Dopo la luce il baratro, così mi potrei sentire alla luce dei miei recenti ascolti (i Battles di "Glossdrop") dopo l’esperienza sonora dell’undicesimo lavoro degli Oneida band di Brooklyn che trae il loro nome da una tribù indiana e passati recentemente da una formazione a tre a neo quintetto. In "Absolute II", che chiude la trilogia denominata “Thank Your Parents” iniziata con "Preteen Weaponry" del 2008 e proseguita con il triplo "Rated O" dell’anno successivo, infatti, non c’è quasi traccia delle
impostazioni kraut-rock che caratterizzavano fino ad ora la trilogia, in particolare in Preteen Weapony, dove la predominante monotonia del disco era caratterizzata da solidi ritmi di batteria a dettare il tempo a complesse trame di chitarra e synth e a manifestare una tensione controllata quasi dando l’impressione di essere pronta ad esplodere, salvo poi non farlo e lasciarci con un senso di impotenza davanti ad un monolite che avanza in maniera lenta ma inesorabile senza lasciarci via di fuga.
Questo lavoro, invece, si pone sin dalla copertina come un disco scuro, quattro tracce fatte di lunghe e funeree composizioni caratterizzate da chitarre monocordi, dubbing e delay al computer, tra il post-industrial di Gray area e l’ambient di un Brian Eno in acido della title track alla voce trattata al punto da renderla quasi inumana come in Pre-Human alle atmosfere ostili di Horizon, a confermare l’ennesima virata di stile della formazione Newyorkese che qui appronta un disco minimale all’estremo.
La sensazione generale è di trovarsi quasi immersi in una suono subacqueo e paludoso dal quale non si vede via di uscita viste le oscure profondità in cui veniamo spinti, un pò come in quei film horror dove la protagonista viene tirata verso il fondo dal cattivo di turno in una sequenza lenta e inesorabile e dove la voce vorrebbe uscire a squarciagola ma viene annegata dall’ambiente circostante. Probabilmente, a dare questo taglio al loro nuovo lavoro hanno contribuito le recenti esperienze delle performances a nome Oneida Presents the Ocropolis, fatte di sets di ore divise tra suoni e visual-art che hanno, probabilmente, spinto il gruppo americano verso direzioni più lontane della semplice forma stoner-rock che ne ha caratterizzato gli inizi e li aveva fatti affiancare a bands quali MC5, Suicide (in questo ultimo lavoro possiamo trovare molte assonanze con le atmosfere di Martin Rev) e Kyuss. Chissà se è un caso che questo disco arrivi a chiudere la trilogia così come sarà un caso la scelta di non promuoverlo quasi per niente, così che i primi commenti sono usciti solamente da Pitchfork; sono circolate voci che si tratti quasi di un dispetto alla casa discografica così da rescindere prematuramente il contratto. Insomma, un album che sicuramente dividerà i fans del gruppo tra i rockers più puri, sicuramente scontenti di un album che di “rock” ha ben poco, e gli amanti dei suoni più avant-garde ben inclini ad apprezzare le sperimentazioni sonore di cui il disco è sicuramente ricco, in attesa di vedere dove ci porterà nel futuro il trip acido di una delle band più lungimiranti e degne di attenzione dell’ultimo decennio.
Ubaldo Tarantino
Horizon
Jagjaguwar Records
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