Il garage rock non è una questione di punti di vista, certi dettagli sono importanti. I Muck and the Mires hanno flirtato nell’arco di una diecina d’anni di carriera con personaggi del calibro di Ray Davies dei Kinks, Kim Fowley (che è stato anche loro produttore), New York Dolls, Monks, MC5 solo per citare i maggiori; nel 2004 sono arrivati primi alla “Little Steven’s battle of the bands”.
Come se non bastasse come premessa il gruppo di Boston ha registrato il suo ultimo disco, "A Cellarfull of Muck" a Detroit, città il cui sound ha inciso alcuni dei più entusiasmanti solchi della storia del rock’n’roll. L’album inoltre è stato realizzato in uno studio all-analogue, e chi è di casa nel mondo del garage rock conosce l’importanza (che rasenta spesso l’ossessione maniacale) del termine “analogico” in questo ambiente. Credenziali del genere sono già un ottimo punto di partenza ancor prima dell’ascolto, ma la band di Evan Shore (ex Queers e Voodoo Dolls) riesce a mantenere le promesse anche una volta poggiata la puntina sul disco. Il risultato è un album che si muove interamente su una vena garage-pop chitarristica, e sforna sonorità solide tutte Rickenbaker e amplificatori Vox, in cui il rispetto per la musica dei Sessanta, con le antenne rivolte metà verso gli Stati Uniti e metà verso il beat inglese, si mescola con quel powerpop targato Flamin’ Groovies che tanto piaceva a Greg Shaw. I Muck & the Mires non sanno che farsene delle tendenze del garage contemporaneo, del low-fi modaiolo, del garage punk più trashy. La band rimane ancorata ad un suono cristallino, un buon vecchio garage rock (con venature soul) suonato, come da manuale, in completo nero e occhiali scuri, in cui la melodia rimane il punto di forza, con le chitarre ritmiche a farla da padrone, e scodella una serie di pezzi la cui orecchiabilità è sintomo di un’attitudine e di uno stile codificati sì, ma estremamente funzionanti, e soprattutto divertenti. D’altronde le vecchie formule funzionano sempre: strofa azzeccata e ritornello trascinante sono regole base per la realizzazione di buone canzoni, e i Muck & the Mires sanno come utilizzarle. Questo è il rock’n’roll. Pezzi come King of the beat (che strizza l’occhio a certe sonorità inglesi di marca Spencer Davis Group), Saturday let me down again, Tired on loosin’ sleep (forse il pezzo più “Flamin’ Groovies” del disco), o l’ottima e tagliente Laura’s a liar ci riportano indietro nel tempo, a quando Greg Shaw voleva “salvare il mondo un disco alla volta”.
Luca Verrelli
Dirty Water/Muck And The Mires
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