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mercoledì 1 dicembre 2010

THE HEADLESS HORSEMEN: "Can't help but shake" (1987, Resonance)

Non sembrava destinato a durare.
Perché sembrava, e forse lo era, un divertissement.
Una cosetta da dopolavoro assemblata dai nuovi disoccupati della scena garage newyorkese: Peter Stuart dei Tryfles, Elan Portnoy dei Fuzztones, Chris Cush degli Amps e Celia Farber anche lei ex-Tryfles, presto rimpiazzata da Ira Elliott dei Fuzztones prima e quindi da David Ari per le ultime sessions del disco e che più tardi siederà dietro la batteria per i Devil Dogs e i Times Square. E perché allora gli si preferivano spesso dischetti meno complessi e più “selvaggi”.
E invece, riascoltato oggi, "Can't help but shake" ha conservato intatto il suo fascino. Anzi, è diventato anche più bello. Perché è si un disco che si nutre di certa tradizione sixties come molti dell’ epoca, ma lo fa in una maniera diversa. Con un respiro tutto suo e i boccagli attaccati alle bombole di ossigeno del power pop dei Raspberries, dei Flamin’ Groovies, dei Last e dei Plimsouls.
E’ su questo tavolo da gioco che Elan e Peter si giocano la reputazione conquistata negli anni di militanza nelle rispettive band, spostando il tiro verso un suono aperto a influenze folk-rock, Merseybeat (la title-track è un pezzo degno di Gerry and The Peacemakers), psichedelia west-coastiana (Her only friend è un dolcissimo richiamo all’epoca dei fiori, power-pop e inflessioni jungle-beat degne di Bo Diddley (Same old thing) così come a certo freakbeat figlio dei Pretty Things (Not Today, tutta giocata sul filo di un’ armonica e arabeschi fuzz) e alla turbe psichiche degli Elevators (se non ci vedete le spirali di Rollercoaster dentro I see the truth cominciate a preoccuparvi, NdLYS).
Pochi possono contare su un lavoro di chitarre e di voci così prezioso nel giro neo-garage in cui gioco-forza vengono infilati. Chris del resto è un fanatico e un intenditore di strumentazione vintage e riesce a trovare il suono adatto ad ogni esigenza. Finirà infatti di lì a poco a gestire il più rinomato negozio di strumenti di tutta New York, al n. 102 di St Mark's Place.
E se la versione frastornata e drogata di Cellar Dwellar non può competere con quella al testosterone dei Fuzztones, le riprese di Bitter Heart dal repertorio dei Tryfles e di I see the truth da quello degli Optic Nerve fanno il vuoto tutt’intorno.
"Can't help but shake" è album dalla bellezza folgorante.
Una nugget per palati fini e per allucinate go-go dancers con le curve da vixen.
Poi, velocemente come erano arrivati, scompaiono.
Prima di darsi alla macchia sporcano qualche altro panetto di vinile:
un 12” con quattro pezzi sempre per Resonance intitolato "Gotta Be Cool!" e un introvabile EP inciso sotto il falso nome di Chris Such and His Savages e pubblicato per la piccola Chaos Records. Un divertito omaggio all’ epoca del Merseybeat con quattro classici (Sick and tired, Stupidity, Leave my kitten alone e I'm a hog for you) recuperati con gusto e classe inequivocabili. Ne registrano anche un quinto di pezzo, una cover di Arthur Alexander che però non soddisfa nessuno e resta a marcire nei cassetti degli studi Coyote e fanno un mucchio di concerti come cover-band, chiamando a suonare pure Tom Ward, uno dei becchini più impegnati dell’epoca.
Si riformeranno di tanto in tanto. Per divertirsi, come credevamo avessero fatto in quell’ormai lontano 1987. E lasciandoci invece uno dei più bei dischi di pop music del decennio.

Franco Lys Dimauro

Can't Help But Shake
See You Again (from Gotta Be Cool! 1988)
Headless Horsemen - Gotta Be Cool 12" EP - Side 2 - 1988
Late for the sky

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