Naturalmente non poteva trattarsi che di un pezzo riguardante un artista blues, in tal caso due attraverso un lungo ed esauriente live-report londinese sul giovane stupefacente Duke Garwood e Robert Belfour, anziano bluesman affiliato alla Fat Possum, l'etichetta americana che forse più di ogni altra bada ormai da parecchi anni alla salvaguardia del delta-blues originario più incontaminato ma apertissima anche a progetti di blues moderno 'deviato'.
Grazie Bob....un debutto alla grande .....benvenuto!
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ROBERT BELFOUR, IL CONCERTO PIÙ STRANO CHE IO ABBIA MAI VISTO
Lo Spitz è un piccolo club nel cuore di Londra dove ogni anno l’associazione “Not the Same Old Blues Crap”, (ovvero “Non la solita vecchia merda blues”) organizza un festival dedicato alle nuove tendenze del blues.
Il programma del festival è dunque incentrato su artisti con un’attitudine decisamente propensa alla sperimentazione di terreni insoliti ma con radici profondamente legate al blues.
Ospiti di onore dell’edizione 2007 sono stati due vecchi bluesman veraci come T-Model Ford e Robert Belfour, riconosciuti, insieme al compianto R.L. Burnside, come ispiratori della generazione di musicisti blues formatisi all’ascolto dei CD prodotti dalla “cult label” Fat Possum.
E’ la sera del 27 Aprile, dedicata a “the Wolfman”, mr. Robert Belfour.
Apre Duke Garwood, geniale musicista londinese che strega subito il pubblico creando con il solo aiuto della sua chitarra semi-acustica un’atmosfera tesa e pregna di emozioni magiche destinate a rimanere a lungo impresse nel mio animo. Non esito a definire il suo “Emerald Palace”, un album imperdibile, il miglior CD prodotto nel 2007 che mi sia capitato tra le mani. La sua non è una musica di facile ascolto e meriterebbe ben più profonde dissertazioni che risulterebbero prolisse in questa sede.
Mi limiterò a consigliarvi una ricerca su youtube.com, dove troverete delle brevi clip rubate durante i suoi live e naturalmente una incursione sulla sua pagina myspace(myspace.com/dukegarwood) dove troverete ben 4 brani di assaggio estratti da “Emerald Palace”.
E’ ora atteso sul palco mr. Belfour, headliner della serata.
Di sicuro un vecchio bluesman nero del Mississippi non ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno e non necessita di entrate trionfali sul palco, ma la flemma di Belfour sembra un po’ eccessiva, quasi ostentata: zoppicando, con un bastone alla mano ed una grossa borsa a tracolla, guadagna lentamente la sedia al centro del palco. Anche lui come Garwood è solo con la sua chitarra, nessuna band di back-up.
Di sicuro effetto il suo abbigliamento, un completo giacca – pantaloni viola scuro indossato su una coloratissima camicia dalle fantasie psichedeliche con cravatta variopinta ed immancabile cappello.
Proprio mentre tutti aspettavano che il Wolfman facesse vibrare finalmente il primo accordo dalla sua chitarra acustica, ecco che dice: “no, un momento, aspettate: ho dimenticato qualcosa”. Inizia quindi a piegarsi per frugare, sempre con movimenti rilassati e flemmatici, nella borsa a tracolla poggiata per terra al lato della sua sedia; dopo un lungo tramestio, intervallato da frasi come “mannaggia, non ricordo dove l’ho messo”, tira fuori un asciugamani e spiega: “sapete io quando suono, sudo e quindi mi è indispensabile un asciugamani”!
Poggia finalmente le mani sulla chitarra ma scuote subito il capo: “No, non va, non va, è scordata”. Quindi indugia ancora in una spiegazione: “Sapete, io non uso gli accordatori, odio gli accordatori; uso soltanto le mie orecchie perché bisogna che la chitarra suoni giusta per me…” comincia poi a smanettare le meccaniche della chitarra in maniera più o meno casuale. Sono ormai passati diversi interminabili minuti da quando Belfour è entrato in sala, quando finalmente inizia a suonare.
Le interruzioni però sono frequenti, c’è qualcosa che ancora non lo convince, scuote il capo: l’accordatura della chitarra non è come lui la vuole e le regolazioni dell’amplificatore non lo soddisfano. “Devo fare in modo che tutto vada bene, devo rendere tutto giusto per voi e così invece non va bene…”, continua a manipolare le meccaniche ma adesso si aggiungono anche le manopole dell’ampli, mosse assolutamente a casaccio: basti pensare che muove anche le manopole del canale libero, su cui la chitarra non è attaccata e che quindi non hanno alcun effetto sul suono prodotto dallo strumento!
Inizia a sorgere il sospetto che il vecchio lupo stia giocando a qualche strano incomprensibile gioco perché tra smanettamenti ed inutili spiegazioni trascorre una buona metà dei brani in scaletta senza che lo show decolli.
Tra regolazioni di meccaniche e manopole le combinazioni sembrano infinite, e risulta difficile pensare che ormai Belfour riesca a trovare la “combinazione magica” che tanto sta cercando e per cui tutto debba suonare, come dice lui, “right”, nel modo giusto.
Ma ad un tratto qualcosa sembra cambiare; come in un dilatato sound check ogni brano comincia stranamente a suonare in maniera più convincente e coinvolgente del precedente.
Sembra che il nostro abbia avuto bisogno di un interminabile warm-up, man mano che lo show va avanti il Wolfman comincia a mostrare le zanne, liberando il suo inconfondibile suono acustico ma possente, ricco del pathos che solo un bluesman DOC sa infondere.
Comincia un’ascesa esponenziale ed inarrestabile, ma proprio quando Belfour cominciava a riscaldarsi per davvero, la scaletta del suo show giunge al termine e si congeda dal pubblico. Alle richieste di bis risponde placidamente: “Va bene, datemi un po’ di pausa per riposarmi, tra 20 minuti torno”.
Trascorrono più di 30 minuti e molti abbandonano la sala senza attendere l’annunciato bis. Londra, in confronto a molte nostre città, non è particolarmente “nottambula” e la sala perde una buona metà dell’audience.
Ma una strana sorpresa attende, quasi a premiarli, i fedelissimi rimasti in attesa del bis: quando rientra sul palco, il Wolfman fa sul serio. Non è più propenso a cincischiare con asciugamani, manopole e meccaniche, adesso finalmente tutto è sistemato, tutto è “right” e si comincia a suonare per davvero!
Tira fuori il suo inconfondibile stile chitarristico sicuro, pesante e percussivo, la sua voce calda e profonda; adesso le zanne sono pronte ad affondare nella carne.
In realtà sembra che il concerto sia stato solo un lungo sound-check e che con il bis sia iniziato in realtà il vero show. A dispetto delle probabilità matematiche sembra che Belfour abbia finalmente trovato la combinazione magica che cercava, ora è all’apice della sua vena interpretativa e adesso suona e canta in maniera davvero impressionante: quando si lancia in una cover di “Boogie Chillen” di John Lee Hooker, sembra di avere davanti la reincarnazione di “The Hook”, non esagero!
Adesso che l’incantesimo si è creato il pubblico non vuole più lasciarlo andare e lui non ha alcuna intenzione di sbattere la porta in faccia alla gente che lo acclama e continua a sfoderare brani micidiali con la presenza sonora di un’orchestra. A un tratto si alza, depone la chitarra nella custodia e fa per congedarsi ma gli applausi fragorosi lo commuovono, quasi gli fanno venire le lacrime agli occhi e lasciare il palco adesso gli sembra impossibile. Torna a sedersi, riprende il suo strumento ed attacca il jack, si continua!
Ormai Belfour è inarrestabile. Le luci sul palco si spengono e si accendono le luci in sala, il messaggio degli organizzatori è chiaro: si è sforato l’orario in cui è permesso fare musica senza rischiare denunce. Ma lui non ha alcuna intenzione di deludere il pubblico di fedelissimi che continua ad applaudirlo e ad incitarlo e continua imperterrito con l’entusiasmo di un ragazzino fino a quando manca poco che Rupert Orton, il direttore artistico del festival, vada a staccargli fisicamente il jack dalla chitarra!
Insomma è stato sicuramente il concerto più anti-convenzionale, informale e meno ortodosso che io abbia mai visto, ma è stata proprio questa anti-convenzionalità a rendere quella notte indimenticabile e ricca di magia.
La lezione è chiara: il blues, quello vero, nato nei cortili fangosi del Mississippi tra le baracche degli agricoltori di colore, non può essere irreggimentato in percorsi prestabiliti. Non può essere suonato con una chitarra accordata con accordatore elettronico o con ampli regolati da un fonico, non può attenersi ad orari, scalette e percorsi usuali. Quando la musica proviene veramente dal cuore è indisciplinata, nasce quando uno non se l’aspetta, non può essere eseguita “a comando” secondo schemi e canoni stabiliti in nome della “professionalità”.
Una risposta ai mega-concert in cui nulla è lasciato al caso, tutto deve essere organizzato nei minimi dettagli e pre-ordinato con perfetta efficienza; una risposta importante, nell’era dei brani “radiofonici” da tre minuti e della musica ascoltata attraverso le suonerie dei cellulari. Il blues vero, quello cresciuto dalla terra, è lontano anni luce da questo mondo ed è proprio per questo che oggi ancor di più ha ragione di esistere e di proclamare la sua diversità rifiutando facili omologazioni.
Se volete portare a casa una preziosa testimonianza della musica di Belfour, procuratevi il CD “Pushin My Luck”, edito dalla Fat Possum Records nel 2003, un autentico capolavoro.
Lo Spitz è un piccolo club nel cuore di Londra dove ogni anno l’associazione “Not the Same Old Blues Crap”, (ovvero “Non la solita vecchia merda blues”) organizza un festival dedicato alle nuove tendenze del blues.
Il programma del festival è dunque incentrato su artisti con un’attitudine decisamente propensa alla sperimentazione di terreni insoliti ma con radici profondamente legate al blues.
Ospiti di onore dell’edizione 2007 sono stati due vecchi bluesman veraci come T-Model Ford e Robert Belfour, riconosciuti, insieme al compianto R.L. Burnside, come ispiratori della generazione di musicisti blues formatisi all’ascolto dei CD prodotti dalla “cult label” Fat Possum.
E’ la sera del 27 Aprile, dedicata a “the Wolfman”, mr. Robert Belfour.
Apre Duke Garwood, geniale musicista londinese che strega subito il pubblico creando con il solo aiuto della sua chitarra semi-acustica un’atmosfera tesa e pregna di emozioni magiche destinate a rimanere a lungo impresse nel mio animo. Non esito a definire il suo “Emerald Palace”, un album imperdibile, il miglior CD prodotto nel 2007 che mi sia capitato tra le mani. La sua non è una musica di facile ascolto e meriterebbe ben più profonde dissertazioni che risulterebbero prolisse in questa sede.
Mi limiterò a consigliarvi una ricerca su youtube.com, dove troverete delle brevi clip rubate durante i suoi live e naturalmente una incursione sulla sua pagina myspace(myspace.com/dukegarwood) dove troverete ben 4 brani di assaggio estratti da “Emerald Palace”.
E’ ora atteso sul palco mr. Belfour, headliner della serata.
Di sicuro un vecchio bluesman nero del Mississippi non ha bisogno di dimostrare nulla a nessuno e non necessita di entrate trionfali sul palco, ma la flemma di Belfour sembra un po’ eccessiva, quasi ostentata: zoppicando, con un bastone alla mano ed una grossa borsa a tracolla, guadagna lentamente la sedia al centro del palco. Anche lui come Garwood è solo con la sua chitarra, nessuna band di back-up.
Di sicuro effetto il suo abbigliamento, un completo giacca – pantaloni viola scuro indossato su una coloratissima camicia dalle fantasie psichedeliche con cravatta variopinta ed immancabile cappello.
Proprio mentre tutti aspettavano che il Wolfman facesse vibrare finalmente il primo accordo dalla sua chitarra acustica, ecco che dice: “no, un momento, aspettate: ho dimenticato qualcosa”. Inizia quindi a piegarsi per frugare, sempre con movimenti rilassati e flemmatici, nella borsa a tracolla poggiata per terra al lato della sua sedia; dopo un lungo tramestio, intervallato da frasi come “mannaggia, non ricordo dove l’ho messo”, tira fuori un asciugamani e spiega: “sapete io quando suono, sudo e quindi mi è indispensabile un asciugamani”!
Poggia finalmente le mani sulla chitarra ma scuote subito il capo: “No, non va, non va, è scordata”. Quindi indugia ancora in una spiegazione: “Sapete, io non uso gli accordatori, odio gli accordatori; uso soltanto le mie orecchie perché bisogna che la chitarra suoni giusta per me…” comincia poi a smanettare le meccaniche della chitarra in maniera più o meno casuale. Sono ormai passati diversi interminabili minuti da quando Belfour è entrato in sala, quando finalmente inizia a suonare.
Le interruzioni però sono frequenti, c’è qualcosa che ancora non lo convince, scuote il capo: l’accordatura della chitarra non è come lui la vuole e le regolazioni dell’amplificatore non lo soddisfano. “Devo fare in modo che tutto vada bene, devo rendere tutto giusto per voi e così invece non va bene…”, continua a manipolare le meccaniche ma adesso si aggiungono anche le manopole dell’ampli, mosse assolutamente a casaccio: basti pensare che muove anche le manopole del canale libero, su cui la chitarra non è attaccata e che quindi non hanno alcun effetto sul suono prodotto dallo strumento!
Inizia a sorgere il sospetto che il vecchio lupo stia giocando a qualche strano incomprensibile gioco perché tra smanettamenti ed inutili spiegazioni trascorre una buona metà dei brani in scaletta senza che lo show decolli.
Tra regolazioni di meccaniche e manopole le combinazioni sembrano infinite, e risulta difficile pensare che ormai Belfour riesca a trovare la “combinazione magica” che tanto sta cercando e per cui tutto debba suonare, come dice lui, “right”, nel modo giusto.
Ma ad un tratto qualcosa sembra cambiare; come in un dilatato sound check ogni brano comincia stranamente a suonare in maniera più convincente e coinvolgente del precedente.
Sembra che il nostro abbia avuto bisogno di un interminabile warm-up, man mano che lo show va avanti il Wolfman comincia a mostrare le zanne, liberando il suo inconfondibile suono acustico ma possente, ricco del pathos che solo un bluesman DOC sa infondere.
Comincia un’ascesa esponenziale ed inarrestabile, ma proprio quando Belfour cominciava a riscaldarsi per davvero, la scaletta del suo show giunge al termine e si congeda dal pubblico. Alle richieste di bis risponde placidamente: “Va bene, datemi un po’ di pausa per riposarmi, tra 20 minuti torno”.
Trascorrono più di 30 minuti e molti abbandonano la sala senza attendere l’annunciato bis. Londra, in confronto a molte nostre città, non è particolarmente “nottambula” e la sala perde una buona metà dell’audience.
Ma una strana sorpresa attende, quasi a premiarli, i fedelissimi rimasti in attesa del bis: quando rientra sul palco, il Wolfman fa sul serio. Non è più propenso a cincischiare con asciugamani, manopole e meccaniche, adesso finalmente tutto è sistemato, tutto è “right” e si comincia a suonare per davvero!
Tira fuori il suo inconfondibile stile chitarristico sicuro, pesante e percussivo, la sua voce calda e profonda; adesso le zanne sono pronte ad affondare nella carne.
In realtà sembra che il concerto sia stato solo un lungo sound-check e che con il bis sia iniziato in realtà il vero show. A dispetto delle probabilità matematiche sembra che Belfour abbia finalmente trovato la combinazione magica che cercava, ora è all’apice della sua vena interpretativa e adesso suona e canta in maniera davvero impressionante: quando si lancia in una cover di “Boogie Chillen” di John Lee Hooker, sembra di avere davanti la reincarnazione di “The Hook”, non esagero!
Adesso che l’incantesimo si è creato il pubblico non vuole più lasciarlo andare e lui non ha alcuna intenzione di sbattere la porta in faccia alla gente che lo acclama e continua a sfoderare brani micidiali con la presenza sonora di un’orchestra. A un tratto si alza, depone la chitarra nella custodia e fa per congedarsi ma gli applausi fragorosi lo commuovono, quasi gli fanno venire le lacrime agli occhi e lasciare il palco adesso gli sembra impossibile. Torna a sedersi, riprende il suo strumento ed attacca il jack, si continua!
Ormai Belfour è inarrestabile. Le luci sul palco si spengono e si accendono le luci in sala, il messaggio degli organizzatori è chiaro: si è sforato l’orario in cui è permesso fare musica senza rischiare denunce. Ma lui non ha alcuna intenzione di deludere il pubblico di fedelissimi che continua ad applaudirlo e ad incitarlo e continua imperterrito con l’entusiasmo di un ragazzino fino a quando manca poco che Rupert Orton, il direttore artistico del festival, vada a staccargli fisicamente il jack dalla chitarra!
Insomma è stato sicuramente il concerto più anti-convenzionale, informale e meno ortodosso che io abbia mai visto, ma è stata proprio questa anti-convenzionalità a rendere quella notte indimenticabile e ricca di magia.
La lezione è chiara: il blues, quello vero, nato nei cortili fangosi del Mississippi tra le baracche degli agricoltori di colore, non può essere irreggimentato in percorsi prestabiliti. Non può essere suonato con una chitarra accordata con accordatore elettronico o con ampli regolati da un fonico, non può attenersi ad orari, scalette e percorsi usuali. Quando la musica proviene veramente dal cuore è indisciplinata, nasce quando uno non se l’aspetta, non può essere eseguita “a comando” secondo schemi e canoni stabiliti in nome della “professionalità”.
Una risposta ai mega-concert in cui nulla è lasciato al caso, tutto deve essere organizzato nei minimi dettagli e pre-ordinato con perfetta efficienza; una risposta importante, nell’era dei brani “radiofonici” da tre minuti e della musica ascoltata attraverso le suonerie dei cellulari. Il blues vero, quello cresciuto dalla terra, è lontano anni luce da questo mondo ed è proprio per questo che oggi ancor di più ha ragione di esistere e di proclamare la sua diversità rifiutando facili omologazioni.
Se volete portare a casa una preziosa testimonianza della musica di Belfour, procuratevi il CD “Pushin My Luck”, edito dalla Fat Possum Records nel 2003, un autentico capolavoro.
BOB CILLO
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