testo impegnato, che ci riporta a un passato mai veramente passato. La malafede ha ritmo beat e belle chitarre psichedeliche, è la canzone più vicina alle esperienze di Verardi musicista. Anche qui i fiati fanno da spezie. B.B. è lenta, con arpeggi di chitarra acustica e flauti, i più anziani tra gli ascoltatori ritorneranno a memorie anni '70. Cellophan parte con synth e un bel giro di basso terminando poi con un finale molto orecchiabile e propone un testo incentrato sui luoghi comuni. C'è stato un tempo in cui spesso ballava è malinconica ma molto ritmata, con chitarre anni '60, il testo piacerà a chi vive in un condominio. John & Yoko non parla solo dei personaggi del titolo ma in generale degli idoli di gioventù. La casa nel bosco, lenta aspra e incalzante, chiude un album riuscito, molto fresco e cantabile, magari troppo pop per chi ama solo il rock più estremo, ma molto più interessante della muzak sanremese che passano le radio e le tv. I testi sono ritratti personali o momenti di vita, a volte ironici a volte più impegnativi, ma fortunatamente mai lagnosi. Un'altra dimostrazione di come nella scena italiana vi siano molti giovani talenti degni di nota  trascurati dal grande pubblico. Valentina Gravili canta con voce cristallina, acuta ma dolce e suona la chitarra. Verardi, Silvio Tricuzzi e Mario Baldassare si alternano a chitarre, tastiere e percussioni.
Alfredo Sgarlato

SAINT LIPS: "Charm" (2011, Dcave Records/No more fake labels)

Secondo lavoro per la band alternative rock romana, che dopo l’esordio del 2006 con il disco "Like Petals", apprezzato dalla critica, si tuffa con ancora più convinzione in questo album, nel quale i ragazzi sono cresciuti ancora  realizzando un lavoro che non mancherà di emozionare. Aiutati dal produttore americano Bobby MacIntyre, già collaboratore di Mark Lanegan e Greg Dulli, i Saint Lips maturano un sound che ha strutture  convincenti ed emozionali, che pescano nel rock alternativo americano e nella new wave di fine anni ’70. Ma non sono i soli ingredienti di questo meraviglioso melting pot: con Saviour la band confeziona uno stupendo brano, dove i saliscendi strumentali la fanno da padrone, sostenuto dalla voce carica di sentimento di Valentina, che BP Fallon, tour promoter di grandi artisti del rock tra i quali gli U2, ha definito, in un suo radio show, uguale a quella di Deborah Harry dei Blondie, tanto da far sospettare che in realtà sia lei a far parte dei Saint Lips. Le somiglianze con il sound della band newyorkese le si sentono bene in Little Sister, pop song fresca e solare, di facile presa e adatta alle programmazioni radio. Tra le song che mi hanno colpito di più c’è poi Summer Rain: altro saliscendi emozionale, tagliato improvvisamente da una sferzata di sintetizzatore e in cui fanno capolino i coretti in falsetto di alcuni membri degli Afterhours (anche Manuel Agnelli), prima che Marco e Antonio, i due chitarristi, si lancino negli assoli. Yourself, il brano dark che chiude il disco e viene visto dalla band come una liberazione psicologica, vede aggirarsi lo spettro di David Gilmour, nel doppio wah-wah che imita il rumore dei gabbiani e che qualcuno avrà sentito in Echoes. Non mancano le ballad, come Wake up, malinconica e trasognata. C’è tanto respiro internazionale in "Charm", molta personalità e maturità, soprattutto non ci sono momenti deboli: il segno che se una band indipendente lavora bene, ha le idee chiare, arrangia bene le canzoni (registrate in analogico, e da qui si sente il perché c’è un suono molto caldo) e struttura un disco come si deve, ha il diritto di arrivare lontano. Sognare, del resto, non è proibito.
Gianluca Merlin 
DCaveRecords

venerdì 13 maggio 2011

THOSE DANCING DAYS: "Daydreams and Nightmares" (2011, Wichita)

Dopo il primo album “In our space hero suits”, che mi aveva molto colpito nel panorama davvero prolifico dell’indie pop scandinavo, mi aspettavo parecchio dal secondo lavoro delle Those Dancing Days e devo dire che le ragazze di Nacka non hanno deluso le mie aspettative, facendo sì che il loro approccio da scolarette di liceo del primo disco si sia trasformato  in un suono davvero ben strutturato, deciso a solcare una strada più definita rispetto al lavoro precedente. “Daydreams and Nightmares” sotto l'egida Whichita / Cooperative vede la produzione di Patrick Berger, già responsabile del recente lavoro di Robyn e la sua influenza si manifesta parecchio in un disco che, ancor più del suo predecessore, si tinge di venature pop. Mancano forse i singoli da “colpo sicuro” come Hitten e Run Run, che avevano contraddistinto "In our space hero" ma I’ll be yours dalla potente coralità (e che sarebbe sicuramente stata una hit estiva del compianto John Peel) è perfetto per descrivere il nuovo sound della band, così come anche Can't Find Entrance e Keep me in your pocket, di stampo pop alla Cure. L’inizio carico di Reaching forward, con la perfetta base ritmica dell’inventiva batterista Cissi Efraimsson (vero elemento al centro del disco), l’approccio più rock che ora si nota anche dal vivo, in particolare nelle armonie chitarristiche affilate di Rebecka Rolfart come in I Know Where You Live pt. 2 e Fuckarias (primo singolo tratto da questo lavoro, dal titolo che in slang svedese indica i ragazzotti noiosi da cui scappare a gambe levate) e nella voce di Linnea Jonsson che ora si è fatta più incandescente, sono tutti segnali di un lento ma visibile cambiamento rispetto alle originali ritmiche più scanzonate dai ritornelli letali e gioia di vivere in formato canzone. Help me close my eyes fa intravvedere un background new wave di chitarra e synth che risulta in fondo un piacere inatteso. Fa capolino anche una spruzzata di post-punk, tanto in voga in questo periodo, come in brani quali Dream about me e When we fade away,  sintomo che le nostre sono state con le orecchie tese in questo periodo e capaci poi di fare loro i suoni che sentitio in giro. Il disco si conclude con una particolare One day forever (in duetto con Orlando Weeks dei Maccabees), bell’esempio di contrasti tra la vacuità della strofa sostenuta dalle voci e il deciso riff di chitarra saturata dai cori, sospeso tra una introspezione e introversione quasi in stile Sigur Ros. Un episodio, questo “Daydreams & Nightmares” del quintetto scandinavo che, seppur contenente ancora più sogni che incubi, sancisce la acquisita maturità, a conferma di una delle band più interessanti del panorama indie-pop scandinavo e non solo.
Ubaldo Tarantino
Wichita Recordings

giovedì 12 maggio 2011

BABY DEE : “Regifted Light” (2011, Drag City)

Baby Dee è una artista di Cleveland di quelle che potremmo definire “arrivate tardi”. Ha infatti inciso il suo primo lavoro “Little window” a quarantasette anni dopo una vita fatta di esperienze musicali e di vita tra le più disparate, quali suonare l’arpa (il suo primo amore dall’età di quattro anni) in una chiesa oppure mascherata da orso in Central Park o esibendosi come gatto fisarmonicista nel circo Bindlestiff e nel Kamikaze Freak Show. Arriva a collaborare con Antony and the Johnsons, Current 93, Marc Almond e Dresden Dolls, artisti con i quali condivide sicuramente un gusto per le atmosfere malinconicamente cabarettistiche e burlesque. E infatti, questo nuovo lavoro “Regifted light”, che segue l’ultimo “A Book of Songs for Anne Marie” dello scorso anno, è un tuffo di poco più di mezz’ora in atmosfere autunnali, dai colori volutamente in bianco e nero, con inserti color mogano e melodie cinematiche di altri temp,i che ben si accosta alle ambientazioni degli artisti sopra citati. A questo contribuisce sicuramente il fatto che solamente quattro dei dodici brani sono cantati, mentre il resto dell’album è strumentale, con al centro il pianoforte Stainway D della nostra che imperversa sin dal primo brano, Cowboys with Cowboy hat Hair, che la Dee esegue live già da diverso tempo e che, seppur con un tono “marziale”, ci fa comprendere subito l’armonia del disco,  conducendoci più all’interno di un cerchio emotivo che di un elenco di canzoni. Proprio il pianoforte che è al centro di questo disco ha una storia, che nasce dell’incontro di Dee con Andrew W.K. (anche produttore dell’opera) il quale aveva regalato il suo Steinway D concert grand piano alla Dee in occasione di un strasloco in un altro appartamento nel quale però lo strumento non avrebbe potuto essere portato. Strumento che la Dee aveva avuto occasione di suonare a  casa di Andrew tirandone fuori un suono celestiale e che portò W.K. a vedere in lei la degna nuova proprietaria dello stesso. Ritorniamo al disco e alla successiva Yapapipi, più delicata, che i fiati contribuiscono a colorare con una certa esoticità, mentre in Regifted light iniziamo a sentire la voce di Dee che ci accompagna in un zona d’ombra tra il senso di felicità e tristezza, grazie anche all’aiuto di un violoncello (che ritroviamo anche in Deep peaceful), seguita da una commovente e viscerale On The Day I DiedThe Pie Song è una cavalcata vocale di poco più di due minuti che ben fotografa le atmosfere da cabaret della Germania anni ’30, con evoluzioni tonali di assoluto rilevo: ed è forse l’unico esempio che un po’ si distacca dal mood generale del disco. The move conclude l’opera con uno stop eccezionale, che blocca di colpo l’atmosfera quasi a congelare l'attimo e dirci che l’ispirazione che ha pervaso il tempo trascorso come è arrivata se ne è andata Se proprio volete trovare dei riferimenti, siamo sicuramente dalle parti dei suddetti Antony and the Johnsons, con tono magari meno imponente ma dalla stessa forza commovente, con virate tra il passionale e il melodico o il razionale e l’assurdo, perfetta fotografia del personaggio. "Regifted light" non è un disco fatto per stupire ma, piuttosto, unire le persone portandole in atmosfere di altri tempi, luoghi della mente dove rilassarsi e distaccarsi da tutto e tutti.
Ubaldo Tarantino

mercoledì 11 maggio 2011

VIVIAN GIRLS: “Share the Joy” (2011, Polyvinyl)

Eccoci al ritorno delle Vivian Girls dopo meno di due anni dal precedente e acclamato “Everything Goes Wrong". Certo, in questo periodo le tre ragazze di Brooklyn non se ne sono state con le mani in mano e tra progetti paralleli come The Babies, Best Coast e La sera (quest’ultimo passato recentemente anche da noi) e cambi di formazione (la batterista Ali Koehler sostituita da Fiona Campbell), hanno trovato il tempo di firmare per la Polyvinyl, etichetta già di gruppi quali Of Montreal, Joan of Arc e Architecture in Helsinki. Il terzo lavoro della band appare più articolato e complesso dei due predecessori, quasi a volersi staccare dalla schiera di girls band quali Dum Dum Girls, Best Coast, o Screaming Females, abbandonando quindi un po’ quell’attitudine noise-punk e shoegaze, che dava l’impressione di vederle più a proprio agio, per un accattivante (almeno sembrerebbe nelle intenzioni) dream-pop divertente ed estivo, ancora caratterizzato da cadenze garage e che risulta essere ripulito rispetto a quanto accadeva in precedenza. Infatti, come si intuisce già dall’iniziale The other girls della durata di oltre sei minuti (con un assolo di chitarra che non si capisce bene dove vada a parare, quasi fosse un primo esperimento di quel genere all’interno di un loro pezzo, con la batteria e il basso, ridotti all’osso, ad accompagnare non riuscendo pero' a sollevarlo da una certa piattezza nonostante il progressivo crescendo), sembra quasi che le ragazze abbiano preso i loro classici ritmi e li abbiano abbassati di giri (anche se quà e là fa capolino l’esuberanza dei lavori passati, come in Sixteen Ways o Dance (if you wanna), dalle reminiscenze alla Jesus and Mary Chain) e ora guardino con più interesse ai suoni delle girlie band degli anni ‘60, come in Take it as it it comes con l’interessante intro parlato di Cassie o nel singolo I heard you say . Non mancano gli episodi in stile shoegaze, come Vanishing Of Time ma, anche qui, il motore sembra sempre tenuto al minimo, senza far decollare il disco. In Death, Cassie Ramone si cimenta anche in un refrain in pieno stile del suo ben più conosciuto omonimo Joey (“I wanna wanna wanna stay alive”), nel quale i riferimenti sono più che evidenti (ma, il paragone risulta, francamente, improponibile). Il lavoro si conclude poi come era iniziato, con un brano come Light in your eyes dai vaghi richiami alla Velvet Underground, anch’esso molto lungo, che accresce il senso di perplessità sulle intenzioni delle nostre. Insomma, una virata su sonorità più pop che non mancherà di far trovare ai loro vecchi fan diversi episodi convincenti, nonché l’idea di un gruppo che non ha paura di ampliare lo spettro delle sue sonorità: anche se il passaggio non sembra del tutto riuscito, come se il bersaglio fosse stato, anche se di poco, mancato, lasciando l’idea di un buon disco che poco aggiunge alle qualità della band.
Ubaldo Tarantino

LOW: “C'mon” (2011, Sub Pop)

Il gruppo statunitense dei Low, formato in quel di Duluth, la leggendaria cittadina che diede i natali a un certo Bob Dylan, ritornano da noi 4 anni dopo il precedente “Drums and Guns”, risalente appunto al 2007. La band in questo disco e' composta dal leader Alan Sparhawk, voce e chitarra, dalla batterista Mimi Parker e dal nuovo arrivato, l'ennesimo bassista (il quarto), Steve Garrington. “C'mon” è stato registrato in una vecchia chiesa cattolica del Minnesota e poi mixato in quel di Los Angeles. I toni della band, rispetto alle precedenti escursioni sonore, risultano ulteriormente ammorbiditi, se così si può dire: il che rientra comunque nello stile compositivo del gruppo, come dimostra bene l'iniziale Try to sleep, non a caso scelta dalla Sub Pop in funzione di brano spartiacque. Dopo la melensa You see everything con la voce della batterista Mimi Parker anche troppo stucchevole, arrivano la ballatona Witches e la breve e lenta Done. Ascoltando l'album nel suo insieme si comprende meglio la definizione di slo-core, ovvero tempi rallentati e arrangiamenti ridotti all'osso (affibbiata da certa parte della critica al gruppo, che pero' odia il termine) che si adatta a brani splendidi quali Especially me, che suona molto California anni '70 anche se siamo lontani dalle deviazioni vocali dei Fleet Foxes, tanto per nominare un gruppo a cui i Low possono essere avvicinati. Le rimanenti song dell'album, il terzetto di brani $ 20, Majesty/Magic e Nightingale, proseguono nella medesima vena malinconica dei pezzi precedenti ed è solo grazie agli otto e passa minuti di Nothing but heart , aperti da una una chitarra distorta, con voci e controcanti più ariosi e ancora la bella chitarra di Alan Sparhawk, fluida e quasi psichedelica, che ci si sveglia un po'. Something's turning over chiude quindi in bellezza un disco in chiaroscuro e che onestamente non mi sento di consigliare spassionatamente a tutti. Dopo un iniziale positivo ascolto, si rivela spesso monocorde e troppo rallentato: ironia della sorte, considerate le precedenti produzioni grunge della Sub Pop con i gloriosi gruppi dei '90, Nirvana ovviamente su tutti.
Ricardo Martillos
Sub Pop

martedì 10 maggio 2011

LUCA URBANI: "Catodico Praticante" (2011, Discipline)

Credetemi, non sto ricorrendo all’iperbole ma Luca Urbani ex Soerba con “Catodico Praticante”, secondo viaggio in solitaria, tira fuori un piccolo concept album con gli attributi, un fragile caposaldo d’elettro-delicatezza che ci fa intravedere – tra gli scuri di un presente musicale – un luminoso futuro cantautorale ad imput. Dopo l’avventura Soerba, l’artista Urbani – reduce sulla lunga distanza da quel felice “ElectroDomestico” uscito nel 2007 - torna a calcare la discografia alternative con quattordici percorsi umidi di pioggia acida wave, schermature synth-pop e tutta la liquidità tecnologica per sottolineare stati, pressioni e alienazioni cui si è sottoposti da quest’esistenza epilettica e priva di quella pompa ad intermittenza chiamata cuore; un disco che al contrario della stagione in cui si affaccia, mostra il colore grigio dell’inverno, della malinconia che s’intuba nel pensiero e fa riflettere, un elettro-pop “serio”, descrittivo, pieno di visioni ambientali, di retaggi amniotici che scorrono, si sviluppano e si lasciano assorbire come gocce ansiolitiche. In lontananza i Tiro Mancino di Zampaglione, un Morgan solitario e più discostato Riccardo Sinigallia che stanno ai bordi come ancestrali punti di collegamento e nelle immediate vicinanze sensazioni bisbigliate, confessate, come premesse d’obbligo per risvegliarci da un torpore che ci prende con la gentilezza della fregatura, con la tenerezza di un pugno; diversivo nelle giunture snodate orientali Pre-Potente, immenso tra i tasti di pianoforte in un climax soft-dub Immobile, amico nelle controvoci falsate L’illusione di un sogno, volatile ed irraggiungibile nel silenzio musicato nei due minuti e due secondi Tv cambio canale e nella risacca di pensieri, ricordi ed emozioni che affiorano come un bacio dato ad un fiore di prima mattina, appena spuntato dalla terra Sono felice. E poi ci sono quei tre punti di trasmissione Tv accesa, la citata Tv cambio canale e Tv spenta, che percorrono – dall’alto in basso – le vertebre di un album che accarezza il rifiuto all’omologazione e la pratica dell’auto-deficentilizzazione, e che ci insegue nelle nostre assenze. “Vorrei dirti tutto/Ma non lo faccio/ Vorrei dirti tutto/ Ma non ci riesco/ Vorrei lasciarmi andare/Vorrei poterti studiare/Ma so che questo non è amore/ E’ solo una proiezione/..”. Luca Urbani un Catodico Praticante unico nell’era della digitalizzazione global.
Max Sannella
Chissà Mai
Discipline

HELP STAMP OUT LONELINESS: “Help Stamp Out Loneliness” (2011, Papillons Noirs/Goodfellas)

Il gruppo, qui al suo album di debutto, si è formato intorno al chitarrista Bentley Cook e al bassista Colm McCrory, entrambi mancuniani già responsabili del progetto Language of Flowers; intorno a loro si sono aggregati altri quattro musicisti che hanno dato vita a questi Help Stamp Out Loneliness il cui delizioso nome, traducibile come "Aiuto per sconfiggere la solitudine", è un omaggio alla canzone di Nancy Sinatra dall’omonimo titolo, e in linea con questi propositi iniziali la loro musica ci offre un twee pop frizzante e seducente, dalle melodie capaci di catturare al primo ascolto l’orecchio e l’interesse. Le composizioni hanno per protagonista principale la cantante irlandese D. Lucille Campbell, la cui voce nasale e profonda ricorda quella di Nico, anche se qui siamo ovviamente in un contesto musicale del tutto diverso rispetto a quello della cantante dei Velvet. Le dodici canzoni dell’album si muovono nell'ambito di un indie pop decisamente piacevole e sbarazzino dalle accattivanti armonie che ci rimanda alle melodie dolci amare dei gruppi Sarah Records e al pop elegante e sognante dei Saint Etienne, nei suoi passaggi più cupi al triste romanticismo dei Camera Oscura. Forse arrangiamenti più asciutti, meno ridondanti avrebbero permesso di valorizzare nella misura più congeniale la risorsa migliore della band, la voce di D. Campbell che risulta troppo spesso sommersa da cori femminili, organi, dodici corde jingle-jangle, drumming, piano, perché non vi è dubbio che i nostri sappiano comporre ottime e per nulla banali canzoni pop che possono piacevolmente riempire i nostri momenti di solitudine, ma corrono a volte il rischio di voler strafare. Fra i brani da segnalare innanzitutto Record Shop dedicata al personaggio di Marsha, interpretato da Sandra Bernhard, fan e persecutrice di una star televisiva nel film di Martin Scorsese “Re per una notte”, dove alle delicate melodie e a una musica spensierata si contrappone una storia torbida e inquietante. Poi la bella The Ghost With Hammer in His Hand, brano dedicato al pugile gallese degli anni Venti Jim Wilde, soprannominato appunto "Lo spettro col martello nelle mani", in cui la voce di D. Lucille dà il meglio esibendosi nei toni bassi a lei più congeniali; la malinconica Tracy Tracy, forse la canzone più suggestiva dell’opera, e la finale e lunga Split Infinitives, protagonisti ancora chitarra, tastiere e voce, ma che si conclude con un inaspettato e allegro coro finale che ci lascia l’animo addolcito e rasserenato. A conti fatti un buon esordio, che piacerà a chi ha amato il sound di The Orchids o di Belle and Sebastian, con qualcosa da rivedere, o meglio da lavorare in sottrazione, in fase di arrangiamenti; gli Help Stamp Out Loneliness si dimostrano in grado di scrivere buone canzoni pop che uniscono buon senso della melodia a storie dal contenuto spesso triste e poco rassicurante.
Ignazio Gulotta
Papillons Noirs

lunedì 9 maggio 2011

SAINT JUST AGAIN: “Prog Explosion” (2011, Raro! Records)

C’è sempre da essere un tantino diffidenti riguardo ai ritorni, specie quando arrivano prepotentemente dagli anni settanta: una scena di ieri che si riavvicina per vivere oggi sensazioni e concretezze di un inaspettato risorgimento musicale. Eppure il “terzo” album di Jenny Sorrenti “Prog Explosion” con il recuperato e riformulato logo Saint Just – ora integrato con Again - e che arriva solamente dopo “37 anni” dallo splendore de “La casa del lago” non delude, non fa una piega per chi ha abitato quella generazione anche se non siamo più abituati a queste “favole astratte”, probabilmente qualche interrogativo dalle giovani barricate soniche attuali, ma questa è tutta un’altra storia. Sette piste suonate live in studio con la nuova formazione che comprende, oltre alla Sorrenti, voce e tastiere, Marcello Vento alle pelli, Ernesto Vitolo tastiere, Vittorio Pepe al basso ed Elio Cassarà alle chitarre elettriche, e tutto ritorna alla freschezza dei tempi, o meglio un disco che si riprende i suoi tempi sorprendendo i cultori del genere a piedi ma subito pronti ad inforcare nuovamente le ali del grande volo prog made in Italy. Pubblicato in tiratura limitata numerata e solo su vinile (adorabile), il disco è una planata su lands che recuperano lievemente gli esordi folk-prog dell’artista napoletana, ma già dal titolo – con quell’Explosion da presagio – la svolta verso un suono molto più marcato, dalle tinte rock che vanno immediatamente ricercate nel macramè vocale della Sorrenti e delle corde elettriche di Cassarà in Il Cercatore; instabilità che allunga il braccio anche in tutto il bordo filo che scorre dentro un percorso spinale energetico, che tra Hammond, effetti e ritmi tensivi fanno di Depressione Cosciente, Ai Bordi e Giganti, tracce sensibili, vibranti, la voglia e la parte del leone buono che non ruggisce, ma che mostra la potenza del morso se ce ne fosse mai bisogno. E per completare quest’ottica musicale di rilievo due strumentali a rifinitura decò che fanno da calmante alla febbre di cui sopra, Fuga Da Ogni Gabbia, Ad Occhi Aperti, e il gioiello che come in ogni parure di lusso troneggia in alto e al centro e qui invece messo a chiusura come un’ametista timidona, la title track Prog Explosion che ospita uno straordinario sperimentalismo lirico di un ancor più straordinario Francesco Di Giacomo del Banco, che oltre a sigillare il timing del disco, riapre virtualmente le trasmissioni emotive di questa formazione ritrovata, la quale senza l’ombra di una retorica, riporta quella poetica avanguardistica che poi non è altro che la madre non riconosciuta di tanto underground contemporaneo. E per favore non chiamiamoli reduci, si apprezzerebbe di più prognauti di un ritorno al futuro.
Max Sannella

ARBE GARBE: "!Arbeit Garbeit!" (2011, CPRS produzioni/Venus)

Gli Arbe Garbe ('erba cattiva', in friulano) sono un quintetto dalla line-up piuttosto anomala: chitarra (Roberto Fabrizio), batteria (Marco Bianchini), tromba (Flavio Zanuttini), tuba (Giacomo Zanuttini) e fisarmonica (Federico Galvani), che con questo “!Arbeit Garbeit!” arriva al settimo album, inciso a Pordenone, con ospiti componenti dei friulani Radio Zastava (gruppo che ho apprezzato molto live al festival Balla coi Cinghiali) e dei milanesi Figli di madre ignota. Il disco presenta una breve intro e nove brani piuttosto brevi ma folgoranti. La intro è un riff di tromba balcanica su un altro, potentissimo, di chitarra e batteria. I testi sono in italiano, dialetto e spagnolo, come in El cura, uno dei brani più trascinanti, dedicato a quelle figure di religiosi latino americani che vivono nei quartieri più degradati per aiutare gli ultimi. Diversamente da quanto l'argomento farebbe pensare, il brano mescola melodia balcanica con ritmo hardcore punk. Preghiera per Artaud, dedicata al grande poeta e attore francese vissuto a lungo in manicomio, è un altro brano selvaggio, tra folk e riff alla Dead Kennedys, sulla scia del Daniele Sepe più contaminato. Tornerai mescola il punk con il Messico, il testo è una filastrocca antiautoritaria; No soi sante, più lenta, testo in dialetto, non mi conquista, ricorda troppo Davide Van de Sfroos. Il volo della paloma sfocia quasi nel free jazz, con improvvisazioni di tromba e chitarra. In fondo al mare, su un ritmo sincopato sempre di provenienza est europea, ha un testo più ironico. Dos pesos, più cantautorale, è il brano più debole, questo misto folk/punk comincia a essere troppo abusato. Notevole invece la conclusiva Une bugade di vint, riff saltellante e fiati che ricordano i Mano Negra. Un gruppo che senz'altro presenta un grande impatto dal vivo (ha suonato un centinaio di volte in giro per l'Europa e il Sudamerica) e che ha collaborato con ospiti di grande prestigio, tra i quali anche Eugene Chadbourne. Dovendo dare un consiglio direi loro di lasciar perdere i brani più cantautorali, non ripetere l'errore che hanno fatto altri gruppi, come, per esempio gli Zen Circus, la cui svolta è stata verso la noia e non la canzone d'autore e mantenere la vena più scatenata, quella che fonde punk, free, noise e le melodie balcaniche: pure queste a rischio di diventare cliché, ma che gli Arbe Garbe, forse per la vicinanza del Friuli con l'ex Jugoslavia, riescono a rendere in maniera genuina creando una miscela di stili divertente e godibile.
Alfredo Sgarlato