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sabato 19 marzo 2011

NICK DRAKE (16 giugno 1948- 25 novembre 1974) - " Things Behind The Sun": A very little story

"Drake resta oggi più che mai un artista emarginato con pochissime chance di un suo recupero critico e di popolarità a posteriori". L'anno era il 1986 e a scrivere queste parole era Luca Ferrari, autore di UN'ANIMA SENZA IMPRONTE, quella che per diversi anni é stata la prima - e unica - biografia di Nick Drake. Parole che con il senno di poi suonano strane o addirittura miopi, ma che in realtà fotogravano esattamente l'allora stato delle cose riguardo il menestrello di Tanworth-In-Arden. Semplicemente, le impronte di quell'anima dovevavo ancora affiorare...la vera riscoperta di Drake é partita, almeno, alla fine degli anni '80." (Antonio Puglia)

Così inizia la bella e particolareggiata postfazione curata da Antonio Puglia a "PINK MOON - Nick Drake", un agile libretto incentrato sul terzo capolavoro di Drake scritto da Amanda Petrusich (e tradotto sempre da Antonio Puglia) uscito da poco nel 2011 per la collana TRACKS della NO REPLY Ed., e che presto sarà recensito su Distorsioni. Spero gradiate come aperitivo "Things Behind The Sun": A very little story di Nick Drake" scritta dal nostro Alfredo Sgarlato. Lavori in corso per una seconda più corposa! (wally)


La vicenda umana di Nick Drake è una delle più toccanti nella storia del rock. Nacque in Thailandia, figlio di un ambasciatore, ma ben presto la famiglia tornò in Inghilterra. Si racconta di un infanzia felice in una famiglia molto unita. C’è però una biografia che parla di un grave trauma vissuto da bambino, ma senza specificare di cosa si tratti. Fin da piccolo Nick a volte si ferma in mezzo alla stanza assorto: ascolto la mia musica, dice alla madre. Alle superiori è molto amato dai compagni: è un ragazzo simpatico, con talento per la musica e lo sport. Certe sue stravaganze sono considerate dagli amici normali per un artista. Dopo il liceo fa una lunga vacanza in Francia, che ricorderà come il momento più bello della sua vita e da cui torna col primo demo. All’ università non passa inosservato: Drake è alto quasi 2 metri, ha lunghi capelli biondi, veste sempre di nero (all’epoca non è assolutamente di moda) e porta sempre con sé un libro di poesie di Rimbaud. Ma l’adolescente allegro è diventato un ragazzo timido e solitario. Forma un gruppo con un amico, ma esibirsi dal vivo per lui è una sofferenza.
Le pochissime uscite live bastano perché lo noti Joe Boyd, scopritore e produttore di Incredible String Band e Fairport Convention. Nick pubblica 2 dischi "Five Leaves Left" (River Man) e "Bryter Layter" (At The Chime Of A City Clock), canzoni acustiche e malinconiche, venate di folk e jazz, accolti dalla stampa come capolavori ma ignorati dal pubblico. L’insuccesso abbatte Drake, che abbandona gli studi e torna a vivere coi genitori. Passa giornate intere seduto su una panchina di fronte a casa. A un certo punto accetta di essere seguito da uno psichiatra. Per un po’ ricomincia un minimo di vita sociale e incide "Pink Moon", un disco per sola chitarra e voce, ma ben presto ripiomba nella crisi. (Place to Be)
Passa notti intere alzato a girare per casa. In genere la madre si alza a tenergli compagnia. Una notte non ce la fa e si riaddormenta. La mattina dopo lo trova morto, dopo un overdose di triptizol (è un antidepressivo). Non sapremo mai se casuale o voluta. Sul piatto c’è un disco di Bach.
Quando facevo il liceo girava una leggenda su Nick Drake. Si diceva che viveva in un grande castello con un cane un gatto e un pappagallo. Che un giorno decise di morire e fece un overdose fatale a sè stesso e ai 3 animali. Molte altre leggende girano su di lui, per esempio che fosse un ermafrodita. Non si è nemmeno mai saputo quale fosse l’esatta diagnosi dei suoi problemi psichici. La sua vita rimane misteriosa. La sua musica, troppo poca. In vita Nick ha pubblicato tre album. Altri tre sono usciti postumi, "Time of no reply", "(I was) Made to love magic" e "The complete home recordings".
I primi due coincidono in 7 o 8 canzoni su 13 (più una che è la stessa seppure in versioni molto diverse). Il terzo ha una qualità di registrazione ben oltre l’indecenza.
Alfredo Sgarlato
Nick Drake

CONTRIBUTI: DAVID BOWIE - LA TRILOGIA BERLINESE: 1977-1979, "Low" - "Heroes" - "Lodger"


Citando l’autore tedesco Gunter Grass "Berlino era il centro di tutto quello che stava succedendo e succederà in Europa nei prossimi anni". E così girovagando e camuffandosi fra le strade di Berlino Ovest, David Bowie vive uno stato euforico totale per cercare quell’ispirazione e verve che solo i quartieri neri, devastati, isolati, turchi, freddi e sbarrati di Berlino potevano regalargli. Erano gli anni della Guerra Fredda; era il desiderio dell’unione, della libertà, era il sogno di un uomo in cerca di sè stesso.




Domicilio: Schöneberg Hauptstraße 155. Il Duca Bianco entra in scena a Berlino. Era la fine del 1976


Low (1977)
Art Decade celebrava la stessa Berlino, "una città tagliata fuori dal proprio mondo, dall'arte e dalla cultura, agonizzante e senza nessuna speranza di riscatto". Al fianco di questo suo viaggio esistenziale lo segue fedelmente il compagno Iggy Pop: sfatando la leggenda del loro amore omosessuale, in realtà si vedono complici ed amici stretti in un momento di vita assurda fatta di brividi per la disintossicazione, istinti suicidi (Always crashing in the same car ne è testimonianza!) e nella ricerca di nuovi sound e nuove glorie (Sound and Vision). Warszawa coglieva il lugubre mistero della Polonia al tempo della Guerra Fredda (ecco la ballad da cui Bowie trasse ispirazione per la composizione poi elaborata nel sound elettronico di Brian Eno). Ma a proposito della mai pubblicata colonna sonora realizzata da Bowie per ‘L'Uomo che cadde sulla terra’, ritroviamo tutto il lato B del vinile "Low" strumentale e per la prima volta quella linea di dolore aliena del mondo è espressa musicalmente con effetti sonori sorprendenti e ogni impulso narrativo viene ampiamente abbandonato. Subterraneans è un Bowie fuori e dentro di sé, come strade sotterranee il suo è un percorso estremo, buio e pieno di lacrime. Il suo sogno di creare una colonna sonora infatti svanisce.
Ma ritorniamo per un attimo al viaggio berlinese: Iggy non produceva un album dal 1973 e Bowie invece si era visto prosciugare le tasche dal suo ex produttore che incassava il 50% delle sue vendite discografiche. Insomma bisognava darsi da fare. Nasce proprio negli studi di Hansa di Berlino "The Idiot" quasi interamente scritto da Bowie che porta fortuna all’amico Iggy e lo lancia verso la carriera solista. Bowie porta dentro sé quello stesso spirito che aveva portato Andy Wharhol a creare la "Factory" che può essere considerata una sorta di officina di lavoro collettivo e che come produttore aveva lanciato la carriera di molti amici/artisti. In questo clima di affinità elettive Bowie recupera la sua Musa Ispiratrice e "The Idiot" diventa quasi una sorta di prova generale per "Low" ed "Heroes" che poi esploderanno dentro la sala di registrazione all’interno del Chateau d'Herouville. Se Trilogia Berlinese si chiama è perché c’è l’anima di tutto il Bowie berlinese ma di fatto "Heroes" è l’unico album della trilogia che viene registrato a Berlino mentre è proprio in Francia che si registra"Low" al Chateau d'Herouville. Rinchiusi dentro il Castello c’erano Carlos Alomar, George Murray, Dennis Davis rispettivamente guitar man, bassman e drummer; Tony Visconti stava alla produzione con Bowie mentre la ciliegina sulla torta è rappresentata da Brian Eno. Mary Hopkin, la moglie di Tony Visconti, duettò con Eno nei coretti di Sound and Vision. Speed of life e A new career in a new town utilizzano una robusta sezione ritmica rhythm and blues.



Ciò semplicemente per evidenziare che non è vero che Brian Eno fu determinante per le sue applicazioni elettroniche al disco: piuttosto fu artefice di quelle "Strategie Oblique" che contenevano istruzioni casuali come "onora il tuo errore come intenzione nascosta", "enfatizza le pecche", "usa personale non qualificato" e così via che fecero affiorare un nuovo linguaggio musicale in Bowie definendolo "l'astrazione della comunicazione"("TRANS EUROPE EXCESS", di Stephen Dalton e Rob Hughes, Uncut n. 47, aprile 2001, seconda parte). Era il Gennaio 1977: "Low" è pronto per essere pubblicato ma dobbiamo aspettare ancora qualche mese per la promozione perchè Bowie decide di fare il pianista accompagnando l’amico Iggy durante il suo tour americano per "The Idiot".


Heroes (1977)
Siamo nel maggio del 1977, le strade di Berlino sono ancora un po' fredde."Lust For Life" dell'amico Iggy Pop è completato. Bowie richiama agli studi Hansa i vecchi compagni di delirio a cui si aggiunge Robert Fripp dei King Crimson. Se Low (che significa appunto depresso) è buio ed introspettivo nel suo male di vivere, "Heroes" rappresenta una luce nel mare in tempesta. Due amanti, un re ed una regina, due delfini, "we can be heroes just for one day" è la nota di speranza a volte sognata a volte reale; sotto una torretta due giovani si amano e sperano che quel Muro possa cadere per unirsi nel loro amore anche solo per un giorno:

“Sebbene niente ci terrà uniti,
potremmo rubare un po' di tempo,
per un solo giorno, possiamo essere Eroi,
per sempre”
.

I Figli del silenzio piangono, guardano nel nulla.

“I figli dell'era silente
Fanno l'amore solo una volta
ma sognano e sognano
Non camminano, scivolano solamente
dentro e fuori la vita
Non muoiono mai,
un giorno si addormenteranno semplicemente “
.

Le note alte di Bowie ed i cori di Eno e Visconti fanno venire i brividi per la bellezza e la inquietante fragilità. Bowie è ancora malato, ruba il tempo con il bere e la droga, dimentica la sua realtà vivendo nel sogno, rinchiuso in quello zoo che è il suo rifugio, è ancora
Blackout e questa lucidità del suo dolore è lacerante.

”Se non rimani questa notte
Prenderò quell'aereo questa notte
Non ho niente da perdere,
niente da guadagnare
Ti bacerò sotto la pioggia
Bacerò sotto la pioggia
Bacerò sotto la pioggia
Toglietemi dalla strada
Rimettetemi in piedi
datemi qualche direzione
L'aria bollente mi manda in blackout”



Lodger (1979)
1979: nasce "Lodger" ma diciamo la verità, era ormai lontano dalla genesi berlinese che aveva invece permeato Low e Heroes. "Lodger"  nasce infatti fra il 1978/79 durante i soggiorni di Bowie a Tokyo, in Russia, in Africa e il suo 'travelogue influences' si sente da una traccia all’altra passando da sonorità giapponesi a ritmi africani con grande disinvoltura. Da Fantastic Voyage si salta ad African Night Flight e Red Sails con un sound molto orientaleggiante. Una stilistica contemporanea che potremmo definire quasi premonitrice della world music che unisce il pop alla musica etnica (Yassassin). Più che di Trilogia dunque sarebbe più appropriato forse parlare di doppia-coppia uscite nel 1977: The Idiot-Lust for life e Low/Heroes nati proprio a Berlino dalla coppia più ‘Stooge’ di quegli anni che li vede protagonisti ‘maledetti’ e rappresentativi di una storia che unisce amicizia, disperazione, disintossicazione e musica; parafrasando la citazione del produttore Tony Visconti, come in un film questa storia si colloca in una speciale location: ’a Berlino infatti chiunque tu sia, non sei un cazzo’. Ed è proprio da questa libertà d’essere ed anonimato esistenziale che paradossalmente si creano i due+due grandi capolavori che rimarranno nella storia del rock per sempre.
Grace Paparo

David Bowie's Berlin

La "trilogia berlinese" di David Bowie:
Low (1977 - RCA Records)
Heroes (1977 - RCA Records)
Lodger (1979 - RCA Records)

bibliografia:
Thomas Jerome Seabrook: "Bowie In Berlin - A New Career In A New Town"  (Jawbone Press, 2008)
Thomas Jerome Seabrook: "Bowie - La Trilogia Berlinese" (Arcana Ed. 2009)

venerdì 18 marzo 2011

SHORT REVIEWS – Glitterball, “We couldn't have dreamed it” (2011, Seahorse)

Se Mick Jagger e Keith Richards avessero voluto creare la storia del rock avvalendosi di basso,  chitarra e loop elettronici si sarebbero chiamati Glitterball. Il duo pescarese è una sana boccata d'ossigeno e suono per orecchie, cervello e cuore. Riff assassini e ritmica da attacco cardiaco. Da During easy conversation a Spyware in my mind, questo lavoro non dà tregua attraverso dieci tracce dipinte ora di dark-blues ora di sanissimo, adrenalinico rock'n'roll, dove il basso regge meravigliosamente ritmo e armonia supportando alla grande e da protagonista un'ottima voce fra Jack White, Kurt Cobain e Brian Molko e splendide chitarre dai riff ammalianti degni della Corte di Sua Maestà Keith. Crowin' Hill è un autentico piccolo capolavoro, AB ci trascina tra Kasabian e Stones psichedelici catapultandoci nel mondo virtuale/sensuale di Nerd tra Beatles e Chemical Brothers. Dopo il bell'esordio del 2009 e l'epico tour “diari dell'Opel Agila” del 2010, Giovanni Lanese e Barbara Sica hanno tracciato un solco, spero indelebile, nella storia del rock di questo paese. Il r'n'r sonico e claustrofobico di In a rain of rainbows e la filastrocca nichilista di I an (Ian quanto ci manchi ...) culminano nel megatrip di Spyware in my mind in cui la band proietta The Edge nei codici cyber-lisergici di Matrix, piegandoli alla propria sapiente e viscerale visione sonora. Rock, gusto ed energia devastante. Un disco nato per essere amato.

Maurizio Galasso

HOWE GELB & A BAND OF GYPSIES: “Alegrias” ( 2011 Fire Rec./Goodfellas)

Howe Gelb, sotto qualunque veste si presenti, solista, Giant Sand, The band of Blacky Ranchette, OP8, è artista vero e sincero, la sua musica ti fa respirare l’aria assolata del deserto dell’Arizona mentre ascolti storie di amori impossibili e meravigliosi e di illusioni perdute, di viaggi e di tramonti assolati, ma ciò che stupisce è la sua voglia di non fermarsi mai, di trovare nuove strade per la sua musica, la sua apertura mentale che lo porta via via ad incontrarsi con esperienze musicali diverse. Così è stato con il gospel per “Snow angel” del 2006 o per i musicisti danesi che hanno rimpiazzato i due Calexico Convertino e Burns in alcuni album del nostro, o per le collaborazioni con songwriters del calibro di M.Ward o Richard Buckner, e adesso è la volta del flamenco. Frutto di una permanenza nella città andalusa di Cordoba è questo "Alegrias", uscito per la spagnola Eureka un anno fa e adesso pubblicato dalla Fire per il mercato mondiale, dopo il successo ottenuto dal disco in Spagna.
Nell’album, che contiene 12 brani, di cui 4 composti per l’occasione e 8 presi dal repertorio di Gelb e presentati in un nuovo arrangiamento, il musicista di Tucson si fa accompagnare dal virtuoso della chitarra Raimundo Amador e da altri musicisti raggruppati sotto il nome di Band of Gypsies e mixare dal fido John Parish. Gelb non è uno sperimentatore, ma piuttosto innerva il suo songwrigting con gli umori e le suggestioni che sa cogliere nelle musiche che lo affascinano, così il suo country del deserto si sposa con il ritmo dell’orchestra gitana di flamenco, ma mantiene il senso di indolenza e di sommessa malinconia tipico della sua musica, come nell’iniziale 4 Doors Maverick in cui le chitarre e il cajon, tipica percussione delle orchestre di flamenco, accompagnano quasi con timidezza la voce roca di Gelb o in Uneven Light of Day dove l’incontro fra le chitarre flamenche e la voce calda e ruvida di Gelb, contrappuntata dal coro, crea un’affascinante atmosfera sognante sotto la luce abbagliante della luce del sole dell’Andalusia e dell’Arizona, che sembra accendersi ancor di più con gli inserti della chitarra elettrica.
E se in brani come Saint Conformity (da "Confluence") Gelb con la voce più roca che mai, quasi alla Tom Waits, canta un blues sporco da deserto che si avvicina moltissimo allo stile dei Giant Sand, in altri invece l’influenza andalusa è più marcata come in Cowboy Boots on Bottle Stone (da "The Listener"), abile gioco fra la voce di Gelb e la chitarra di Raimundo Amador in un’atmosfera tipicamente gitana con le voci del coro femminile che incitano alla festa.
Lo si sarà capito, qui il flamenco viene come scarnificato (There Were Always Horses Coming), depurato del suo aspetto più drammatico e teatrale e anche della sua indubbia forte carica erotica ed emozionale, tutto questo resta appena accennato, e quando la focosità mediterranea tenta di venir fuori viene ricondotta dentro gli orizzonti morali della frontiera americana. Ma questo non limita, anzi accresce il fascino del disco e di questo incontro fra due culture lontane che trovano qui un punto di equilibrio nella capacità dei musicisti di dialogare fra loro senza che prevalga un unico punto di vista.

Ignazio Gulotta

DARK CABARET - THE TRAGIC TANTRUM "Mirror Mirror" New Album and INTERVIEW with the TRAGIC TANTRUM










Molto raramente in Italia si è parlato di questa band di San Diego, sia perché la band fa parte di una corrente musicale ancora poco trattata nel nostro paese, sia perché il loro primo album è appena uscito. Suonare insieme ai re dello Steam Punk, gli Abney Park ed aprire il concerto dei Nitzer Ebb, gruppo importante nella scena ebm, non è di certo da tutti, eppure i Tragic Tantrum già hanno raggiunto questi traguardi e non hanno voglia di fermarsi ora. La band è formata da Zoe Tantrum (canto e testi) Zeph Tragic (chitarra elettrica, piano, xilofono) e Darrin Lee (batteria), si ispirano prevalentemente ai lavori del combo cabaret The Dresden Dolls e a Danny Elfman, ovvero colui che creò le colonne sonore per film quali “Edward Mani Di Forbice”, “Hulk”, “Red Dragon” e l’opening dei “Simpson”.
Il mix Dresden-Elfman inoltre si fonde alle atmosfere della neo goth americana e cresce nell’ambiente Steam Punk U.S.A.: come se non bastasse i T.T. sono dei veri artisti visivi, come si può notare nei loro concerti, definiti multisensoriali, organizzati nel dettaglio da Zoe e Rexx.
La band può vantarsi della propria esibizione al locale storico The Casbah, che ospitò gruppi del calibro di Nirvana, Smashing Pumpkins, MGMT, Vampire Weekend, The White Stripes, Gogol Bordello, Franz Ferdinand e molti altri, i Tragic figurano inoltre nella scaletta dell’Esylium Festival del 2009, famoso evento musicale del sud California.


The Tragic Tantrum new album: "Mirror Mirror"
Il 2011 è l’anno della consacrazione di questo gruppo ipnotico e surreale, grazie all’uscita del loro primo cd “Mirror Mirror”. L'album è stato registrato al Segnature Sound di San Diego, stesso studio che diede vita ad alcuni album dei Blink 182, P.O.D., Used e U2, e l’artwork è stato confezionato da Daniel Arsenault grande fotografo statunitense. Con Only With You, inizia il viaggio in “Mirror Mirror”, il canto associato alle musiche ripetitive ci mesmerizza facendoci entrare in una sorta di mondo delle meraviglie, dove l’arte visiva e la musica si fondono in una incredibile chimera.
"Excuse Me Mister, I'm new here never been here I don't know here. Which way should I go?"
Una volta entrati un questa caleidoscopica dimensione siamo accolti da Excuse Me Mister, una delle prime canzoni scritte dai T.T.. La seconda track accelera i tempi dell’album tramite svariati stop’n go adrenalinici, mentre l’ascoltatore potrà beatamente perdersi fra le melodie del piano e gli agguati vocali di Zoe.
"But there was a time
when I was good
Now I search these nights
For something that I lost"

When I Was Good sembra raccontarci di qualche angelo caduto in perdizione, ed è quello che sta accadendo all’ascoltatore, già al terzo pezzo infatti i Tragic ci hanno trascinato nelle loro sonorità bizzarre ed opprimenti.
"God it was so fun!"
The Silent ci mostra il lato più macabro della band, durante il suo ascolto saremo bombardati di svariati effetti sonori e dall’incredibile teatralità del gruppo.
"We want you to come out and play
We want you to dress up and play with us"

Arrivati a metà di Mirror Mirror ci piove dal cielo Go, che lascia letteralmente a bocca aperta. Un pezzo eccellente che stona con la prima parte del cd, è come se questi americani oscuri abbiano scherzato fino ad ora, e finalmente siano saltati sul palco a dimostrarci quale realmente è la capacita del Dark Cabaret.
"Laugh
But never too loud"

La seconda parte dell’album continua con Beautiful, canzone più contenuta della precedente ma egualmente ben curata.
"There once was a man named Diego
And a girl named Arlene"

Diego and Arlene arriva spasmodica a buttare altra benzina sul fuoco, la canzone infatti è fresca coinvolgente e ben fatta, in una evoluzione stupefacente la band ci infila sonorità folk, country e horror in un risultato indefinito e assurdo.
"We are a dying city2
Swan Song è considerabile come un breve ritorno alla realtà, 'noi siamo una città morente' ci ripetono i Tragic Tantrum, effettivamente uscendo dal loro mondo bizzarro e curioso è difficile tornare alla vita di tutti i giorni. Questi artisti ti scavano dentro, e l’ascoltarli fa crescere e tornare bambini contemporaneamente.
"I don’t want a superhuman
All I want’s an honest friend"

Warrior continua il filo drammatico-malinconico dell’ultima parte del cd, come quando si torna a casa da una lunga vacanza con il cuore pieno di pensieri.
"I…Wish I could love you
I…Know I don’t love you
The way I should"

Prima di abbandonarci veniamo aggrediti dalla struggente Only With You, che confonde per un’ultima volta in un torbido circolo musicale.
"We both speak
At the same time
Again
You go first
You ask me to
I'm not sure"

Something We’re not ha il difficile compito di salutarci. Il suono è scarnificato, rimane solo uno xilofono distante ed il tempo per un’ultima esibizione regalataci da Zoe. La cantante trasmette a chi ascolta sensazione pura, possiamo immaginarcela dietro al microfono con occhi pieni di lacrime come nel più sincero degli arrivederci. Questa giovane formazione ci regala davvero molto in un album di straordinaria fattura, traccia dopo traccia possiamo tastare con mano
l’impegno del trio Dark Cabaret, anche il più apatico non potrà rimanere indifferente nel susseguirsi delle note. Un genere nascente ha bisogno di artisti sinceri come i Tragic Tantrum, che nel modo più disinteressato si occupano di creare semplicemente qualcosa di bello. Se associeremo poi la qualità di “Mirror Mirror” alla loro potenza stilistica troviamo un ottimo progetto al quale auguriamo tutta la notorietà che merita.

Tragic Tantrum' Interview

L’articolo è stato sviluppato tramite una corrispondenza diretta con la band, alla quale abbiamo posto alcune domande per conoscerli meglio:

Quale è la filosofia dei Tragic Tantrum?
Abbiamo formato i Tragic Tantrum con l’intenzione di creare una band che presentasse molteplici sfaccettature, un gruppo teatrale e interattivo. Dall’inizio, il nostro obiettivo era di ispirare i nostri fans a mettersi una maschera, facendoli partecipare ai nostri show, mettendo in mostra il loro talento e la loro creatività. I nostri spettacoli sono sempre stati multimediali, integrati con artisti visivi, ballerini, artisti mangiafuoco, acrobati sui trampoli e con alcuni dei più elaborati costumi della città.
Quando facciamo uno show lo rendiamo spettacolare. Amiamo l’idea delle persone che si travestono per uscire e recarsi ad un evento, dove faranno parte dello show tanto quanto gli stessi intrattenitori.

Parlateci del futuro del Dark Cabaret
È un argomento interessante nel suo complesso. Il Dark Cabaret è un genere talmente di nicchia che probabilmente non diventerà mai commerciale. Se lo diventasse, rovinerebbe tutta l’atmosfera underground che vi si respira. Comunque la scena stessa sta crescendo e molte più persone ne stanno venendo a conoscenza. Come qualsiasi altra subcultura, si rivolgerà a un particolare tipo di persone: agli artisti, strambi, macabri, teatrali, brillanti, esotici, individui che amano mascherarsi e creare un mondo tutto loro. C’è un futuro per il Dark Cabaret e lo stiamo vivendo proprio ora. Non sappiamo in cosa si evolverà ma non è questo il punto. Il punto è di farne tesoro per ciò che offre al momento e crescere con esso. È di per sè stesso un mostro, crescerà e prenderà forma da sé. Noi siamo qui solo per fare un giro su questa giostra.

Quando verranno in Europa e in Italia i T.T.?
I Tragic Tantrum si esibiranno in Italia e in tutta Europa appena avremo fondi e supporto per farlo! Non desideriamo altro che andare oltre oceano. Tutto dipende dal trovare lì i giusti supporti ed attenzioni per aiutarci. Vi chiediamo quindi, per favore, di parlarne a tutti i vostri amici in modo da spargere la voce!
Per terminare: ci troviamo di nuovo di fronte ad una piccola realtà musicale notevole, una band con le qualità e le caratteristiche per crescere sempre di più, basta ricordarci che in fondo sta a noi supportare le bands che più amiamo per renderle sempre più famose e prolifere.
Francesco Castignani 
Si ringrazia Natalie per il lavoro di traduzione

Tragic Tantrum
TragicTantrumMySpace
Island Of Broken Toys

giovedì 17 marzo 2011

SHORT REVIEW - Giorgio Li Calzi, "Organum" (Fonosintesi/Egea 2011)

Torna dopo sette anni il trombettista e sperimentatore Giorgio Li Calzi con questo suo ottavo disco, "Organum", che fonde elettronica in battuta bassa e atmosfere jazzistiche. La componente jazz in realtà si limita all'uso della tromba, in stile tipicamente alla Miles Davis, spesso con sordina, altrimenti quella che ascoltiamo potrebbe essere una ambient alla David Sylvian (i tocchi minimali di tastiere in Blue Lights) o la musica chillout, elegante e d'atmosfera, tipica di alcune compilation ispirate da locali francesi, come in Eyes Wide Open o Exist, dove canta la brava Hayley Alker, di Portsmouth. I new waver della prima ora saranno entusiasmati dal trovare tra gli ospiti Thomas Leer (autore dello splendido “The Bridge” in coppia con Robert Rental), voce ed elettronica in The truth of a chinese whisper. Altri musicisti presenti sono i collettivi elettronici Retina.it e Marconi Union, il bassista Alessandro Maiorino (Baustelle) e il chitarrista Roberto Cecchetto (poco in vista). Musica sofisticata e piacevolissima, ma più adatta come sottofondo che per un ascolto attento.
Alfredo Sgarlato

CODEINE: "Frigid Stars" (Aug 1990, Sub Pop)

A volte, dopo un lungo dibattimento interiore, mi decido ad aprirmi alle nuove sonorità e così ascolto qualche giovane band della quale si parla (e si scrive) tanto bene. Devo ammettere che spesso e volentieri resto sorpreso di fronte alla qualità delle proposte che spiccano nell'odierno panorama underground. Noto una crescente preparazione tecnica ed una ricchezza di suoni e soluzioni davvero notevole.
Ma se penso ai dischi che hanno sconvolto per sempre la storia del rock, la mia (personalissima) lancetta dell'orologio del tempo si è fermata all'anno di grazia 1990. Le uscite discografiche di quella favolosa annata dovrebbero essere materia di studio obbligatoria per tutti gli appassionati di indie rock. Mi riferisco quindi a qualcosa che resta lì, piantato in mezzo ad un prima e ad un dopo. Parlo di spartiacque, di album epocali come "Spiderland" degli Slint e "Nevermind" dei Nirvana, tanto per dire. E come "Frigid Stars" dei Codeine. Un album che, giustamente, viene citato come il capostipite del genere slo-core ma che è anche molto di più. Potremmo tranquillamente parlare di evoluzione del rock acido attraverso una sorta di minimalismo atmosferico della musica, qualcosa che trascende il concetto stesso di rock. Possiamo davvero ancora chiamarlo rock? Per certi aspetti sì. I Codeine sono in fondo un trio chitarra-basso-batteria e il loro stile non nasce dal nulla, ma i riferimenti musicali sono piuttosto indefinibili.
Certo, vengono in mente i Galaxie 500, l'austerità di alcune band dell'avanguardia newyorchese, una sorta di spiritualità tra il "freddo" ed il gotico che può far pensare ad alcuni lavori di Nico ma siamo molto lontani da una precisa definizione. Le atmosfere depresse, il rimbombo del basso, i colpi quasi sordi della batteria, le dissonanze, la voce da litania, l'atmosfera notturna fra la veglia ed il sonno, le ballate malinconiche al rallentatore, tutto questo si snoda lungo "Frigid Stars". Inutile descrivere separatamente i pezzi, tutti quanti cantano una sola cosa: la sconfitta della propria esistenza, lo scorrere monotono e insensato dei minuti. Qualcuno, anche nel rumoroso mondo del rock, doveva farlo no?
Andrea Fornasari
Tracklist
01 D
02 Gravel Bed
03 Pickup Song
04 New Year's
05 Second Chance
06 Cave In
07 Cigarette Machine
08 Old Things
09 3 Angels
10 Pea

OLAFUR ARNALDS: "And They Have Escaped The Weight Of Darkness" (Jun 8 2010, Erased Tapes Records)

Fuggire dal paese delle oscurità. Questa è la prerogativa del nuovo lavoro di Olafur Arnalds. Non è mica cosa semplice Olafur, anche se in un tempo così buio fuggire può sembrare l'unica soluzione! In un tempo in cui anche la musica sembra arrendersi e non trovare il suo spazio. In un tempo in cui un disco come questo può passare inosservato. Allora si, è proprio il momento di fuggire.
Dopo avere abbandonato il posto di batterista in formazioni hardcore come i Fighting Shit ed i Celestine, Olafur Arnalds esordisce nel 2007 con l'album "Eulogy for Evolution" a cui seguiranno tre EP: "Variations of Static" del 2008, "Found Songs" e "Dyad" del 2009. Il nuovo album del polistrumentista islandese é un peregrinare tra le note alla ricerca di emozioni perdute. L'impianto é scheletrico: sono il pianoforte e gli archi gli elementi portanti del disco. Ogni singola nota nasconde un emozione. Ogni singolo passo è mosso dalla consapevolezza.
Þú Ert Sólin è il brano che dà inizio a questa fuga che ci porterà almeno per qualche minuto lontano dalle nostre paure e dalle nostre insicurezze.
Þú Ert Jörðin arriva, ti accarezza e nemmeno te ne accorgi.
Tunglið sembra scrutarti dentro, scorre veloce per poi aprirsi come un fiore ai raggi del post rock. In Loftið Verður Skyndilega Kalt e in Kjurrt si possono sentire le lacrime dei violini cadere sul pianoforte.
Gleypa Okkur e Hægt, Kemur Ljósið ti portano su macchiandoti dell'azzuro del cielo. Undan Hulu è una ninna nanna senza leggi gravitazionali. In Þau Hafa Sloppið Undan Þunga Myrkursins tutti gli strumenti si abbracciano come in un lungo addio. Ed è allora tempo di fuggire Olafur, in un paese dove il tuo pianorte, i tuoi violini, le tue note e le tue emozioni possano trovare il giusto riconoscimento.
Michele Passavanti

LIVE REPORT: “Electric Wizard” (11/03/2011, Roma, INIT)

Arrivano a Roma gli Electric Wizard, storica band doom metal inglese, che presenta il loro ultimo album “Black masses” (2010, Rise Above Records). L’album è stato registrato tutto in analogico ed è il settimo lavoro in studio delle loro carriera iniziata nel 1993.
La band inglese nel corso degli anni ’90 è è stata una delle più influenti band doom metal, grazie a lavori come "Electric Wizard" (1995), "Come My Fanatics..." (1997), "Dopethrone" (2000), nei quali gli Electric Wizard hanno incorporato elementi stoner e sludge, includendo riferimenti costanti alle narrazioni gotiche di HP Lovecraft, ai film horror, all’occulto, alla stregoneria, al male rappresentato nella sua essenza ed intriso di elementi luciferini e satanici.

Il concerto

Entrando all’INIT notiamo subito che il pubblico è diviso in due grandi categorie: da una parte ci sono i metallari più nostalgici e stagionati, alla ricerca delle sonorità anni ’70 e ’80 ispirate ai Black Sabbath e dall’altra ci sono molti giovani probabilmente attratti dal miscuglio, decisamente sconsigliabile, di occultismo e abuso di droghe. Alle 23 e 30 la band sale sul palco. Entrano in sequenza il cattivo Shaun Rutter (batteria), la fascinosa Liz Buckingham (chitarra), l’inquietante Tas Danazoglou (basso) e Jus Oborn, leader della band (chitarra e voce). Lo show scorre via tra riff lenti e pesanti, sonorità distorte ed una sezione ritmica davvero incalzante, che ripercorre i brani degli ultimi due album: The Chosen Few, Satanic Rites of Drugula e Witchcult Today (“Witchcult Today”, 2007), Scorpio Curse, Night Child e Black Mass (“Black Masses”, 2010) con qualche innesto di vecchi brani come Return Trip (“Come My Fanatics...”, 1997). Il pubblico si scatena subito in un pogo esagitato ed ogni cinque minuti qualcuno sale sul palco per lanciarsi sul pubblico (spesso sfracellandosi sul pavimento), con successivo surfing sulle teste di fans divertiti e complici. Che non siamo qui ad ascoltare musica classica lo intuiamo subito quando alla bella dark lady Liz Buckingham urlano epiteti inenarrabili ed a Jus Oborn, appesantito nel fisico, gridano: "aoo, ma che te si magnatoo !". Il rock è anche divertimento, si sa. La band, sicuramente abituata agli stage diving ma non alle cafonaggini italiche, non fa una piega e continua a suonare con la medesima pesantezza, cercando di rappresentare al meglio il lato fascinoso del male. Nonostante tutto, il concerto scorre via bello denso e pesante sino alla conclusione, con la coinvolgente Dopethrone. E a questo punto, la messa (nera) è davvero finita.

Articolo e foto di Felice Marotta

Electric Wizard Discography (Studio album)

1995 - Electric Wizard
1997 - Come My Fanatics...
2000 - Dopethrone
2002 - Let Us Prey
2004 - We Live
2007 - Witchcult Today
2010 - Black Masses

mercoledì 16 marzo 2011

JOE JACKSON: 1981 - 2011, "Pop Rock Genius!"

A differenza dei cartacei rock specializzati nazionali, noi di Distorsioni non abbiamo bisogno di un 'best' in uscita per parlare ed approfondire gli artisti che ci piacciono da sempre, che costituiscono il nostro DNA musicale! Lo facciamo ogni volta ne abbiamo voglia, come e quanto ci pare, e se permettete questa é una libertà non da poco! Nel caso di Joe Jackson é una passionalità ed ammirazione di lunga data a motivarci: stiamo parlando di uno degli artisti più geniali e versatili in senso assoluto a livello internazionale degli ultimi trent'anni e passa; tutto o quasi lo scibile musicale é stato toccato e magnificato dal suo istinto/talento eccezionali: punk, mod-music, pop, rock & roll, blues, jazz, colonne sonore, musica classica. Cantante, compositore, scrittore, pianista, arrangiatore, non gli é rimasto molto da esplorare! Mai adagiatosi sugli allori ha sempre nutrito un'insofferenza cronica nell'essere ingabbiato in clichés ed etichette musicali, seguendo sempre ciò che la sua ricchissima vita interiore gli ha suggerito e mai ha dato ai suo fans ciò che si aspettavano da lui, finendo anche col rimanere isolato con le sue impopolari scelte artistiche. Scelte a volte purtroppo sconfinanti in una sorta di fumosa e velleitaria megalomania, che non abbiamo tralasciato di 'criticare' in questo lungo special per doverosa obiettività!
Questo non é il primo articolo di Distorsioni su quello che rimane uno degli artisti essenziali della nuova onda anglosassone delineatasi alla fine degli anni '70, e certamente non sarà l'ultimo. Vi lascio al racconto di Alfredo Sgarlato e del sottoscritto delle fasi salienti della carriera artistica di Joe Jackson, e naturalmente alle sue 'grandi' indimenticabili, indimenticate songs! (wally)


Intro
A volte è difficile rispondere alla domanda 'che musica fa'? riferita ad un particolare artista. Per esempio, 'che musica fa Frank Zappa?': difficile dirlo, è zappiano e basta. Nel caso di Joe Jackson invece la risposta è facile: tutta. Pare che Joe, (Burton upon Trent 11/8/1954), ragazzo gracile e asmatico, per non dover fare sport a scuola scelse di iscriversi al corso di musica, scoprendosi molto portato. Nel 1979 pubblica nel giro di pochi mesi ben due album, molto riusciti, “Look sharp” e “I'm the man” (che saranno trattati presto su Distorsioni in un articolo a parte): pop(d'ispirazione mod-punk) di classe virato in new wave, sulla falsariga di Elvis Costello. Nel 1980 "Beat crazy" si fa più sporco e tribale, influenzato dal dub giamaicano e dai Police.


Gli anni '80: racconti dall'età del Jazz

Jumpin' Jive (1981, A&M)
Quindi, nel 1981, una svolta imprevedibile.
“Jumpin' Jive”
è un disco di swing, di quello più ballabile, chiamato appunto jive negli anni '40. In questo disco Joe si limita a cantare covers di grandi dello swing, di Cab Calloway come la title track, Lester Young (Jumpin' with simphony Sid), Glenn Miller (Tuxedo Junction) e soprattutto Louis Jordan come Is you is or is you ain't my baby, più lenta della media o Five guys named Moe o l'ironica We are the cats, “call and response” tra Joe e la band o You run your mouth dove Joe altera la voce. Della band originale rimane solo il bassista Graham Maby, poi ci sono Larry Tolfree alla batteria, Nick Weldon al piano e ovviamente una sezione di fiati: Pete Thomas (alto), Dave Bitelli (tenore e clarinetto), Raul Oliviera (tromba). Un disco che, come colse bene il compianto Alessandro Calovolo, potrebbe sembrare semplicemente il divertissement di un artista eclettico, ma invece è qualcosa di più importante: la nuova ondata cominciava ad arretrare e i musicisti iniziavano a scoprire un passato che potevano conoscere solo tramite i dischi. Jumpin' Jive fa il paio con lo splendido esordio dei Lounge Lizards, col rockabilly degli Stray cats, coi primi singoli di Weekend e Aztec Camera, ballate acustiche e ritmi sudamericani. Ma scava ancora più in passato, in quelle musiche da ballo che quando saranno suonate con le chitarre elettriche diventeranno il rock'n'roll.

Night and Day (1982)
Il disco della vera svolta è però il successivo Night and Day” (1982). Joe Jackson dichiara che la musica si fa con basso batteria e qualcos'altro per riempire. Nei primi tre dischi la chitarra, nel quarto i fiati, in questo accanto al fido Graham Maby e a Lary Tolfree a batteria e percussioni c'è la percussionista e flautista Sue Hadjopoulos e Joe suona sax alto e vibrafono, oltre a piano e tastiere. Il disco è ispirato da una tournèe a New York e dai suoi ritmi di vita. Il brano iniziale Another world invita ad addentrarsi in un mondo nuovo e sconosciuto. Gli intrecci tra un piano scintillante, l'organo e le molte percussioni sono la cifra stilistica del disco. Segue Chinatown, esotica e allusiva. I brani sono legati a formare una suite. Tv age e Target hanno testi critici verso le mode e le convenzioni. Chiude la facciata A Steppin' out: ritmo pop sintetico e un pianoforte incalzante fanno un singolo perfetto che avrà buon successo. Joe ci invita a uscire, a goderci la vita e la notte. La side B, quella “day” è invece lenta, d'atmosfera, a parte la sudamericana Cancer. Breaking us in two e le conclusive Real men e Slow song sono ballate struggenti, col violinista Ed Rynesdale in aggiunta alla band. In Real men Jackson attacca gli stereotipi maschili (ascoltatela in coppia con What makes a man a man di Aznavour, magari nella versione di Marc Almond). In Slow song chiede un po' di quiete al mondo circostante, soprattutto ai DJ , sommamente colpevoli di trasformare una cosa meravigliosa come la musica in martellanti ed amorfi set.
Night and day è un disco straordinario, il più personale nella carriera di Joe Jackson ed impossibile da paragonare ad opere di altri artisti. Non è propriamente un disco jazz, ma le armonie e l'uso di strumenti in gran parte acustici vanno in quella direzione. Non è un disco di world music, ma i ritmi sono ispirati tantissimo dai caraibi, al cha cha cha e soprattutto alla salsa di Tito Puente.

Body and Soul (1984, A&M)
Due anni dopo “Body and Soul” già nel titolo e nella foto di copertina suona come un omaggio ai dischi ed agli artisti dell'etichetta jazz Blue Note: Jackson si fa ritrarre nell'identica posa di Sonny Rollins dell'album Blue Note "Sonny Rollins Vol. 2" (1957), la famosa foto scattata da Francis Wolff. Adesso le atmosfere del jazz sono ben note ai ragazzi degli anni '80, che hanno imparato ad apprezzare tanto le improvvisazioni anarchiche dei Rip Rig + Panic quanto l'eleganza degli Style Council o la più mainstream commerciale Sade. C'è di nuovo una band numerosa al servizio di Joe. Curiosamente i brani che trovo meno convincenti sono quelli iniziale e finale, The verdict ed Hearth of ice, troppo pompose e solenni. Nel mezzo invece tante cose buone. Cha cha loco, lo dice il titolo, è un cha cha cha, ma niente che sia da balera, è un brano elegantissimo con un riuscito arrangiamento di fiati. Not here not now una nuova ballata struggente con un bell'assolo di flicorno di Michael Morreale. You can't get what you want é un funky incalzante con un funambolico assolo del chitarrista Vinnie Zummo, che diventerà uno dei cavalli di battaglia dal vivo di Jackson. Vertice del disco è Loisada (storpiatura gergale per Lower east side), strumentale dai molti temi che si intrecciano, inizio di piano e xilofono, poi alternanza della tromba col sax di Tony Aiello, quindi pianoforte e basso con un intermezzo quasi prog e di nuovo i fiati con crescendo zappiano, per ritornare indietro in una struttura circolare. Happy ending è il singolo di successo, brano alla Springsteen (alla Meat Loaf dicevano all'epoca i maligni) cantato in duetto con Elaine Caswell.


Big World (1985), Blaze of Glory (1989), 
Live 1980/1986, (1988) e le colonne sonore
In mezzo a questi due capi d'opera Jackson incide un disco minore, “Mike's murder”, colonna sonora dell'omonimo film inedito in Italia, solo in parte utilizzata dal regista. Un disco in gran parte strumentale, con qualche brano gradevole, come Cosmopolitan e Memphis. Passa inosservato e rimane fuori catalogo fino a pochi anni fa. Nei dischi seguenti, l'ottimo “Big World” (1985) e “Blaze of Glory”(1989) Jackson si dedica al più totale eclettismo: ascoltate un brano come Acropolis Now per credere; la pepata e pimpante Down to London (con un'armonica 'S.Wonder'iana da antologia!), oppure Sentimental Thing, dove ispirazione ed arrangiamento jacksoniani soccombono a suggestioni 'classiche'(George Gershwin, Leonard Bernstein). Tutte songs da Blaze Of Glory. Da Big World invece d'obbligo estrapolare un pugno di grandi composizioni, ennesime riprove dell'ormai acquisita, altissima e squisita classe ispirativa ed interpretativa del nostro: la stupenda ballata Hometown, nella quale Jackson torna sui luoghi della sua infanzia ed adolescenza; la (nuovamente) 'politica' Right and Wrong; la morriconiana Wild West dalla prodigiosa progressione; la sopraffina e cangiante Fifty Dollar Love Affair. Se c'é un album degli anni '80 che riesce a compendiare e conciliare nelle sue varie componenti (jazz, rock, pop, cultura sudamericana) l'ormai maturo, lussureggiante eclettismo di Jackson e della sua favolosa band quello é Big World. Non mancano però le dolenti note in questa decade, cui appartengono anche tre tentativi di Joe Jackson come compositore di colonne sonore: oltre la già citata Mike's Murder, la tronfia Will Power (1987), lunghe, noiose composizioni orchestrali (il riferimento rimane sempre Gershwin ma anche parametri 'classici') in cui l'artista inglese purtroppo sconfina in accentuate tendenze 'megalomani' ed il più riuscito Tucker (1988), ricco di suggestioni ragtime, jazz, jive e blues di matrice americana(Shape In a Drape).
Per fortuna a riscattare questi passi falsi ci pensa un monumentale splendido doppio vinile dal vivo "Live 1980/1986" registrato ad Utrecht, Tokyo, Melbourne, Manchester, Sidney, Vancouver durante 4 diversi tour mondiali con quattro diverse formazioni: il Beat Crazy Tour del 1980 con il new wave trio originale, il Night and Day tour del 1982/1983 con il quintetto dominato dalle tastiere, il Body and Soul tour del 1984 con una formazione ricca di fiati, ed infine il Big World tour del 1986 con il ritorno ad un quartetto dedito ad un essenziale rock & roll. Ascoltiamo in tutte le formazioni Joe Jackson impegnatissimo ai keyboards, la sua nuova grandissima passione nata negli eighties e poi approfondita negli anni successivi; Graham Maby, il fedelissimo bassista sin dai primissimi giorni, testimone di tutte le diverse fasi musicali di Joe, prodursi in soli stratosferici e ricchi di grandissima inventiva; versioni lunghe e memorabili, ricche di nuovi arrangiamenti e novità strumentali di Steppin' Out, Got The Time, You Can't Get What You Want (Till You Know What You Want), Look Sharp!, Is she really going out with Him, Fools in Love, Beat Crazy e tantissimi altri brani 'storici' della Joe Jackson band. Lo stato di grazia generale di questo doppio live fu ben documentato anche in una videocassetta "Live In Tokyo" della durata di un'ora e quaranta, interamente realizzata in Giappone uscita nello stesso anno, caldamente consigliata: vi si può godere tutto il magnetismo delle performances dell''uomo con l'impermeabile'.


Gli anni '90: Laughter & Lust (1991)
La smania della musica classica
Dopo, un poco riuscito album pop (dal punto di vista delle vendite), "Laughters and Lust"(1991): nondimeno un'opera ricca di songs brillanti come Stranger Than Fiction, Hit Single, nelle cui liriche bersagli del proverbiale sarcasmo di Joe sono questa volta i travagli l'amore e la smania delle case discografiche di raggiungere a tutti i costi il top delle classifiche di vendita. Come tralasciare poi la travolgente Obvious Song nella quale ad essere condannate sono 'ovviamente' le super-potenze e le guerre messe su solo per venedere armi, ma non manca la zampata polemica: 'non c'é bisogno di essere hippie per credere nell'amore e nella pace!'. L'evanescente, forse troppo ambiziosa Trying To Cry sino all'ottima, grintosa cover dei Fletwood Mac/Peter Green Oh Well. Anche questo disco fu celebrato in un bellissimo VHS, 'Laughter & Lust Live'', con una formazione allargata a Ed Roynesdal (keyboards, violin), Mindy Jostyn (violin, harmonica, vocals, guitar) oltre a Tom Teeley (guitars, piano, piano) ed i fidi Sue Hadjopoulos (percussion) e Graham Maby.
Joe incide quindi tre album quasi completamente strumentali ispirati alla musica classica e 'seria' continuando in modo alquanto più felice gli esperimenti di Will Power e Tucker, Joe Jackson: Night Music (1994), Heaven and Hell (1997) Jackson: Symphony 1> (1999), improntate ad un sincretismo compositivo denso di moltissime intuizioni felici e suggestive (The Man Who Wrote Danny Boy, Nocturne n.4) (con la partecipazione di Suzanne Vega e Jane Siberry) che confermano in modo lapalissiano la ambivalente tendenza di Jackson a spaziare nello sconfinato scibile musicale, e la sua insofferenza a rimanere confinato nei clichès del musicista rock. Si tratta di opere che necessitano di predisposizione e dedizione all'ascolto non indifferenti, troppo lontane dalla primaria identità rock e dalla sensibilità 'mainstream' per cui Jackson é diventato un artista-culto in tutto il mondo, opere che deludono anche i fans accaniti: tre album (diciamo noi) che, col senno di poi, varrebbe decisamente la pena di riscoprire e rivalutare.


Il nuovo millennio: il ritorno al rock
Summer In The City - Live in New York (2000),  Night and Day II (2000),
Two Rainy Nights (2002), Joe Jackson Band: Volume 4 (2003),
Afterlife (live, 2004), Rain (2008), Joe Jackson At The BBC (2008)
Sembrerebbe un artista destinato all'oblio, quando nel 2000, a terzo millennio appena iniziato esce un altro formidabile live registrato nel 1999 ad imporlo nuovamente a fedelissimi fans spartis in tutto il globo: "Summer in the City: Live in New York" che, come per il "Live 1980/1986" che aveva siglato gli eighties, lo riporta prepotentemente sulla strada maestra del rock, anche se strano a dirsi le chitarre qui mancano del tutto. E' una reinterpretazione 'cameristica' del rock, filtrato dalle recenti esperienze 'classiche', attraverso nuovi smaglianti arrangiamenti in trio, col nostro impegnato serialmente alle tastiere e l'ottimo Gary Burke alla batteria oltre naturalmente a Graham Maby al basso. Sembra un'esplorazione del dna musicale di Jackson e del suo immaginario 'americano' con stupende covers di Summer In The City dei Lovin' Spoonful, For Your Love (Yardbirds) in medley con la gloriosa Fools In Love, Eleanor Rigby dei 4 di Liverpool in medley con Hometown, It's Different For Girls, Be My Number Two. Quindi King Of The World dei grandi Steely Dan (vecchia passione di Joe, dall'epoca di Night and Day - Any Major Dude Will Tell You), Mood Indigo di Duke Ellington, The In Crowd (Billy Page/ Ramsey Lewis Trio) in medley con Down To London. Un album da fare assolutamente vostro.
In ottobre 2000 a sorpresa esce “Night and day 2”. Sin dal titolo Joe Jackson propone un ritorno alle atmosfere del suo disco migliore, come in Hell Of A Town tanto che in due brani, tra cui l'ottima Glamour and pain con la brava violinista Allison Cornell ai vocals viene citato l'attacco di pianoforte di Steppin' out. Di nuovo musica senza chitarre o fiati, il piano domina, tastiere non invadenti e molte percussioni,. In Love got lost Joe lascia il microfono a sua maestà Marianne Faithful ed è magia. Bella anche l'arabeggiante Why cantata da Sussan Deihym, Dear Mom potrebbe essere un outtake di Andy Partridge. La qualità di scrittura dei brani è molto buona ma il suono è più pulitino e sintetico. Certo, dove c'era l'avanguardia oggi emerge la maniera, la nostalgia aleggia, ma è lo stesso effetto che si prova ascoltando molti gruppi nuovi di quegli anni. Tanto vale quindi ritrovare il vecchio leone Joe. Nel 2002 esce il live "Two Rainy Nights" (Live In The Northwest - The Official Bootleg) registrato nel 2001 a Seattle e Portland. Ma ecco il vero ritorno delle chitarre: Joe Jackson torna a sorpresa nel 2003 ad incidere con la stessa band dei primi tre magici, 'seminali' dischi incisi in piena epoca punk-new wave: oltre Maby al basso Dave Houghton alla batteria e vocals e Gary Sanford, grandissimo ed anfetaminico chitarrista, impegnato anche ai vocals. Il disco é significativamente intitolato "Volume 4" e ritrova esattamente lo stile di quei primi tre album, fortificato da una nuova maturità compositiva ed espressiva: e non mancano tra gli 11 brani in studio nuove gemme di illuminatissimo pop-rock contemporaneo, nei quali il quartetto riesce miracolosamente a rifocalizzare quella alchimia magica dei primi tre albums ed a riproporre moduli ritmicamente snelli ed agili, armonicamente sofisticati che si rivelano ancora vincenti: Chrome é particolarmente ispirata, e poi Dirty Martini, Take It Like A Man, Awkward Age, non c'è davvero che l'imbarazzo della scelta. In una Limited Edition poi del cd é incluso un dischetto registrato dal vivo nel 2002 allo storico Marquee di Londra dove la band ripropone con rinnovata energia 6 vecchi cavalli di battaglia come One More Time, On Your Radio,Got The Time ed é un davvero un bel sentire! Ma Volume 4 é un disco-meteora perché dopo un altro ottimo live, "Afterlife" del 2004 (Steppin' Out), 5 anni dopo nel 2008 esce il nuovo lavoro in studio, "Rain", altro disco eclettico: Jackson torna nuovamente sui suoi passi e bandisce ancora una volta le chitarre dall'organico della band a favore del suo pianoforte. Un artista ritrovato. Vi rimandiamo all'articolo di Distorsioni qualche riga più su linkato per saperne di più su Rain, per la trattazione dell'imperdibile doppio cd "Joe Jackson At The BBC", uscito nel 2009, e per tutte le ultime news riguardanti l'artista, in attesa del suo nuovo lavoro in studio che speriamo vivamente possa essere imminente.


Alfredo Sgarlato e Wally Boffoli

 Joe Jackson sito ufficiale

Joe Jackson discography:
Look Sharp! (1979, A&M)
I'm the Man (1979, A&M)
Beat Crazy (1980, A&M)
"The Harder They Come" (EP - 1980)
Jumpin' Jive (1981, A&M)
Night and Day (1982, A&M)
Mike's Murder Movie Soundtrack (1983, A&M)
Body and Soul (1984, A&M)
Big World (1986, A&M)
Will Power (1987, A&M)
Tucker Original Soundtrack (1988, A&M)
Live 1980/86 (1988, A&M)
Blaze of Glory (1989, A&M)
Laughter & Lust (1991, Virgin)
Night Music (1994, Virgin)
Heaven & Hell (1997, Sony)
Symphony No. 1 (1999, Sony)
Summer in the City: Live in New York (2000, Sony)
Night and Day II (2000, Sony)
Two Rainy Nights (2002, Great Big Island)
Volume 4 (2003, Rykodisc)
AfterLife (2004, Rykodisc)
Rain (2008, Rykodisc)
Live at the BBC (2009, Spectrum)