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giovedì 21 luglio 2011

MOVIES: ”Il nastro bianco” (2009, Michael Haneke, 144 min.)

“Il nastro bianco” (“Das weiße Band - Eine deutsche Kindergeschichte”) di Michael Haneke si configura dal punto di vista formale, innanzitutto come l’accostamento simbolico di una luminosità nivea, preorganica, e di un’oscurità intensa, tattile, che ci riporta, parzialmente, ad alcuni esiti del cinema tedesco d’ispirazione espressionista. La luce che sgrana la tramatura dei volti sovraesposti non conferisce ad essi alcuna materialità, ma piuttosto una spettralità indifferente, priva di spessore, mentre le ombre prefigurano un essere per la morte che ha perduto ogni orizzonte progettuale, qualunque leggerezza possibile.
L’opera del regista tedesco assume concettualmente uno sguardo lucido e disincantato rivolto non soltanto alla ristretta comunità di un villaggio del primo decennio del novecento, quanto piuttosto alle derive assiologiche e culturali dell’intera civiltà occidentale piegata alla sclerotizzazione dei propri apparati sociale e istituzionale. Appartengono a quest’epoca gli studi rivoluzionari della psicoanalisi e della post-metafisica, i quali riflettono la radicalizzazione di una violenza quotidiana, familiare e vissuta come necessaria, all’interno della comunità, al fine di preservare l’ordine costituto a partire dal nucleo domestico, momento originario, secondo il pensiero hegeliano, della formazione della società civile.
Il potere che si pone, dunque, come contraltare alla sventura della destabilizzazione, concepita come foriera di una morte che si riveli annullamento di una fragile identità collettiva, opta per la morte differita dell’individuo, del suo slancio vitale, critico e creativo. Le convenzioni, l’obbedienza perpetrano se stesse nullificando qualsiasi approccio ludico e spavaldo a una vita esperita in prima persona. Le figure che esplicitano una volontà di potenza tale sono da ricondurre a tre personaggi emblematici del film, che rappresentano le autorità religiosa, parentale e, infine, politico-istituzionale e che si pongono, alla fine dell’ottocento, come i cardini, per l’appunto, del controllo sociale dell’intero mondo occidentale. Il potere si rivela il meccanismo privilegiato del possesso, considerato unica possibilità di autoconservazione; Il pastore possiede i suoi figli così come il medico e il barone, il quale estende tale assunto a tutti i suoi sottoposti. Il film, idealmente, potrebbe ricollegarsi ad altre opere cinematografiche che indagano il fenomeno del male nel suo complesso rapporto con le piccole realtà provinciali o contadine. Il negativo è rivelato dall’introduzione dell’alterità rappresentata dal personaggio centrale dell’ospite. L’ulteriorità che quest’ultimo rende immediatamente presente diviene il catalizzatore del male, capro espiatorio tramite il quale però non si realizza il rinnovamento necessario delle proprie forme culturali e che conduce, attraverso la violenza, a un sacrificio cruento privo della valenza simbolica attribuibile all’omicidio rituale delle società “primitive”. Penso a lavori quali “Dogville” o a “Il vento fa il suo giro”. Nel film di Hanake il male è un fenomeno interno, endemico, persino più tragico nel suo rinnegare qualunque espiazione, qualsiasi catarsi seppure nella deformazione folle della fobia dello straniero. L’analisi del film non può naturalmente prescindere da uno sguardo attento alle singole scene e all’organizzazione delle inquadrature. Interessante a tal proposito è la relazione tra il suono e l’immagine che porta lo spettatore ad avvertire un senso d’insufficienza rispetto a ciò a cui sta assistendo. Le voci fuori dal quadro, che giungono attraverso una porta chiusa o al lato dell’inquadratura appaiono frammentate, ovattate, quasi la fonte dalla quale provengono risulti inattingibile, mai pienamente fruibile. Appare significativa inoltre la dicotomia visiva che si stabilisce tra i primissimi piani e ciò a cui la nostra visione non ha accesso se non parzialmente.
Un altro particolare sul quale vorrei soffermarmi si riferisce al rapporto tra la comunità del villaggio e il rituale quotidiano e sociale dell’assimilazione del cibo. Ogni qual volta i personaggi del film si apprestano a mettersi a tavola, per la condivisione dei pasti, emerge, con sorprendente chiarezza, la feroce estraneità che regola i rapporti di non reciprocità tra i componenti della famiglia. I dialoghi avari generati al desco rivelano l’impossibilità di qualsiasi manifestazione d’affetto. Non è un caso che il regista, in più di un’occasione metta in scena un momento di aggregazione ricco di rimandi simbolici, e nel quale i legami sociali dovrebbero incontrare un rafforzamento indispensabile delle proprie istanze.
Laura Scaramozzino

La trama
Il film si svolge in un villaggio della Germania protestante del nord tra il 1913 ed il 1914, poco prima dell'inizio della prima guerra mondiale. Nei mesi precedenti all'inizio della guerra, la vita del villaggio è sconvolta da alcuni fatti strani che appaiono inspiegabili: il medico del villaggio cade da cavallo, e si ferisce, a causa di una corda tesa nell'erba; il figlio del barone, proprietario terriero, viene seviziato; la finestra della camera di un bambino in fasce viene lasciata aperta in pieno inverno causandone quasi la morte; il fienile del barone viene dato alle fiamme; ed infine il piccolo figlio della levatrice selvaggiamente torturato. La vita delle diverse famiglie ne è turbata, senza che nessuno trovi nè la ragione di questi fatti nè i colpevoli. Solo il maestro del villaggio ha un'intuizione.                  (fonte: Wikipedia)

Il trailer italiano




Scena dal film
Scena dal film

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