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giovedì 29 settembre 2011

"Quanto ci manca Miles Davis!" (May 26 1926, Alton, IL - Sep 28 1991, Santa Monica, CA) Il Ventennale dalla morte


Sono vent'anni che Miles ci ha lasciati, il 28 settembre 1991 (presso l'ospedale di Santa Monica, California). Il "vuoto" che ha creato la sua scomparsa è ancora una delle grandi questioni che i critici e gli storici del jazz non sono riusciti a dipanare del tutto. Alcuni artisti che lo hanno affiancato per molti anni gli hanno reso quest'anno il significativo "Tribute to Miles" , recensito per Distorsioni. Uno spiraglio di luce, per una prima e provvisoria valutazione è
possibile coglierlo nella crescente influenza di Davis sulla musica oltre i confini del jazz, a partire dal 1969 (e dall'album "Bitches Brew" in 
particolare). L'evoluzione del linguaggio davisiano e delle innumerevoli "svolte", sono spesso stati motivati più dai tratti caratteriali del personaggio che non da autentiche esigenze artistiche, imbrigliate dai contratti con la sua casa discografica, la Columbia, dal 1955 al 1985: trent'anni segnati da decine di albums e cambi di formazione, con partner scelti di volta in volta in funzione delle esigenze espressive da tracciare sui nastri in studio o nei "live". 
Nella biografia artistica di Miles ha sempre avuto molta influenza la musica contemporanea intesa nella sua globalità: dalla "third stream" di Gunther Schuller, ai richiami ispanici di "Concierto de Aranjuez" di Rodrigo sotto la direzione di Gil Evans, dal rock, funk e soul degli anni sessanta (Jimi Hendrix, Sly & The Family Stone, James Brown, Earth, Wind & Fire), alla musica europea del '900 di Puccini (la "Tosca"), Hindemith e Stockhausen. Che il jazz stesse "stretto" a Davis diventa chiaro a partire dalla seconda metà degli anni '60, con la triade di album di chiara ispirazione africana (con Shorter, Hancock, Ron Carter e Tony Williams):
"Sorcerer"(1967) "Nefertiti"(1967-68) e "Filles de Kilimanjaro" (1969, forse il migliore dei tre). Questa "apertura" dura lo spazio di un biennio e con un nuovo organico volge lo sguardo ad altri orizzonti sonori, con l'impiego dei primi strumenti elettrici (non solo la chitarra, con John McLaughlin, Joe Beck, George Benson, Sonny Sharrock), dove la presenza di Joe Zawinul impone all'ensemble una cifra stilistica unica (in particolare con la musica di "In a Silent Way": ci siamo sempre chiesti se non siano questi i primi germi di "world music"). 

La prima metà degli anni settanta é segnata da altri passaggi: Miles impone una continua girandola di collaboratori nelle varie sezioni ritmiche (DeJohnette, Cobham alla batteria; Dave Holland e Michael Hendersonal basso), dei fiati (da Steve Grossman a Gary Bartz a Dave Liebman) o alle tastiere (compresi Chick Corea, Keith Jarrett), documentata da una dozzina di Lp (fra tutti, "On the Corner", mai valutato appieno). Ma è il periodo 1975-81 quello meno conosciuto della vita di Davis: i problemi di salute gli impediscono di suonare e solo dopo molti tentativi, ricostruisce un gruppo con il nipote batterista Vincent Wilburn. 
Dal 1980 al 1985, con la Columbia Miles incide sei album ("The Man With The Horn"; "We Want Miles"; "Star People"; "Decoy"; "You're Under Arrest" e "Aura") per passare con la Warner Bros nel 1986 con l'album "Tutu" (artefice Marcus Miller), con altri album ("Siesta", "Amandla", "Dingo" e "Doo Bop"). Negli ultimi cinque anni della sua vita, Miles Davis si è aperto a molte collaborazioni, piccoli cammei di straordinaria intensità: nell'album anti-apartheid "Sun City" (Manhattan 1985), con il gruppo Toto ("Farhenheit",Columbia 1986), con Prince ("Crucial", H.T.B., 1986), con Scritti Politti ("Oh, Patti", Virgin 1987), nella colonna sonora del film "Scrooged" (A&M, 1987), con Cameo (Machismo, Mercury 1988), con Chaka Khan ("C.K.", Wea 1988), con Quincy Jones per "Back on the Block" (Wea 1989), con Kenny Garrett in "Prisoner of Love" (Atlantic 1989), con Zucchero (nel brano Dune Mosse, in "Zu & Co.", Universal 1989), con John Lee Hooker e Taj Mahal (nel soundtrack di "The Hot Spot", Antilles 1990), con il compositore italiano Paolo Rustichelli ("Capri", Verve 1990), e con la vocalist Shirley Horn ("You Won't Forget Me", Verve 1990).


Ma è l'ultima fatica di Miles che ci restituisce il largo respiro della sua grandezza di protagonista della storia della musica del 900: è al festival di Montreux, nel luglio 1991, complice Quincy Jones, che Davis si cimenta con i brani che resero celebre la sua collaborazione con Gil Evans ("Miles And Quincy Live At Montreux", Wea 1991) e che stende una sorta di testamento postumo: la capacità e la forza di suonare la musica di un tempo come allora, pur avendola apertamente ripudiata, con il suo stile inconfondibile, inimitabile.




P.S.: in conclusione di questo ricordo di Miles Davis, devo svelare che "Fremon" (pseudonimo usato dall'autore in precedenti articoli, N.d.R) è Luciano Viotto. Senza falsa modestia, nel 1989 ho pubblicato a Torino, in edizione autoprodotta, la prima discografia completa su Miles, che per ringraziarmi del lavoro svolto, ha pensato bene in un dopo-concerto, ad Aosta nel luglio 1988, di disegnare la copertina che vedete a fianco, con un gesto di grande umanità.

Luciano Viotto


Miles Davis





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