First Part
Second Part
Soft Machine
La questione Soft Machine é controversa quant'altre mai. Per evitare problemi, dico subito che lasceremo da parte il periodo iniziale del gruppo, quello, per capirci, fino al seminale doppio LP “Third”, che la critica giudica di maggior valore. La scelta è dovuta non certo al mancato apprezzamento per quei lavori, ma perchè quei Soft Machine in quei primi due albums suonavano qualcosa che non ha niente da spartire con l'argomento che stiamo trattando e furono proprio le divergenze musicali tra Robert Wyatt e gli altri membri del gruppo a provocarne l'abbandono, dopo la registrazione di “Fourth”, nel 1971. La felicissima vena creativa di Robert Wyatt partorisce comunque in "Third" un' incredibile composizione di quasi 20 minuti che occupa un'intera facciata dell'allora vinile, Moon In June, composta sviluppando dei demos che Wyatt aveva realizzato con il produttore Giorgio Gomelsky agli inizi del 1967. Si tratta di un' 'opera' che sfugge ad etichette castranti, e che 'sfrutta' strumentalmente alcuni stilemi del jazz-rock solo per estrinsecare una vena 'visionaria' e 'psichedelica' assimilabile senza riserve all'estetica del 'Canterbury sound'. In "Third" compare per la prima volta ai saxes il grandissimo Elton Dean.
"Fourth", inciso con una formazione composta, oltre che da Wyatt, alla batteria, da Mike Ratledge alle tastiere, Hugh Hopper al basso e Elton Dean ai sassofoni, non comprende alcuna composizione del geniale batterista, già dimissionario dal gruppo, ma ci propone brani lunghi ed articolati, che risentono ancora del suono dei 'vecchi' Soft Machine. Sentite questa versione live, registrata nel 1971, di Teeth.
L'album seguente, “Fifth” (1972), vede la sostituzione di Wyatt con Phil Howard e John Marshall, rispettivamente nei primi tre pezzi e nei secondi tre, e vira verso un più ortodosso stile jazz, sia pure con sonorità elettriche influenzate da reminiscenze free, di cui è testimone questa As If.
Il disco seguente, “Sixth” (1973) viene votato miglior LP jazz dell'anno nella classifica di Melody Maker, periodico all'epoca assai influente, e si presenta con una copertina piuttosto vistosa. John Marshall diventa il batterista stabile e il sassofonista Elton Dean viene sostituito da Karl Jenkins, reduce dalla militanza nei Nucleus, che fornisce, oltre al suono stridulo e spiazzante del suo oboe, anche un significativo apporto nella composizione dei pezzi. Vi propongo 37 & 1/2, in cui è presente, appunto, un assolo di tale strumento.
La direzione presa dal gruppo è ormai piuttosto chiara, e i dischi che seguono non la modificano più di tanto, pur mantenendo un sempre alto livello qualitativo e un suono riconoscibile, come per questo pezzo da “Seven” (1974), intitolato Day' Eye.
Il disco seguente, “Bundles” (1975) ci mostra la funambolica abilità del neoassunto chitarrista Allan Holdsworth, uno che ha ispirato personaggi come Eddie Van Halen, Joe Satriani, John Petrucci e che sua maestà Frank Zappa ha definito 'uno dei più interessanti ragazzi alla chitarra del pianeta'. Proveniente da esperienze musicali di tutt'altra fatta (rock, progressive) egli è in grado di modificare parecchio il sound compassato del gruppo, come accade in questo lungo pezzo, di cui mi limito a proporvi le prime due parti, registrate al festival di Montreux nel luglio 1974: Hazard Profile Part 1 e Part 2.
Quanto accade dopo l'uscita di “Bundles” non aggiunge più nulla a quanto di buono i Soft Machine ci avevano fatto sentire in precedenza. L'intenzione di limitare questo articolo a quella che possiamo chiamare ''età dell'oro del jazz rock, mi sconsiglia di spingermi temporalmente fino al 2004, anno di formazione della Soft Machine Legacy, con molti dei membri originale della band, ma posso assicurarvi che non si tratta affatto di un'operazione nostalgica, anzi. Se ne avrò l'opportunità tratteremo l'argomento.
Gong
È adesso il momento di occuparci di un altro gruppo che ha iniziato la propria fulgida carriera producendo musica piuttosto diversa dal jazz-rock. In qualche modo i Gong hanno infatti una storia parallela a quella dei Soft Machine, oltre ad avere in comune uno dei membri fondatori, Daevid Allen, stralunato chitarrista e cantante, nonché inventore di tutta la mitologia alla base della famosa trilogia chiamata “Radio Gnome Trilogy”, la loro opera più conosciuta. La presenza di Allen mantiene il timone musicale del gruppo in una direzione psichedelica e onirica, fino al suo abbandono prima di un concerto a Cheltenham (dichiarò che un “muro di forza” gli impediva di salire sul palco).
A quel punto le redini del gruppo vengono prese dall'unico superstite della band originale, il sassofonista e flautista francese Didier Malherbe e dal batterista suo connazionale Pierre Moerlen.
Nel 1976 esce “Gazeuse!”, (negli Stati Uniti con il titolo “Expresso”). La formazione, oltre che dai due sopra citati, è composta dal solito Allan Holdsworth alla chitarra, da Benoit Moerlen al vibrafono, Mireille Bauer ancora al vibrafono, alla marimba e al glockenspiel, Francis Moze al piano e al basso e Mino Cinelu alle percussioni. Come si può notare da Expresso il disco è piacevole, suonato in modo egregio, ma non è certo una pietra miliare. Tale giudizio si può estendere senza troppi patemi alla produzione degli anni seguenti. Mi piace citare Heavy Tune, dal disco “Expresso 2”, del 1978, perchè alla chitarra compare un mito misconosciuto del rock, il reduce dei Rolling Stones (e forse il miglior chitarrista che ne abbia fatto parte) Mick Taylor. Personalmente ho avuto l'occasione di vederli proprio in questa formazione, a Torino, senza purtroppo rimanere eccessivamente impressionato.
Brand X
Prima di trasferirci sulla nostra penisola per occuparci di alcuni dei nostri talenti, interessiamoci ancora di un gruppo britannico, i Brand X, attivi dal 1976 al 1980 e in seguito per un paio di album negli anni '90, nei quali ha militato il batterista Phil Collins, meglio noto per le sue gesta nei Genesis e come solista. Glissiamo su queste ultime esperienze, e restiamo sul tema: i nostri, nel 1976 pubblicano il primo LP “Unorthodox Behaviour “, in quartetto, con Collins alla batteria, John Goodsall alla chitarra, Robin Lumley alle tastiere e il grande Percy Jones al basso. Le sonorità della band non mancano di originalità, c'è molto funk, ma soprattutto spicca la stupefacente abilità di Jones, al quale Les Claypool dei Primus dovrebbe pagare le royalties. Provate ad ascoltarlo con attenzione nel pezzo che vi propongo: Boorn Ugly .
Il disco seguente è del 1977 e si chiama “Moroccan Roll”. A Phil Collins, spesso occupato in altre faccende, si affianca l'ottimo Morris Pert, per il resto le cose non cambiano chissà quanto, come dimostra questo pezzo tratto dallo show di John Peel alla BBC, chiamato Malaga Virgin.
Luca Sanna
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