L’ ultimo capolavoro della stagione d’ oro del rock australiano si intitola “Sour Mash” ed è nero come il bitume. Proprio mentre Nick Cave guarisce gradatamente dal licantropismo della giovinezza e i Gun Club abdicano dal ruolo di leader del revisionismo roots degli anni Ottanta, i Beasts of Bourbon escono fuori con un disco che affonda i piedi nelle latrine del blues più orrido ed osceno. Il canto di Tex Perkins è un gargarismo etilico che insudicia il corpo già sconcio di canzoni come
Playground o These are the good old days. Il ritorno delle Bestie, dopo la separazione che era seguita alla pubblicazione di “The Axeman ‘s Jazz”, si consuma in una giostra di blues sfigurati che rimandano alle gesta di un vecchio serial killer come Captain Beefheart. Analogo è il gusto per lo sfregio, per la deturpazione e per il vilipendio alla sacralità del blues. Un oltraggio lungo 52 minuti e 15 canzoni. Registrato in soli due giorni agli Electric Avenue Studios di Sydney con James Baker costretto a suonare nel pianerottolo per sfruttare l’ eco naturale della tromba delle scale, “Sour Mash” trasforma l’ hillbilly rinsecchito e il country disidratato del primo album in una catramosa poltiglia blues. Una ghiandola gonfia di fiele che schizza il suo veleno bilioso. Un’ arteria recisa da cui sgorga sangue iniettato di bourbon. Percorso da una perversione accidiosa e misantropa, Sour Mash è un decalogo sulla sepoltura del blues e sull’ oltraggio necrofilo alla sua ultima, definitiva dimora.
Franco Lys Dimauro
Beasts Of Bourbon
Nessun commento:
Posta un commento